Fronte di scavo
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Fronte di scavo

Sara Loffredi

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Fronte di scavo

Sara Loffredi

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Nell'agosto del 1962, nel centro esatto del Monte Bianco, viene abbattuto l'ultimo diaframma di granito che separa l'Italia dalla Francia. Gli operai hanno sopportato crolli, ritardi e imprevisti, procedendo palmo a palmo per 5800 metri, immersi nel fango, esposti alle emorragie d'acqua che frantumano la roccia. Nel ventre della montagna tutti gli uomini sembrano piccoli. Ma Ettore sente che quell'impresa visionaria lo riguarda, perché c'è un fronte di scavo anche dentro di lui, e quella meravigliosa cosa da pazzi vale una vita intera.All'inizio degli anni Sessanta, centinaia di uomini sono impegnati nella piú grande operazione di «chirurgia geografica» del secondo dopoguerra: il traforo del Monte Bianco. Devono procedere spediti, e soprattutto dritti, altrimenti la galleria italiana e quella francese non s'incontreranno. Ettore è un uomo di città, chiamato in valle per partecipare al progetto. I calcoli e le misurazioni sono il suo pane quotidiano, l'ingegneria il suo mestiere; di colpo viene precipitato in uno scenario che gli allarga la mente e il respiro. Insieme a lui ci sono Hervé, capocantiere di poche parole che di quei sentieri conosce ogni segreto, e Nina, indomita, che lavora alla mensa ed è sola con un figlio piccolo. Il fronte di scavo avanza, mentre Ettore impara a conoscere loro e sé stesso, accordando pian piano il suo ritmo a quello della montagna. La Regina Bianca è volubile e capricciosa, dorme per giorni, ma nella strana partita di conquista e seduzione che gioca con gli operai può trasformare il tunnel in un campo di battaglia. Con una scrittura limpidissima, Sara Loffredi ci guida nelle profondità della montagna e degli uomini, e ci mostra una pagina epica della nostra storia, scritta da un'Europa appena uscita dalla guerra ma capace di guardare con fiducia al futuro.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2020
ISBN
9788858433256

Capitolo decimo

La notte del 21 agosto, al cantiere, morí un uomo. Avevamo deciso di far ripartire i lavori nel cunicolo di testa, pochi metri alla volta, effettuando frequenti sondaggi nella roccia per verificare la presenza dell’acqua maledetta. Quella notte erano in tre a lavorare al foro di assaggio; uno dei minatori sentí che l’asta aveva difficoltà a girare, cosí scosse un po’ l’attrezzo, ma questo, trovando acqua a forte pressione, schizzò fuori dalla parete come un proiettile. L’assistente che stava di lato, un minatore di ventotto anni, fu trapassato da parte a parte.
Suonarono le sirene e ci furono grida, accorremmo tutti ma l’infermiere aveva preso due giorni di permesso, bisognava chiamare il dottore a Courmayeur e telefonare all’ospedale di Aosta per l’ambulanza, in fretta. Due minatori portarono il ferito fuori dal tunnel caricandolo sul camion. Ancora respirava.
Spente le sirene, il silenzio era spezzato solo dai suoi gemiti.
– C’è qualcuno che può aiutarlo? – gridò Roversi al piazzale gremito. I due che erano con il ferito non facevano che parlargli, dirgli che i soccorsi sarebbero arrivati subito.
– Portiamolo in ospedale senza aspettare l’ambulanza, – proposi.
– L’asta gli preme vicino al cuore, un movimento sbagliato lo ucciderebbe, – disse Hervé.
– Posso stabilizzarlo io fino a che non arriva il medico.
La voce si alzò limpida sopra il brusio. Roversi si voltò.
– Sono un’infermiera, – disse Nina.
Lui seguitò a guardarla mentre nessuno fiatava. Niente risate, gomitate nei fianchi, niente fischi per quella donna apparsa nel mezzo della notte con ancora il grembiule della mensa addosso.
– Ho lavorato in ospedale, lo sa. Mi faccia provare.
Roversi si arrese. Mi disse: – Accompagnala nell’infermeria, prendete ciò che serve, fate presto.
Trovare la chiave, accendere la luce, scavare nei cassetti – garze, lacci, tamponi –, aprire armadietti e guardare dentro veloce, passare oltre. Nina si lavò le mani con il sapone fin dentro le dita, poi mise i guanti e uscí, io la seguii senza parlare fino al camion.
Era uno spettacolo orribile. L’asta di ferro se ne stava piantata nel petto dell’uomo che respirava appena. Quando salimmo Nina chiese spazio ai due che erano con il ferito, uno non faceva che piangere, lui aveva smosso l’asta ed era colpa sua, cosí continuava a dire. Chiesi loro di smontare dal mezzo e posai tutto l’occorrente su un telo pulito, poi feci per scendere e lasciarle campo libero.
– Resta qui, – mi disse Nina, liberandosi della formalità come di un oggetto inutile. – Ho bisogno di una mano.
Tagliò la camicia con le forbici, scoprí il petto e osservò la ferita da vicino. Il sangue aveva smesso di scorrere perché la presenza dell’asta chiudeva i vasi, ma bastava un movimento piccolissimo e l’emorragia sarebbe ripresa.
– Mettiti questi, – mi disse, porgendomi dei guanti. – E passami tutti i tamponi che riesci a trovare. Se non bastano, vai a prenderne altri.
Poi, con estrema cautela, immobilizzò l’asta con garze e cotone, fissando il materiale con un nastro in modo da tenere il ferro dritto e il piú fermo possibile. Tutti, intorno, ci guardavano in silenzio.
I suoi gesti parevano sicuri. Io obbedivo agli ordini: passami la forbice, metti la mano qui, tieni fermo il braccio, stringi la fasciatura, deve durare per tutta la strada. Roversi pregava. Pregava che venisse risparmiata la vita dell’uomo e pregava che quella donna sapesse cosa stava facendo.
Guardavo le mani di Nina sporche di sangue tenere stretta la vita di quell’uomo, e fu allora che la voce della montagna tornò, il canto salí e salí ancora. In quel momento non riuscivo a dirle «taci», cosí la lasciai amplificare dentro la testa. Sentii il terrore di perdere il controllo invadermi in maniera cosí assoluta che credetti di non poterlo reggere. Poi, come era arrivato, il canto iniziò a scemare.
Il silenzio della notte fu di nuovo silenzio e il sangue si fermò.
Finalmente arrivò il dottore da Courmayeur e tutti si fecero da parte, tranne Nina. Il medico la guardò e guardò me, disse solo: – Ora ci penso io, – mentre le luci dell’ambulanza proiettavano ombre mobili a terra.
Roversi salí su un’auto insieme ai due uomini che erano in galleria, e quando i motori si allontanarono, con l’eco della sirena, sul piazzale tornò la notte muta, la notte immobile. Gli operai, a piccoli gruppi, si dispersero.
Sentii un gemito.
Nina piangeva, in piedi, con le mani rosse di sangue abbandonate sui fianchi, piangeva a singhiozzi che le scuotevano il petto e le sfiguravano il viso. Mi avvicinai ma lei si scostò con un verso acuto, come un gatto, voltandomi la schiena e aggrappandosi al cassone del camion. Sembrava volesse vomitare invece continuò a piangere sempre piú forte e io mi accostai a lei piano, pianissimo, sussurrando: – Guarirà, vedrai –. E poi: – Gli hai salvato la vita –. In fondo lo sapevo, che non poteva essere vero. Ma comunque Nina non mi ascoltava.
– Non piango per lui.
Lo disse tra i denti e per un attimo pensai di non aver capito. Feci un altro passo, appoggiai lieve una mano sulla sua.
– Devi riposare, adesso.
– Io… sono… un’infermiera, – disse tra i singhiozzi.
Le gambe le cedettero e lasciò andare la testa sul mio petto macchiato di sangue, continuando a piangere mentre il buco nero, nudo, ci fissava dalla montagna.
– Un’ottima infermiera, – le dissi, accarezzandole i capelli.
Ma sapevo cosa voleva dire. I gesti conservano intatta la memoria e quelli che aveva appena fatto, uno dopo l’altro, raccontavano di un’altra vita, in un posto lontano da qui. Una vita che io non conoscevo.
La tenni stretta a lungo, finché non si calmò. Quando si liberò dal mio abbraccio, voltandomi vidi Hervé darci un’ultima occhiata e andarsene, gettando a terra la sigaretta.
Quella notte la sognai per la prima volta. Non capivo se il sangue che la ricopriva fosse il suo o quello di qualcun altro. «Ti sei ferita?», le chiedevo alzandole le braccia, scostandole i vestiti. «Dimmi dov’è che ti fa male», le dicevo, a voce sempre piú alta, ma lei scuoteva la testa, poi si guardava le mani rosse e tornava a fissare il vuoto. Cosí le prendevo il viso per baciarla di rabbia, di disperazione, spogliandola di quegli abiti sporchi, ma anche sulla pelle il sangue continuava a scorrere e seguitavo a non trovare la ferita, poi la stringevo, entrando in lei con forza.
Mi svegliai dal sogno con un brutto sapore in bocca e parecchia inquietudine. Non sapevo se Nina fosse la donna di Hervé, ma sapevo che in montagna insieme ci andavano spesso. E io non avevo bisogno di problemi sul lavoro, a maggior ragione su quel lavoro.
Era tanto ormai, per me, il tempo passato senza qualcuno accanto. Di Giulia non mi era rimasto che il ricordo. Dopo l’estate del ’40 non eravamo piú tornati al paese: la guerra si era portata via tutta la leggerezza e la casa era rimasta vuota, immobile nella memoria. Quando mio padre era morto, l’avevamo venduta.
Avevo incontrato Isabella, negli anni dell’università. Ma qualche settimana prima del matrimonio a mia madre erano giunte notizie dal passato.
«Mi è arrivata una voce dal paese», aveva detto, leggera.
Era la primavera del ’52 e io stavo in piedi su una pedana nel negozio di abiti da sposo; intorno a me armeggiava il sarto, un uomo piccolo e nervoso che disegnava linee di gesso con un unico movimento del polso.
«Quella ragazzina con cui giocavi da piccolo, la figlia degli amici del nonno, come si chiamava?»
Girovita, lunghezza delle maniche, cavallo, orlo dei pantaloni.
Sai benissimo come si chiama. Avevo chiuso gli occhi solo un attimo.
«Giulia, – mi ero gustato il nome tra la lingua e il palato. – Si chiama Giulia».
«Sí, è vero, – aveva risposto lei, distrattamente. – Ho saputo che è morta di parto, il terzo figlio».
Mi ero reso conto di essere in apnea quando avevo sentito la mano del sarto battermi sulla schiena.
«Tutto bene, ingegnere?»
Ma non stavo bene. Ero invaso d’un tratto da una paura enorme, smisurata. «Possiamo morire tutti», diceva mio fratello quell’estate ma io non ci credevo perché c’erano le mani di Giulia sopra di me, non poteva succedere niente di male.
Mentre il sarto era corso a prendere un bicchiere d’acqua mia madre non smetteva di guardarmi fisso, come se non stesse accadendo nulla e forse era vero e aveva ragione lei, non era mai successo niente, Giulia era morta e suo figlio si sposava, andava tutto bene.
Ma non mi ero sposato piú.
L’acqua non mancava mai di segnalare la sua presenza sul fronte di scavo. In cantiere avevamo fatto l’abitudine ai rigonfiamenti nelle pareti, imparando a convivere con lo stillicidio e il pantano che ne derivava. Per conquistare poco piú di cento metri di galleria dovemmo arrivare fino a metà ottobre.
Il ritardo accumulato preoccupava tutti; i francesi avrebbero raggiunto l’obiettivo della progressiva cinquemilaottocento – il termine di scavo di metà galleria – entro l’estate successiva, e se non si voleva arrivare ultimi bisognava trovare una soluzione alla svelta. Certo non era possibile pretendere una roccia migliore, ma era necessario cambiare il procedimento. Con Roversi decidemmo di assumere...

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