L'Italia che non ci sta
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L'Italia che non ci sta

Viaggio in un paese diverso

Francesco Erbani

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L'Italia che non ci sta

Viaggio in un paese diverso

Francesco Erbani

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Questo libro è un viaggio in luoghi in cui è possibile osservare un'Italia in movimento, che ripopola luoghi abbandonati e custodisce un bene culturale, che applica precetti di sobrietà e di ostinazione; che crede nella dignità del lavoro, che si batte contro il suo sfruttamento e ritiene che, oltre a fornire compensi economici, essa induca un cambio di passo nella propria vita, apra inedite prospettive e svolga un servizio di cui beneficia una collettività piú vasta, di cui si avvantaggiano un luogo e un territorio. Il punto di vista che anima il viaggio è essenzialmente dal basso: il mestiere del cronista detta numerose regole, fra le quali devono primeggiare l'andare a vedere, l'ascolto, il contatto diretto - insostituibili metodi di conoscenza, potenziati e non sostituiti dalla Rete. Il viaggio si nutre delle storie concrete di persone e degli spazi in cui esse agiscono, storie individuali, piú spesso collettive, di relazioni con l'ambiente, di interlocuzione e di conflitti.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2019
ISBN
9788858431689
Capitolo quarto

La forza generativa di un bene culturale

1. Don Antonio e i ragazzi della Sanità.

I ponti sono fatti per unire. Quello che a Napoli sovrasta la Sanità, invece, spacca in due il rione e lo fa sprofondare piú di quanto già non sia infossato. Non è opera recente, risale al primo decennio dell’Ottocento. Fu realizzato da Gioacchino Murat che per conto della Francia napoleonica reggeva le sorti della città. I Borbone erano stati allontanati e, a prescindere dal ponte, il decennio di dominio francese fu per Napoli discretamente fruttuoso. Si avviarono riforme, fu promossa l’eversione della feudalità e, comunque, non fu un danno liberarsi per un po’ dei Borbone.
Il ponte, in realtà, serviva per unire due punti della città, il centro e la reggia di Capodimonte, ma ne disprezzava una parte, usata come vile supporto dei suoi pesanti piloni e offrendo di essa una vista dall’alto, quasi uno sguardo impietoso e sdegnato su una caverna infernale, popolata di spiriti indegni. La Sanità, che doveva il proprio nome a una forma di salubrità originaria, si era trasformata in un bacino nel quale precipitavano le acque piovane provenienti dalla collina di Capodimonte. E la storia del rione annovera numerose, terribili alluvioni. Il ponte era l’ultima mortificazione cui la Sanità era stata sottoposta.
Andati via i francesi, i Borbone al rientro sul trono si trovarono un’infrastruttura che sarebbe tornata loro molto utile. E il ponte è via via entrato nel paesaggio cittadino con la sua bizzarra morfologia, rivivendo poi nella tradizione popolare. In una canzone dei primi del Novecento, Ria Rosa, una cantante nata non lontano da qui, nel quartiere di Montecalvario, invita perentoriamente il suo ex amante a spararsi, ma se dovesse preferire un’altra soluzione, c’è sempre il ponte della Sanità dal quale buttarsi giú.
Oggi, con un freddo che spacca le labbra, la città di sopra scorre turbolenta lungo il ponte e scorge distratta la targa che su un edificio ricorda che qui soggiornò e morí Giacomo Leopardi, ospite di Antonio Ranieri. Mi affaccio dal ponte e vedo sotto scalpitare un’altra città e proprio dove affondano minacciosi due piloni, so che si spalanca un’altra città ancora. È una catacomba, intitolata a San Gaudioso, una città di morti che attraversa il sottosuolo della Sanità, svicola fra cave e caverne di tufo e quasi sfocia in un’altra catacomba, che si apre nelle viscere di Capodimonte e dove vennero traslati i resti di san Gennaro. E al santo patrono questa catacomba è intestata. Tre città l’una sull’altra.
«Il mio obiettivo è che si riappacifichino, in nome della bellezza che ognuna custodisce». A don Antonio Loffredo interessa molto che aumentino i visitatori delle catacombe, i quali nel 2017 hanno superato quota centomila, nel 2018 centotrentamila, da cinquemila che erano qualche anno fa, ed è contento che macinino continui incrementi. Ma don Antonio non sta lí a tenere ansioso la conta dei biglietti staccati, gli interessa soprattutto che sia la città, non piú divisa in strati, segmentata in verticale, a far fluire gli umori vitali dall’alto verso il basso e viceversa, dai luoghi delle sepolture fino ai piani elevati, agli attici in cui non molto tempo fa ancora s’ignorava che cosa stesse accadendo alla Sanità che non fosse pertinenza delle cronache giudiziarie.
Poi è esplosa la controversia proprio intorno agli incassi generati da quei biglietti, metà dei quali il Vaticano ha chiesto gli venissero corrisposti in virtú delle norme concordatarie che regolano la gestione delle catacombe. E allora in città si è diffuso il racconto di quel che facevano don Antonio e i ragazzi nelle catacombe e intorno alle catacombe della Sanità.
La Sanità è un rione, non un quartiere. La differenza non è evidente, ma nessuno lo chiama quartiere. È il rione dove nacque Totò, e anche quello in cui Eduardo De Filippo immaginava imponesse le proprie regole uno speciale “sindaco”. In cinque chilometri quadrati vivono 67 000 persone. I disoccupati sono in media il quarantadue per cento, ma fra i giovani la percentuale supera il sessanta. Il trenta per cento è il tasso di dispersione scolastica. Qui gruppi di ragazzini a bordo di motorini truccati inscenano le “stese”, sparando in aria e imponendo a chi passa di stendersi a terra per evitare i proiettili. Non riuscí a scansare una pallottola il giovane Genny Cesarano, vittima innocente di una pratica esibita per scalare i gradini del clan camorrista. Per contrastare questo sfoggio di potenza criminale – per molti, all’inverso, un segno di debolezza – si era proposto di installare un nutrito cordone di videocamere, non bastando una camionetta dell’esercito. Ma sono occorsi mesi e mesi prima che questi occhi elettronici fossero piazzati agli angoli dei vicoli. Nel labirinto che questi vicoli formano, infilandosi in cunicoli e risalendo come tante vene verso Capodimonte, erano acquartierati una ventina di esponenti del clan camorrista dei Vastarella arrestati ai primi di marzo del 2017.
D’altronde alla Sanità la camorra vanta molti quarti di nobiltà. Negli anni Ottanta del Novecento il signore del rione era Giuseppe Misso, ’o Nasone, finito persino nelle inchieste sulla strage fascista del Rapido 904, nel dicembre del 1984 (ma poi assolto). Negli ultimi anni il controllo del rione viene spartito fra i Vastarella, i Sequino e i Lo Russo, eredi di Misso, stando alle geografie stilate dalla Direzione investigativa antimafia.
Incontro don Antonio all’infopoint delle catacombe di San Gennaro, su in alto, a Capodimonte, una mattina in cui a Napoli nevica e i tentativi per cercare i precedenti di questo inusuale accadimento meteorologico si disperdono negli anni o nei decenni. Il conflitto con il Vaticano non è ancora emerso. Ma, a pensarci dopo, qualche felpato accenno non è difficile coglierlo in un ambiente dove anche le contrapposizioni piú violente scivolano come se si camminasse con le pattine su un parquet.
Don Antonio indossa un golf marrone, pantaloni scuri e nessun segno che l’identifichi come sacerdote. Ma alla Sanità sanno tutti che è lui quando vedono una Panda chiara che sgomma nervosa inerpicandosi verso Capodimonte. Don Antonio ha sessant’anni, un fisico asciutto, i modi bruschi. Il sorriso è però largo e la parlata avvolgente. Suo padre aveva un’impresa di importazioni. Non la prese bene quando seppe che il figlio sarebbe diventato sacerdote.
Dal 2001 è il parroco della basilica di Santa Maria della Sanità, un sontuoso gioiello di fine Cinquecento nel cui chiostro calano i piloni del ponte. (Don Antonio ha raccontato la propria storia e quella dei ragazzi della Sanità in un libro, Noi del rione Sanità, uscito nel 2013). Con lui dal 2003 c’è anche padre Alex Zanotelli, battagliero missionario prima in Africa poi sul fronte del pacifismo, dell’acqua pubblica, della cittadinanza attiva. Credo che neanche in piena estate padre Zanotelli abbandoni la sua sciarpa con i colori dell’arcobaleno.
Dal ventre della basilica si scende nelle catacombe di San Gaudioso, una necropoli che ha funzionato dall’età paleocristiana fino al XVII secolo. Una catacomba, non un rifugio dalle persecuzioni o dai martirî, dei quali a Napoli non c’era quasi traccia. Persecuzioni che invece spinsero Gaudioso, un vescovo africano, a trovare ricovero qui, a metà del V secolo, inseguito dalla furia del re dei Vandali, Gianserico. Gaudioso ora lo raccontano come il simbolo della multietnicità che ha sempre reso accogliente la Sanità, nella cui toponomastica resta incisa persino la permanenza di colonie di cinesi, venuti qui nel Settecento al seguito del gesuita Matteo Ripa.
Molti, forse tutti, a Napoli sapevano che sotto la Sanità e nelle viscere dello scintillante barocco contenuto nelle chiese, nei conventi, nel palazzo Sanfelice (dove fu girata la versione cinematografica di Questi fantasmi di Eduardo De Filippo) e in quello dello Spagnuolo, entrambi geniali architetture di Ferdinando Sanfelice, esisteva un mondo fatto di gallerie, di cunicoli, di nicchie, arcosoli e affreschi, un mondo popolato dai morti che però interloquiva con quello abitato dai vivi. Un dialogo sulla cui sintassi a Napoli gronda tanta letteratura. Si sapeva anche che da qualche parte, non tanto distante da qui, nel cimitero delle Fontanelle si accumulavano ’e capuzzelle, teschi con i quali molti napoletani intrattenevano relazioni quasi familiari, di adozione affettiva. Ma soltanto dal 2006, questa e l’altra catacomba piú a nord, intitolata al santo patrono della città, sono state riconsegnate pienamente non solo alla città di sopra, ma alla città di tutti. Anche se non tutta la città ne è stata consapevole. E cosí, con una serie di intuizioni un po’ urbanistiche, un po’ storico-artistiche, un po’ politiche, e qualche colpo di mano, si è provato a far scorrere nelle vene sotterranee un collante che poteva ricucire il rione spaccato dal ponte e farlo emergere dal fosso in cui era precipitato, dalla periferia in cui si macerava pur essendo nel centro storico. Don Antonio si fa perentorio: «Per anni uno dei quartieri piú abbandonati di Napoli ha custodito inconsapevolmente la propria ricchezza nel sottosuolo. Ora l’abbiamo riportata alla luce».
Quando arrivò a Santa Maria della Sanità, don Antonio si trovò anche direttore delle catacombe, che, come tutti i luoghi di culto, anche quelli archeologici, appartenevano alla curia. E al Vaticano, tramite la curia. Entrambe, come la chiesa, erano in condizioni pietose. Pericolanti, buie, zeppe di detriti, con infiltrazioni d’acqua e impregnate d’umidità. Ridotti gli orari in cui era possibile entrarvi, pochissimi i visitatori, accompagnati da alcuni ragazzi istruiti da don Giuseppe Rassello, il parroco che reggeva la basilica prima di don Antonio. «Ho capito subito che le catacombe erano un’enorme risorsa per un rione cosí carico di disagi e però ricco di un patrimonio storico e artistico pregiatissimo, – racconta don Antonio, che ha una laurea in teologia e ha compiuto studi di archeologia cristiana. – Immaginai che se l’avessimo messa a valore, questa bellezza poteva diventare il volano di nuova occupazione per i piú giovani. Unendo un passato cosí pieno di cultura alla creatività della gente del rione, era possibile chiamare il presente a organizzare il futuro».
Ora le due catacombe, usate anche per ospitare rassegne di arte contemporanea, sono gestite da una cooperativa sociale. L’ha promossa don Antonio. Si chiama La Paranza. La paranza è il peschereccio, una metafora che rimanda al raccolto fruttuoso, al lavoro e alla fatica della gente di mare. Ed è anche una metafora evangelica. La cooperativa è composta da ventisette soci, giovani e giovanissimi, la gran parte dei quali provenienti dalla Sanità. Una cinquantina sono ora i dipendenti, tutti con un contratto a tempo indeterminato, regolare, molti part-time. Diversi fra i soci e i dipendenti erano i ragazzi ai quali don Antonio offrí ospitalità per aiutarli a fare i compiti nei pomeriggi dopo la scuola. I bambini alla Sanità stavano in strada e la strada poteva risucchiare molti di loro. Ci voleva poco che venissero ingaggiati per spacciare o che inforcassero un motorino per uno scippo giú, in via Foria o sotto, al Museo nazionale archeologico. Altri, raggiunta l’adolescenza, sognavano solo di andar via dalla Sanità e da Napoli. Racconta don Antonio che arrivavano da lui molte mamme ad affidargli i ragazzini, sfinite dall’ansia di avere un marito in galera e di vedere le proprie creature sul punto di entrarvi.
La parrocchia aveva aperto le porte ai ragazzi già con don Rassello. E fu lui a pagare per primo le conseguenze d’aver rotto i codici di un ambiente acquiescente, anche interno alla Chiesa, e per aver predicato dal pulpito contro il dominio camorrista. Quella di don Rassello è una storia che ammonisce e interrogherà per sempre il rione Sanità. Venne accusato di aver abusato di un quattordicenne. Fu allontanato e sostituito da un altro sacerdote, Pasquale Calemme, che poco dopo abbandonò l’abito talare. Don Rassello venne processato e condannato in primo e in secondo grado, nonostante i dibattimenti avessero evidenziato le vistose falle dell’accusa. Don Rassello non arrivò mai a veder proclamata la sua innocenza, alla quale credevano tantissimi suoi parrocchiani e della quale è convinto don Antonio: un tumore lo uccise a quarantanove anni e per lui il solo riconoscimento furono funerali solenni voluti da don Antonio e celebrati nella sua parrocchia, presente persino il cardinale.
Aiutati da volontari, prima con don Rassello, poi soprattutto con don Antonio, sostenuti da alcuni tirocinanti provenienti dall’Università di Suor Orsola Benincasa, i ragazzi non facevano solo i compiti. Frequentavano laboratori d’arte, suonavano, recitavano, crescevano insieme. E poi viaggiavano. Prima in Italia, poi anche all’estero, in Inghilterra, in Francia, in Palestina, in Marocco. Il viaggio, dice don Antonio, «è uno strumento educativo principe». Alcuni di loro restavano fuori anche un paio di mesi. Imparavano sia le lingue sia che la Sanità non era un luogo diviso e soffocato da un ponte, ma parte di un mondo. «I volti e gli sguardi dei nostri bambini mi hanno spesso tolto il sonno, – ripete don Antonio. – Loro interrogavano senza pronunciare domande e noi dovevamo fornire risposte semplici e concrete per poterli raggiungere direttamente e davvero».
Per loro fu restaurata la casa canonica della chiesa della Maddalena ai Cristallini, che si aprí a tutto il rione, anche per accogliere gli adulti, che organizzavano cene e feste. Poi arrivò L’Altra Casa, una casa canonica annessa alla basilica di San Severo. «Capimmo quali erano le esigenze, ma ci scontrammo con tanti ostacoli – le amministrazioni pubbliche, le competenze sovrapposte – che confermavano nei ragazzi le antiche convinzioni sul fatto che nulla si potesse cambiare. A me non restava che lavorare, forzare e scardinare le chiusure. Alla Sanità il cristallo s’incrinava piú volte, ma non andava mai in pezzi».
Ogni tanto qualcuno dei ragazzi si perdeva, veniva ingoiato dalla strada e finiva in galera per uno scippo. Poi veniva recuperato. La fedina penale immacolata non è mai stato un requisito indispensabile. Anzi. «Io non sono qui per chiedere scusa, sono qui per ricominciare», dice Salvatore nella testimonianza raccolta da Chiara Nocchetti e ora pubblicata in Vico esclamativo, il primo volume di una casa editrice nata come costola della cooperativa.
La maggior parte dei ragazzi ha studiato Storia dell’arte, Restauro e Conservazione dei beni culturali e anche Management culturale, altri hanno frequentato corsi di imprenditoria. Enzo ha un viso da ragazzone, è uno, dice di lui don Antonio, «che non voleva né studiare né lavorare e che metteva a dura prova persino la mia flemma». Adesso Enzo, una laurea in Conservazione dei beni culturali, cura la comunicazione della Paranza, e ha vinto una borsa di studio allo Iacocca Institute in Pennsylvania. Valeria, guida esperta, affabile e colta, mai verbosa, storica dell’arte, ha iniziato aiutando a restaurare gli affreschi delle catacombe, e adesso ha un contratto part-time a tempo indeterminato per quattro ore al giorno. La seguo in una visita, e alla fine Valeria spiega a un piccolo gruppo di persone cos’è La Paranza, come questa tenga insieme custodia, tutela e gestione di un bene culturale con un’occasione di lavoro per tutti loro, che alla Sanità vogliono restare, e come il bene culturale non sia chiuso sottoterra, nei loculi e nelle urne, ma vibri in tutto il rione, un territorio culturale di per sé. Un rione e anche una città, potrei aggiungere osservando gli occhi scuri di Valeria, che di lavoro non ne offrono tanto alla loro generazione e alla quale propongono forse di fuggire. Un rione, e anche una città, dove il lavoro è una prospettiva di dignità radicalmente alternativa a quella che a piene mani offrono i clan criminali. Tanto meglio se a offrire il lavoro sono le catacombe, che trasmettono appartenenza a un territorio, il loro, che ha sempre accolto chi proviene da fuori, a cominciare dal vescovo Gaudioso.
Un giorno, al termine di un’intervista in pubblico a Pistoia – era l’aprile del 2017 – chiesi a don Antonio come i clan camorristi della Sanità avevano reagito a quel che facevano lui e i suoi ragazzi. Mi mise paternamente una mano sul braccio: «Voi giornalisti sempre lí andate a finire. Lo sapevo che anche tu mi avresti fatto una domanda cosí». Non spiegò che cosa intendeva con quel «cosí», si limitò a ribadire il senso civile che emanavano le loro azioni. D’altronde, come poteva reagire un boss che spaccia droga vedendosi sottratta preziosa manovalanza? Che sentimenti poteva nutrire un capoclan di fronte al carisma di don Antonio che oscurava il proprio? Capii che con quel «cosí» voleva dire che lui era un prete e i preti non sono né poliziotti né magistrati, con i quali si condivide un obiettivo, ma la via per perseguirlo è parallela, non deve coincidere.
Le catacombe sono spettacolari. Ci si entra a piccoli gruppi, sempre accompagnati da una guida, una spiega in italiano, un’altra in inglese. In quella dedicata a san Gaudioso si veniva sepolti fino al Seicento. Erano i ricchi signori a richiedere questo privilegio. In cambio, i frati domenicani che custodivano il luogo esigevano lauti esborsi, che sarebbero serviti all’edificazione dell’attuale basilica. Le famiglie dei defunti davano incarico ad alcuni artisti di affrescare le sepolture, e cosí sono ancora visibili, fra le altre pitture, sontuosi abiti femminili in testa ai quali in un foro veniva incassato il teschio oppure lo scheletro di un bellicoso signore che si appoggia a una spada. La guida conduce poi nelle stanze alle cui pareti erano applicate delle panche scandite da buchi. Sono gli scolatoi. Per motivi di igiene e di purificazione spirituale insieme, i cadaveri messi a sedere sullo sgabello andavano essiccati facendo scolare tutti i liquidi corporei. Con grazia, senza ammiccamenti, la guida racconta come questa pratica sopravviva nel dialetto napoletano con le invettive puozze sculà, possa tu morire ed essere svuotato, e con l’invenzione dello schiattamuorto, che ora vale genericamente a individuare il becchino, ma che si riferisce alla macabra prassi di schiattare, di premere sul cadavere per agevolare lo scolamento.
Ascoltando i racconti di Valeria sui resti di san Gennaro o sull’impronta bizantina degli affreschi, mi domando in quale casella si può infilare questa forma di tutela di un bene culturale. E subito mi rispondo che le categorie di pubblico e di privato, che tanto occupano il discorso sul patrimonio, fra queste pareti tufacee si sfarinano. Qui non c’è proprietà pubblica, ma tanto uso pubblico e tanto valore pubblico, sociale, civile, solidale, garantito da una cooperativa, dunque da un soggetto privato. Se fosse l’amministrazione pubblica a occuparsene, che ne sarebbe di Valeria e di Enzo e che cosa delle catacombe? Domande oziose, oltre il limite dell’improprio. Le ricaccio indietro, ma so già che mi torneranno a galla. Troppo inchiostro, troppe energie si spendono per definire, in tema di beni culturali, che cos’è pubblico, e se il pubblico è pienamente pubblico solo se statale o anche regionale o comunale. E quali compiti può assumere un privato, quali requisiti, scartata la mercificazione o l’utilizzazione impropria, debbano possedere il privato sociale o il mecenatismo. Qui sotto, nelle catacombe di San Gennaro, penso che le discussioni che avvengono nel mondo di sopra debbano misurarsi con il racconto di Valeria, la quale spiega come questa necropoli prenda nel tempo la forma di una basilica, con gli archi e le navate, e che qui è custodito, per lei, per Enzo e per tutti loro della Paranza, un granello di conoscenze che si possono condividere, facendone il proprio mestiere.
La Paranza è parte di un arcipelago di cooperative che fanno capo alla Fondazione San Gennaro, il cui presidente onorario è il fotografo Mimmo Jodice, e ha fra i sostenitori la Fondazione Con il Sud, persino la Clinton Foundation, diverse aziende e l’associazione L’Altra Napoli, fra le prime istituzioni a supportare don Antonio. L’Altra Napoli è stata fondata da un imprenditore, Ernesto Albanese, dopo che il padre, Emilio, venne ucciso durante una rapina nel 2005. Raccoglie un migliaio di sostenitori, molti fra i napoletani andati via dalla città. L’Altra Napoli ha finora investito alla Sanità quattro milioni. Ha contribuito a restaurare la casa dei Cristall...

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