La notte del 21 agosto, al cantiere, morĂ un uomo. Avevamo deciso di far ripartire i lavori nel cunicolo di testa, pochi metri alla volta, effettuando frequenti sondaggi nella roccia per verificare la presenza dellâacqua maledetta. Quella notte erano in tre a lavorare al foro di assaggio; uno dei minatori sentĂ che lâasta aveva difficoltĂ a girare, cosĂ scosse un poâ lâattrezzo, ma questo, trovando acqua a forte pressione, schizzĂČ fuori dalla parete come un proiettile. Lâassistente che stava di lato, un minatore di ventotto anni, fu trapassato da parte a parte.
Suonarono le sirene e ci furono grida, accorremmo tutti ma lâinfermiere aveva preso due giorni di permesso, bisognava chiamare il dottore a Courmayeur e telefonare allâospedale di Aosta per lâambulanza, in fretta. Due minatori portarono il ferito fuori dal tunnel caricandolo sul camion. Ancora respirava.
Spente le sirene, il silenzio era spezzato solo dai suoi gemiti.
â CâĂš qualcuno che puĂČ aiutarlo? â gridĂČ Roversi al piazzale gremito. I due che erano con il ferito non facevano che parlargli, dirgli che i soccorsi sarebbero arrivati subito.
â Portiamolo in ospedale senza aspettare lâambulanza, â proposi.
â Lâasta gli preme vicino al cuore, un movimento sbagliato lo ucciderebbe, â disse HervĂ©.
â Posso stabilizzarlo io fino a che non arriva il medico.
La voce si alzĂČ limpida sopra il brusio. Roversi si voltĂČ.
â Sono unâinfermiera, â disse Nina.
Lui seguitĂČ a guardarla mentre nessuno fiatava. Niente risate, gomitate nei fianchi, niente fischi per quella donna apparsa nel mezzo della notte con ancora il grembiule della mensa addosso.
â Ho lavorato in ospedale, lo sa. Mi faccia provare.
Roversi si arrese. Mi disse: â Accompagnala nellâinfermeria, prendete ciĂČ che serve, fate presto.
Trovare la chiave, accendere la luce, scavare nei cassetti â garze, lacci, tamponi â, aprire armadietti e guardare dentro veloce, passare oltre. Nina si lavĂČ le mani con il sapone fin dentro le dita, poi mise i guanti e uscĂ, io la seguii senza parlare fino al camion.
Era uno spettacolo orribile. Lâasta di ferro se ne stava piantata nel petto dellâuomo che respirava appena. Quando salimmo Nina chiese spazio ai due che erano con il ferito, uno non faceva che piangere, lui aveva smosso lâasta ed era colpa sua, cosĂ continuava a dire. Chiesi loro di smontare dal mezzo e posai tutto lâoccorrente su un telo pulito, poi feci per scendere e lasciarle campo libero.
â Resta qui, â mi disse Nina, liberandosi della formalitĂ come di un oggetto inutile. â Ho bisogno di una mano.
TagliĂČ la camicia con le forbici, scoprĂ il petto e osservĂČ la ferita da vicino. Il sangue aveva smesso di scorrere perchĂ© la presenza dellâasta chiudeva i vasi, ma bastava un movimento piccolissimo e lâemorragia sarebbe ripresa.
â Mettiti questi, â mi disse, porgendomi dei guanti. â E passami tutti i tamponi che riesci a trovare. Se non bastano, vai a prenderne altri.
Poi, con estrema cautela, immobilizzĂČ lâasta con garze e cotone, fissando il materiale con un nastro in modo da tenere il ferro dritto e il piĂș fermo possibile. Tutti, intorno, ci guardavano in silenzio.
I suoi gesti parevano sicuri. Io obbedivo agli ordini: passami la forbice, metti la mano qui, tieni fermo il braccio, stringi la fasciatura, deve durare per tutta la strada. Roversi pregava. Pregava che venisse risparmiata la vita dellâuomo e pregava che quella donna sapesse cosa stava facendo.
Guardavo le mani di Nina sporche di sangue tenere stretta la vita di quellâuomo, e fu allora che la voce della montagna tornĂČ, il canto salĂ e salĂ ancora. In quel momento non riuscivo a dirle «taci», cosĂ la lasciai amplificare dentro la testa. Sentii il terrore di perdere il controllo invadermi in maniera cosĂ assoluta che credetti di non poterlo reggere. Poi, come era arrivato, il canto iniziĂČ a scemare.
Il silenzio della notte fu di nuovo silenzio e il sangue si fermĂČ.
Finalmente arrivĂČ il dottore da Courmayeur e tutti si fecero da parte, tranne Nina. Il medico la guardĂČ e guardĂČ me, disse solo: â Ora ci penso io, â mentre le luci dellâambulanza proiettavano ombre mobili a terra.
Roversi salĂ su unâauto insieme ai due uomini che erano in galleria, e quando i motori si allontanarono, con lâeco della sirena, sul piazzale tornĂČ la notte muta, la notte immobile. Gli operai, a piccoli gruppi, si dispersero.
Sentii un gemito.
Nina piangeva, in piedi, con le mani rosse di sangue abbandonate sui fianchi, piangeva a singhiozzi che le scuotevano il petto e le sfiguravano il viso. Mi avvicinai ma lei si scostĂČ con un verso acuto, come un gatto, voltandomi la schiena e aggrappandosi al cassone del camion. Sembrava volesse vomitare invece continuĂČ a piangere sempre piĂș forte e io mi accostai a lei piano, pianissimo, sussurrando: â GuarirĂ , vedrai â. E poi: â Gli hai salvato la vita â. In fondo lo sapevo, che non poteva essere vero. Ma comunque Nina non mi ascoltava.
â Non piango per lui.
Lo disse tra i denti e per un attimo pensai di non aver capito. Feci un altro passo, appoggiai lieve una mano sulla sua.
â Devi riposare, adesso.
â Io⊠sono⊠unâinfermiera, â disse tra i singhiozzi.
Le gambe le cedettero e lasciĂČ andare la testa sul mio petto macchiato di sangue, continuando a piangere mentre il buco nero, nudo, ci fissava dalla montagna.
â Unâottima infermiera, â le dissi, accarezzandole i capelli.
Ma sapevo cosa voleva dire. I gesti conservano intatta la memoria e quelli che aveva appena fatto, uno dopo lâaltro, raccontavano di unâaltra vita, in un posto lontano da qui. Una vita che io non conoscevo.
La tenni stretta a lungo, finchĂ© non si calmĂČ. Quando si liberĂČ dal mio abbraccio, voltandomi vidi HervĂ© darci unâultima occhiata e andarsene, gettando a terra la sigaretta.
Quella notte la sognai per la prima volta. Non capivo se il sangue che la ricopriva fosse il suo o quello di qualcun altro. «Ti sei ferita?», le chiedevo alzandole le braccia, scostandole i vestiti. «Dimmi dovâĂš che ti fa male», le dicevo, a voce sempre piĂș alta, ma lei scuoteva la testa, poi si guardava le mani rosse e tornava a fissare il vuoto. CosĂ le prendevo il viso per baciarla di rabbia, di disperazione, spogliandola di quegli abiti sporchi, ma anche sulla pelle il sangue continuava a scorrere e seguitavo a non trovare la ferita, poi la stringevo, entrando in lei con forza.
Mi svegliai dal sogno con un brutto sapore in bocca e parecchia inquietudine. Non sapevo se Nina fosse la donna di Hervé, ma sapevo che in montagna insieme ci andavano spesso. E io non avevo bisogno di problemi sul lavoro, a maggior ragione su quel lavoro.
Era tanto ormai, per me, il tempo passato senza qualcuno accanto. Di Giulia non mi era rimasto che il ricordo. Dopo lâestate del â40 non eravamo piĂș tornati al paese: la guerra si era portata via tutta la leggerezza e la casa era rimasta vuota, immobile nella memoria. Quando mio padre era morto, lâavevamo venduta.
Avevo incontrato Isabella, negli anni dellâuniversitĂ . Ma qualche settimana prima del matrimonio a mia madre erano giunte notizie dal passato.
«Mi Ú arrivata una voce dal paese», aveva detto, leggera.
Era la primavera del â52 e io stavo in piedi su una pedana nel negozio di abiti da sposo; intorno a me armeggiava il sarto, un uomo piccolo e nervoso che disegnava linee di gesso con un unico movimento del polso.
«Quella ragazzina con cui giocavi da piccolo, la figlia degli amici del nonno, come si chiamava?»
Girovita, lunghezza delle maniche, cavallo, orlo dei pantaloni.
Sai benissimo come si chiama. Avevo chiuso gli occhi solo un attimo.
«Giulia, â mi ero gustato il nome tra la lingua e il palato. â Si chiama Giulia».
«SĂ, Ăš vero, â aveva risposto lei, distrattamente. â Ho saputo che Ăš morta di parto, il terzo figlio».
Mi ero reso conto di essere in apnea quando avevo sentito la mano del sarto battermi sulla schiena.
«Tutto bene, ingegnere?»
Ma non stavo bene. Ero invaso dâun tratto da una paura enorme, smisurata. «Possiamo morire tutti», diceva mio fratello quellâestate ma io non ci credevo perchĂ© câerano le mani di Giulia sopra di me, non poteva succedere niente di male.
Mentre il sarto era corso a prendere un bicchiere dâacqua mia madre non smetteva di guardarmi fisso, come se non stesse accadendo nulla e forse era vero e aveva ragione lei, non era mai successo niente, Giulia era morta e suo figlio si sposava, andava tutto bene.
Ma non mi ero sposato piĂș.
Lâacqua non mancava mai di segnalare la sua presenza sul fronte di scavo. In cantiere avevamo fatto lâabitudine ai rigonfiamenti nelle pareti, imparando a convivere con lo stillicidio e il pantano che ne derivava. Per conquistare poco piĂș di cento metri di galleria dovemmo arrivare fino a metĂ ottobre.
Il ritardo accumulato preoccupava tutti; i francesi avrebbero raggiunto lâobiettivo della progressiva cinquemilaottocento â il termine di scavo di metĂ galleria â entro lâestate successiva, e se non si voleva arrivare ultimi bisognava trovare una soluzione alla svelta. Certo non era possibile pretendere una roccia migliore, ma era necessario cambiare il procedimento. Con Roversi decidemmo di assumere...