Marx e il marxismo
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Marx e il marxismo

Gregory Claeys, Alessandro Manna

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Marx e il marxismo

Gregory Claeys, Alessandro Manna

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Karl Marx continua a essere il piú importante pensatore della storia. I movimenti politici che si rifanno al suo nome hanno ridato speranza alle innumerevoli vittime della tirannia e dell'oppressione. Ma una volta raggiunto il potere, essi si sono rivelati spesso disastrosi e hanno mietuto milioni di vittime. Il pensiero marxiano conserva intatta la sua rilevanza anche a fronte delle problematiche poste dal mondo contemporaneo. Se dopo il crollo dell'Unione Sovietica la reputazione del grande pensatore appariva compromessa, una nuova generazione ha cominciato a leggere Marx al cospetto delle ricorrenti crisi finanziarie, della crescente disuguaglianza sociale e di un acuito senso di ingiustizia e distruttività propri del capitalismo di oggi.«Un libro davvero notevole. La quantità di conoscenze e la chiarezza dell'esposizione rendono questo studio una scelta ottimale per chi sia in cerca di una riflessione autorevole e a tutto campo su Marx e il marxismo».
«The Times Literary Supplement»

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2020
ISBN
9788858432990
PARTE PRIMA

Marx

Capitolo primo

Il giovane Karl

Karl Marx nacque il 5 maggio 1818 a Treviri, un piccolo centro della Renania vicino al confine francese che all’epoca contava all’incirca dodicimila abitanti1. Fino a poco tempo addietro Treviri, perlopiú cattolica e liberale, era stata in mano ai francesi: un’occupazione piuttosto pacifica durata una ventina d’anni, dopodiché era stata annessa al Regno di Prussia. In città erano in tanti a simpatizzare per gli ideali rivoluzionari. Tra questi anche il futuro suocero di Marx, Ludwig von Westphalen. Tanti, negli anni trenta, si sarebbero avvicinati al socialismo sansimoniano. Il padre di Marx discendeva da un’antica stirpe di rabbini. Quando i prussiani obbligarono gli ebrei ad abbandonare le loro professioni Hirschel ha-Levi Marx prese il nome di Heinrich Marx, si convertí al protestantesimo e cominciò a esercitare la professione legale. Aveva anche lui simpatie liberali, era per l’allargamento del suffragio e contribuiva al programma locale di lotta alla povertà. Sua moglie Henrietta, invece, proveniva da una famiglia di rabbini olandesi.
Il giovane Karl trascorse gran parte degli anni di scuola in compagnia dei classici, da Omero a Ovidio. Come studente, però, non si distinse particolarmente. Il direttore della sua scuola era un repubblicano, fervido ammiratore di Rousseau e Kant. Secondo lui la Rivoluzione del 1789 aveva contribuito a rinsaldare i principî illuministi della libertà e dell’uguaglianza. Il giovane Marx assimilò queste idee e in uno dei suoi primi scritti, nel 1835, sostenne che la scelta della professione doveva ispirarsi al «bene dell’umanità» e alla «nostra propria perfezione», perché l’uomo piú felice è «colui che ha reso felice il maggior numero di uomini»2. A diciassette anni era già mosso dal desiderio di definire «la natura dell’uomo», nella quale vedeva una «scintilla della divinità, un entusiasmo per il bene, un tendere verso la conoscenza, un desiderio di verità»3 – forse la migliore definizione che egli dette mai di se stesso. Trentacinque anni dopo, discutendo la questione irlandese in una lettera alla figlia Laura e al genero Paul Lafargue, avrebbe scritto che auspicava sí un inasprimento della lotta di classe ma che in parte era mosso pure da «sentimenti umanitari»4. Difatti l’umanità sarebbe sempre stata il filo conduttore della sua vita. «Chi ha la fortuna di potersi dedicare a studi scientifici deve anche essere il primo a mettere le sue cognizioni al servizio dell’umanità. “Lavorare per il mondo” era uno dei suoi detti preferiti», ricordò una volta Lafargue5. Non sarebbe poi cosí fuorviante parlare di un «umanitarismo cosmopolita» marxiano, pur sapendo che Marx si tenne sempre a debita distanza dal romanticismo e dal sentimentalismo impliciti in formulazioni di tal genere.
Nell’ottobre del 1835 lasciò Treviri per andare a Bonn, dove si iscrisse alla facoltà di diritto. Tutto faceva pensare che avrebbe intrapreso la carriera accademica. E invece fece la classica vita dello studente ribelle: tra una bevuta e una rissa passò persino una notte in guardina. Nell’ottobre del 1836 si trasferí a Berlino, dove abbandonò gli studi di diritto per dedicarsi alla filosofia. Poi si stancò di Berlino, si iscrisse a Jena e nel 1841 presentò una dissertazione intitolata Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro, con la quale ottenne il dottorato in filosofia. In questo scritto considerava Epicuro come un precursore del materialismo illuminista francese ma anche dell’autocoscienza hegeliana, che nella prefazione alla dissertazione definí «divinità suprema»6.

Hegel e i giovani hegeliani.

Il giovane Marx pensava che bisognava scardinare la realtà per avere finalmente accesso alla sua piú intima essenza. Per questo si attribuí un ruolo d’avanguardia nello sviluppo della storia della filosofia moderna. Era convinto di poter riuscire a risolvere i radicali paradossi che erano scaturiti dallo scontro fra l’Illuminismo e quella che avrebbe ben presto definito la «società borghese»7. Per lui tutto cominciò da un confronto serrato con il piú grande filosofo tedesco dell’epoca, Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831).
Per abbordare Hegel, e da lui risalire poi a Marx, è bene conoscere anche solo a grandi linee i quattro ambiti generali della sua riflessione: la metafisica, la filosofia della storia, la teoria politica e il metodo, ossia la celebre «dialettica». Come per Platone il punto di partenza della filosofia hegeliana era un idealismo puro. Per lui solo il mondo dello Spirito (Geist), la ragione autocosciente, era reale: «una “cosa” non si dà, è solo un pensiero»8. Hegel definí la natura umana e la storia a partire dal desiderio di libertà del genere umano. Per lui questo desiderio funzionava come un processo in cui lo Spirito prende progressivamente coscienza della sua libera natura. Come mostrato nella Fenomenologia dello spirito (1807), l’umanità progredisce da una forma ingenua di empirismo – una fase in cui conosciamo solo ciò che si presenta ai nostri sensi – verso il suo fine logico, lo stadio finale della conoscenza dell’Assoluto, o di Dio, o ancora della stessa natura dello Spirito. Il progresso dello Spirito verso l’autocoscienza è «dialettico» nella misura in cui ogni stadio si evolve costantemente in quello successivo attraverso una serie di contraddizioni. Ogni fase nega la precedente ma conserva qualcosa di essa: un processo che Hegel chiamava «Aufhebung» o «superamento». A ogni stadio l’autocoscienza «aliena» se stessa nella natura, sviluppandosi nella storia ed emergendo nuovamente nell’autocoscienza dell’umanità, seguendo una progressione che procede dal basso verso l’alto.
Oggi pochi lettori riescono ad afferrare il senso di questi concetti se sono presentati in termini troppo astratti. Proviamo a intendere lo Spirito hegeliano come una metafora del progressivo sviluppo dell’umanità, uno sviluppo in cui il suo desiderio di libertà si evolve concretamente attraverso le istituzioni e le relazioni sociali reali: in tal modo, forse, la sua teoria comincia a risultare piú comprensibile. Secondo Charles Taylor, Hegel voleva riuscire a definire «una vita intera, integrata», una vita in cui l’uomo fosse «tutt’uno con se stesso e gli uomini l’uno con l’altro nella società»9. Un’ambizione non da poco! Per Hegel ciò significava in primo luogo riunire le nostre anime alienate in Dio, nell’Assoluto, riconoscere che il mondo è una nostra creazione e superare l’«alienazione» (Entfremdung), ossia il fatto di non riuscire ad approdare a tale riconoscimento. In secondo luogo significava acquisire la «coscienza di appartenere a una comunità»10. In tal senso il suo modello era quello dell’Atene periclea, la cui «armonia spontanea», secondo certi interpreti, fu la vera «utopia» del suo pensiero11.
All’epoca grande successo ebbe, in particolare, la filosofia hegeliana della storia, che analizzava il progredire dello Spirito e dell’autocoscienza attraverso una serie di stadi storici successivi. Con Hegel la storia sembrava finalmente avere un «senso». «Ciò che distingueva il modo di pensare di Hegel da quello di tutti gli altri filosofi era l’eccezionale senso storico che stava alla base del suo pensiero», disse una volta Friedrich Engels (1820-1895), che accompagnò Marx nella sua avventura intellettuale. Egli, insomma, «fu il primo che cercò di dimostrare l’esistenza nella storia di uno sviluppo, di una coesione interiore»12. Prendendo le mosse dal dispotismo persiano, un regime in cui solo il monarca era libero, l’umanità era passata secondo Hegel alla fase della polis greca, in cui per la prima volta era apparsa una certa coscienza della libertà, seppur per pochi; in seguito era approdata prima a Roma, dove la schiavitú mostrava che la libertà non era ancora universale, e poi al cristianesimo, che aveva riconosciuto l’umanità come comunità di esseri spirituali; quindi ancora al mondo germanico. In quest’ultima fase la Riforma aveva fatto emergere un «soggetto» che finalmente «si sa libero»13. Ma come potevano i moderni emulare l’armonia degli antichi? Quella della Grecia classica era una virtú civica, dunque non privata, e ormai non si poteva piú tornare indietro: l’individualismo aveva avuto definitivamente la meglio sul repubblicanesimo di un tempo. Il giovane Hegel era rimasto profondamente colpito dalla Rivoluzione francese, e quando Napoleone entrò a Jena, nell’ottobre del 1806, disse di aver visto l’«anima del mondo» a cavallo. Secondo certi interpreti la visione hegeliana della ragione è una sorta di analogo del Culto della Ragione della Rivoluzione francese14. Negli anni della maturità, però, egli avrebbe pensato che era piuttosto la moderna Prussia a incarnare il nuovo stadio del progresso dello Spirito.
Questo suo modello, tuttavia, pur essendo solidamente costruito, presentava un grosso problema: come spiegare la profonda mancanza di armonia che caratterizzava l’era del commercio e dell’industria? Hegel fu il primo filosofo tedesco a confrontarsi con la società commerciale. Secondo lui la società civile riconosceva contemporaneamente l’individualismo e i rapporti d’interdipendenza tra individui, rapporti alimentati in maniera sempre piú serrata dal «sistema dei bisogni e dei desideri». Qualcosa, però, rischiava di vanificare ogni sogno di abolizione della servitú e di conquista della libertà. È proprio da questo punto che Marx avrebbe preso le mosse per costruire il suo sistema di pensiero.
Intorno al 1793 Hegel cominciò a interessarsi all’economia politica e in particolare al pensiero degli scozzesi del XVIII secolo: James Steuart, Adam Ferguson e Adam Smith15. Questi autori avevano studiato il progresso dell’umanità, che per loro si era mossa da un’iniziale condizione di «rozzezza» o «semplicità» per giungere alla «raffinatezza» moderna. Fenomeni come il nascente mercato internazionale, l’introduzione delle macchine nel processo lavorativo, la sempre piú specializzata divisione del lavoro e la concentrazione della produzione nelle officine, di cui gli scozzesi furono i primi testimoni, ben si adattavano alla crescente domanda di materie prime e piú in generale a una proliferazione virtualmente illimitata dei bisogni umani. Molto meno scontato era invece che i lavoratori riuscissero davvero a trarre beneficio da tali progressi. Ad Adam Smith, in particolare, è tradizionalmente attribuita l’idea secondo cui le moderne società industriali sarebbero caratterizzate da una sempre maggiore libertà, una libertà...

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