La vecchia lampara sâera decisa a funzionare, e ora penzolava dal suo gancio illuminando un metro quadro di mare.
Sante Tammaro se ne stava a poppa, in posizione precaria. A testa sotto, il naso infilato nel secchio col fondo di vetro, ogni tanto si voltava a controllare che fiocina e retino fossero a portata di mano.
Manfredi Monterreale guardava sornione gli attrezzi da pesca che giacevano sulla tolda del gozzo, inutilizzati. Con le mani ferme sui remi, canticchiava versi di De AndrĂŠ che parlavano di un pescatore.
â La vuoi finire cu âsta litania, che i pesci si scantano e se ne scappano? â vociò Sante, tirandosi su di colpo. La barca oscillò pericolosamente.
Manfredi mollò i remi. â Ah, allora è per questo che in due ore non pigliasti manco una sardina! â ironizzò, mentre agguantava il termos che aveva sistemato sotto il sedile e che col movimento sâera capovolto.
Sante agitò la mano come per dire che la questione non meritava neppure risposta.
â Tieni vaâ, â disse Manfredi, allungandogli un bicchierino che aveva appena riempito, â beviti un poco di caffè che almeno ti riscaldi. Câè un umido che si taglia col coltello. Ma ti pare giusto che invece di starmene a casa mia, nel letto dove a questâora sarebbe fisiologico che fossi, io debba contemplarla da cento metri di distanza congelandomi su questo sedile per ore? Tutto per fare contento a te. E manco De AndrĂŠ mi è permesso cantare.
Dopo aver smontato e rimontato la lampara â un cimelio originale che Sante aveva scovato dopo lunghe ricerche e che funzionava un colpo sĂ e lâaltro no â avevano navigato sotto costa per un poâ. Dopo un ultimo tratto a remi, perchĂŠ se no i pisci si ânni vanu, sâerano andati a piazzare proprio davanti alla scogliera su cui affacciava lâappartamento di Manfredi.
â Dottore, non capisci niente, â ribattĂŠ Tammaro, â la pesca con la lampara è una cosa lenta, senza tempi. Una filosofia, se vogliamo.
Il dottore lo guardò dubbioso. Bevve anche lui un sorso di caffè. â Ca certo, una filosofia di pesca, â motteggiò, scuotendo la testa.
Come avessero fatto a diventare amici restava un mistero per entrambi. Manfredi Monterreale, di professione medico pediatra, era palermitano ma viveva a Catania da sette anni. Anzi per la precisione ad Aci Castello, al secondo piano di una piccola palazzina affacciata su quegli scogli neri, tra il castello normanno e Aci Trezza, davanti ai quali dondolava in quel momento lâimbarcazione dellâamico. Sante Tammaro invece era un giornalista, catanese fino allâunghia dellâalluce e con una spiccata inclinazione verso lâinchiesta. Ma quella dura e pura, dove il bianco è bianco e il nero è nero.
Manfredi studiò la sua verandina: vista da lĂ sembrava piĂş piccola. Câerano un paio di piante da sostituire e la persiana del finestrone da ridipingere. Avendone il tempo⌠Però era graziosa, quella casa. Il suo habitat perfetto.
Si abbassò sotto il banco dovâera seduto e armeggiò con lo zaino per riporre il termos.
â Câè una macchina che si sta fermando sotto casa tua, â disse Sante.
Manfredi alzò la testa. Il suo cancello era lâultimo della strada, dopo iniziava la scogliera, in quella stagione libera dalle palafitte dei vari stabilimenti balneari.
â Ah, sĂ. SarĂ qualche coppia in cerca dâintimitĂ . La sera dâinverno qua câè un viavaiâŚ
â Se è per quello macari dâestate, â contestò il giornalista. â Però⌠â continuò, stringendo gli occhi: â A mmia questa non mi pare una coppietta.
â E vuol dire che sarĂ un pensatore notturno solitario. Non cominciare a farti film che, tâassicuro, non è il caso.
Ma Sante era giĂ a metĂ pellicola, e ravanava nella sua borsa di tela in cerca del binocolo.
Lo avvicinò agli occhi. â Intanto sono due, e sono uomini.
â Questo non significa, â replicò il medico.
â Capace che sono dei ladri e che stanno mirando proprio a casa tua, mentre tu te ne stai qua, fresco come un quarto di pollo, a minimizzare.
Manfredi limitò la risposta a un sospiro rassegnato, gli tolse il binocolo dalle mani e lo puntò sullâautomobile.
Un uomo uscà dal posto del passeggero e aprà il bagagliaio. Tirò fuori una grossa valigia e iniziò a trascinarla verso la scogliera. Il guidatore si sporse dal finestrino, per poi ritrarsi subito.
â Sante, a me non sembrano interessati a casa mia. Però qualche cosa di strano stanno facendo di sicuro.
Il giornalista riprese il binocolo e si concentrò sullâuomo in movimento, che avanzò sugli scogli fino a sparire dietro il muro che chiudeva la strada. Lo vide tornare indietro veloce, a mani vuote, e risalire sullâauto, che partĂ sgommando.
â Mi giocherei la palla destra che in quel valigione câè qualcosa di pericoloso. O come minimo di illegale, â commentò Sante, gasato. Andò a poppa e iniziò a riporre retini e fiocine in un gavone. Tirò su il secchio e spense la lampara. Tolse i remi e li mise a posto.
â AmunĂ, â disse, abbassando il motore e avviandolo.
â AmunĂ dove? â chiese Manfredi, sbalordito dalla rapiditĂ con cui aveva abbandonato i pisci al proprio destino. Tre minuti scarsi per smantellare quellâambaradan che era costato ore di lavoro e di santa pazienza.
â A casa tua, â rispose il giornalista. Tacque un momento, concentrato.
â Voglio vedere dove buttò la valigia.
Il vicequestore aggiunto Vanina Guarrasi appallottolò il sacchetto di carta sporco di crema al cioccolato il cui contenuto lâaveva appena riconciliata col mondo. Si dondolò sulla poltrona rigirandosi il cartoccio tra le mani e fissando lâorologio appeso al muro del suo ufficio che segnava le otto e trenta. Cinque minuti in piĂş rispetto al riscontro precedente. Recuperò un ultimo sorso di cappuccino dal fondo del bicchiere di polistirolo, infilò dentro la bustina vuota dello zucchero e lo chiuse col tappo.
Sâera svegliata male. Presto, e male. Dato lâorario, come al solito improponibile, in cui la sera prima era riuscita a prendere sonno, in totale aveva dormito sĂ e no tre ore. Proprio quella mattina, la prima, e forse lâunica, di uno di quei rari interregni che sussistevano tra lâarchiviazione di un morto ammazzato e il manifestarsi di quello successivo. Unâoccasione per concedersi quei comodi cui nei giorni di piena attivitĂ era costretta a rinunciare. UnâopportunitĂ magnifica, se solo non avesse prodotto in lei lâeffetto opposto a quello auspicato.
Vanina lo sapeva: niente lavoro uguale niente pensieri, e niente pensieri significava che altri pensieri avrebbero preso il sopravvento, grevi. CosĂ grevi da farle rimpiangere la piĂş imbrogliata delle piste da seguire.
Lanciò il cartoccio verso il cestino dellâimmondizia tentando di centrarlo, ma mirò troppo in alto e lo scaraventò fuori dalle vetrate aperte.
â Ecchemm⌠â imprecò, alzandosi di colpo e correndo verso il balconcino.
Si affacciò, cauta, tirando fuori una Gauloises e accendendola con indifferenza mentre ispezionava la strada con lo sguardo.
Via Ventimiglia, come tutte le strade che tagliano Catania dal centro cittĂ agli archi della Marina, a quellâora era nel pieno del caos. Una fila strombazzante assaltava agguerrita lâincrocio con via Vittorio Emanuele, in quel momento ostruito da tre macchine che lâavevano occupato incuranti e due autobus urbani.
Lâispettore capo Carmelo Spanò si era appena tirato su dopo essersi chinato sul marciapiede. Alzò la testa verso le finestre di fronte, scorrendole con gli occhi. Poi si girò a destra e a sinistra ispezionando lâedificio, fino ad arrivare al balcone del vicequestore Guarrasi. Le sorrise e la salutò con una mano, mentre con lâaltra reggeva una palla di carta dallâaspetto inconfondibile.
â Buongiorno, capo! â le gridò, prima di infilarsi nel portone della Mobile e chiuderselo alle spalle.
Cinque minuti dopo, Vanina lo sentĂ bussare alla sua porta.
â âSti carusi! Ma varda tu se è normale che uno se ne sta per i fatti soâ sul marciapiede e gli tirano una palla di carta sulla testa. Manco feci in tempo a vedere da dovâera arrivata, â santiò lâispettore, piazzandosi sul balcone accanto a lei.
Vanina sorrise tra sĂŠ, senza commentare. Gli offrĂ una sigaretta. Meno male che al bar sotto casa sua, a Santo Stefano, non usavano carta intestata ma anonimi sacchetti bianchi. Sarebbe stato difficile per Spanò ipotizzare che un caruso del quartiere si fosse fatto tredici chilometri â e mezzo â per andare a comprare la colazione in un paese alle pendici dellâEtna.
â Oggi câè una tranquillitĂ insolita, â constatò lâispettore.
Anche il corridoio era silenzioso. Due terzi della squadra Mobile quella mattina erano fuori, a presenziare alla conferenza stampa del primo dirigente Tito Macchia sullâoperazione antiracket portata a termine la sera prima, con una trentina di arresti, quattro dei quali eccellenti.
La sezione Reati contro la persona invece era riunita nellâufficio accanto, come ogni mattina. Socializzavano, si scambiavano opinioni, nellâattesa che il vicequestore Guarrasi comparisse con la sua usuale, cronica, mezzâora buona di ritardo. Quella mattina, trovarla giĂ piazzata nel suo ufficio al loro arrivo li aveva disorientati.
Stava giusto chiudendo le vetrate, intenzionata a raggiungerli insieme a Spanò, quando lâispettore Marta Bonazzoli si materializzò al centro della stanza.
â Capo, lo so che non gradisci, ma temo sia il caso che tu venga al telefono di lĂ . Câè una tipa agitata che dice di avere unâinformazione importante da darci. E vuole parlare solo con te, altrimenti riattacca, â comunicò.
Vanina sbuffò. Stava capitando sempre piĂş spesso che la gente pretendesse di rivolgersi direttamente a lei. La colpa, manco a dirlo, era dei mezzi dâinformazione, che negli ultimi tempi avevano fatto largo uso della sua faccia e del suo nome; un paio di volte, di cui ricordava ancora lo sgomento, anche del suo passato. Palermo. Suo padre, lâispettore Giovanni Guarrasi, trucidato venticinque anni prima da un commando di cosa nostra davanti ai suoi occhi. Gli anni passati allâantimafia. Paolo Malfitano, il magistrato della Dda, allora suo compagno, che quattro anni prima lei aveva salvato a colpi di calibro 9 da un attentato, anche in quel caso di stampo mafioso. Ridondanti dissertazioni, sulle quali non riusciva a fare a meno di scorgere la patina untuosa di quella che chiamava ÂŤretorica della legalitĂ Âť, e nelle quali lei, il vicequestore aggiunto Giovanna Guarrasi, veniva rappresentata come la paladina della giustizia senza se e senza ma. Una sorta di sceriffo in salsa sicula.
â Che camurrĂa, â mugugnò, infilando la porta.
Nellâufficio accanto il vicesovrintendente Fragapane e il sovrintendente Nunnari erano chini sulla scrivania della Bonazzoli e fissavano il telefono aperto.
Vanina li allontanò agitando la mano e si sedette sulla poltroncina ergonomica di Marta. Appoggiò le ginocchia sui cuscinetti appositi, come aveva visto fare a lei, e subito la sedia sâinclinò i...