La logica della lampara
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La logica della lampara

Cristina Cassar Scalia

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La logica della lampara

Cristina Cassar Scalia

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À propos de ce livre

Sono le quattro e trenta del mattino. Dalla loro barca il dottor Manfredi Monterreale e Sante Tammaro, giornalista di un quotidiano online, intravedono sulla costa un uomo che trascina a fatica una grossa valigia e la getta fra gli scogli. Poche ore dopo il vicequestore Vanina Guarrasi riceve una chiamata anonima: una voce femminile riferisce di aver assistito all'uccisione di una ragazza avvenuta quella notte in un villino sul mare.
Due fatti che si scoprono legati e dĂ nno il via a un'indagine assai piĂș delicata del previsto. La scontrosa Vanina, la cui vita privata si complica di giorno in giorno, dovrĂ  muoversi con cautela fra personaggi potenti del capoluogo etneo. Ma anche grazie all'aiuto del commissario in pensione Biagio PatanĂš, con il quale fa ormai «coppia fissa», sbroglierĂ  un intrigo che, fino all'ultimo, riserva delle sorprese. Hanno detto di Sabbia nera: «La chiameranno l'antimontalbano, ma non Ăš vero. Cristina Cassar Scalia Ăš lei e basta, e Sabbia nera Ăš un gran bel romanzo».
Carlo Lucarelli «Una storia secca, ritmica, scandita, che ti avvolge e ti stritola pagina dopo pagina, sospesa sul ponte instabile tra un passato che non vuole saperne di farsi seppellire e un presente mai del tutto comprensibile».
Maurizio de Giovanni «La vicequestora Giovanna Guarrasi, detta Vanina, ha l'acume, la tenacia e la fantasia di una grande poliziotta».
Giancarlo De Cataldo

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Informations

Éditeur
EINAUDI
Année
2019
ISBN
9788858430897

1.

La vecchia lampara s’era decisa a funzionare, e ora penzolava dal suo gancio illuminando un metro quadro di mare.
Sante Tammaro se ne stava a poppa, in posizione precaria. A testa sotto, il naso infilato nel secchio col fondo di vetro, ogni tanto si voltava a controllare che fiocina e retino fossero a portata di mano.
Manfredi Monterreale guardava sornione gli attrezzi da pesca che giacevano sulla tolda del gozzo, inutilizzati. Con le mani ferme sui remi, canticchiava versi di De André che parlavano di un pescatore.
– La vuoi finire cu ’sta litania, che i pesci si scantano e se ne scappano? – vociĂČ Sante, tirandosi su di colpo. La barca oscillĂČ pericolosamente.
Manfredi mollĂČ i remi. – Ah, allora Ăš per questo che in due ore non pigliasti manco una sardina! – ironizzĂČ, mentre agguantava il termos che aveva sistemato sotto il sedile e che col movimento s’era capovolto.
Sante agitĂČ la mano come per dire che la questione non meritava neppure risposta.
– Tieni va’, – disse Manfredi, allungandogli un bicchierino che aveva appena riempito, – beviti un poco di caffĂš che almeno ti riscaldi. C’ù un umido che si taglia col coltello. Ma ti pare giusto che invece di starmene a casa mia, nel letto dove a quest’ora sarebbe fisiologico che fossi, io debba contemplarla da cento metri di distanza congelandomi su questo sedile per ore? Tutto per fare contento a te. E manco De AndrĂ© mi Ăš permesso cantare.
Dopo aver smontato e rimontato la lampara – un cimelio originale che Sante aveva scovato dopo lunghe ricerche e che funzionava un colpo sĂ­ e l’altro no – avevano navigato sotto costa per un po’. Dopo un ultimo tratto a remi, perchĂ© se no i pisci si ’nni vanu, s’erano andati a piazzare proprio davanti alla scogliera su cui affacciava l’appartamento di Manfredi.
– Dottore, non capisci niente, – ribattĂ© Tammaro, – la pesca con la lampara Ăš una cosa lenta, senza tempi. Una filosofia, se vogliamo.
Il dottore lo guardĂČ dubbioso. Bevve anche lui un sorso di caffĂš. – Ca certo, una filosofia di pesca, – motteggiĂČ, scuotendo la testa.
Come avessero fatto a diventare amici restava un mistero per entrambi. Manfredi Monterreale, di professione medico pediatra, era palermitano ma viveva a Catania da sette anni. Anzi per la precisione ad Aci Castello, al secondo piano di una piccola palazzina affacciata su quegli scogli neri, tra il castello normanno e Aci Trezza, davanti ai quali dondolava in quel momento l’imbarcazione dell’amico. Sante Tammaro invece era un giornalista, catanese fino all’unghia dell’alluce e con una spiccata inclinazione verso l’inchiesta. Ma quella dura e pura, dove il bianco ù bianco e il nero ù nero.
Manfredi studiĂČ la sua verandina: vista da lĂ­ sembrava piĂș piccola. C’erano un paio di piante da sostituire e la persiana del finestrone da ridipingere. Avendone il tempo
 PerĂČ era graziosa, quella casa. Il suo habitat perfetto.
Si abbassĂČ sotto il banco dov’era seduto e armeggiĂČ con lo zaino per riporre il termos.
– C’ù una macchina che si sta fermando sotto casa tua, – disse Sante.
Manfredi alzĂČ la testa. Il suo cancello era l’ultimo della strada, dopo iniziava la scogliera, in quella stagione libera dalle palafitte dei vari stabilimenti balneari.
– Ah, sí. Sarà qualche coppia in cerca d’intimità. La sera d’inverno qua c’ù un viavai

– Se Ăš per quello macari d’estate, – contestĂČ il giornalista. – PerĂČ
 – continuĂČ, stringendo gli occhi: – A mmia questa non mi pare una coppietta.
– E vuol dire che sarà un pensatore notturno solitario. Non cominciare a farti film che, t’assicuro, non ù il caso.
Ma Sante era giĂ  a metĂ  pellicola, e ravanava nella sua borsa di tela in cerca del binocolo.
Lo avvicinĂČ agli occhi. – Intanto sono due, e sono uomini.
– Questo non significa, – replicĂČ il medico.
– Capace che sono dei ladri e che stanno mirando proprio a casa tua, mentre tu te ne stai qua, fresco come un quarto di pollo, a minimizzare.
Manfredi limitĂČ la risposta a un sospiro rassegnato, gli tolse il binocolo dalle mani e lo puntĂČ sull’automobile.
Un uomo uscĂ­ dal posto del passeggero e aprĂ­ il bagagliaio. TirĂČ fuori una grossa valigia e iniziĂČ a trascinarla verso la scogliera. Il guidatore si sporse dal finestrino, per poi ritrarsi subito.
– Sante, a me non sembrano interessati a casa mia. PerĂČ qualche cosa di strano stanno facendo di sicuro.
Il giornalista riprese il binocolo e si concentrĂČ sull’uomo in movimento, che avanzĂČ sugli scogli fino a sparire dietro il muro che chiudeva la strada. Lo vide tornare indietro veloce, a mani vuote, e risalire sull’auto, che partĂ­ sgommando.
– Mi giocherei la palla destra che in quel valigione c’ù qualcosa di pericoloso. O come minimo di illegale, – commentĂČ Sante, gasato. AndĂČ a poppa e iniziĂČ a riporre retini e fiocine in un gavone. TirĂČ su il secchio e spense la lampara. Tolse i remi e li mise a posto.
– Amuní, – disse, abbassando il motore e avviandolo.
– Amuní dove? – chiese Manfredi, sbalordito dalla rapidità con cui aveva abbandonato i pisci al proprio destino. Tre minuti scarsi per smantellare quell’ambaradan che era costato ore di lavoro e di santa pazienza.
– A casa tua, – rispose il giornalista. Tacque un momento, concentrato.
– Voglio vedere dove buttĂČ la valigia.

2.

Il vicequestore aggiunto Vanina Guarrasi appallottolĂČ il sacchetto di carta sporco di crema al cioccolato il cui contenuto l’aveva appena riconciliata col mondo. Si dondolĂČ sulla poltrona rigirandosi il cartoccio tra le mani e fissando l’orologio appeso al muro del suo ufficio che segnava le otto e trenta. Cinque minuti in piĂș rispetto al riscontro precedente. RecuperĂČ un ultimo sorso di cappuccino dal fondo del bicchiere di polistirolo, infilĂČ dentro la bustina vuota dello zucchero e lo chiuse col tappo.
S’era svegliata male. Presto, e male. Dato l’orario, come al solito improponibile, in cui la sera prima era riuscita a prendere sonno, in totale aveva dormito sí e no tre ore. Proprio quella mattina, la prima, e forse l’unica, di uno di quei rari interregni che sussistevano tra l’archiviazione di un morto ammazzato e il manifestarsi di quello successivo. Un’occasione per concedersi quei comodi cui nei giorni di piena attività era costretta a rinunciare. Un’opportunità magnifica, se solo non avesse prodotto in lei l’effetto opposto a quello auspicato.
Vanina lo sapeva: niente lavoro uguale niente pensieri, e niente pensieri significava che altri pensieri avrebbero preso il sopravvento, grevi. CosĂ­ grevi da farle rimpiangere la piĂș imbrogliata delle piste da seguire.
LanciĂČ il cartoccio verso il cestino dell’immondizia tentando di centrarlo, ma mirĂČ troppo in alto e lo scaraventĂČ fuori dalle vetrate aperte.
– Ecchemm
 – imprecĂČ, alzandosi di colpo e correndo verso il balconcino.
Si affacciĂČ, cauta, tirando fuori una Gauloises e accendendola con indifferenza mentre ispezionava la strada con lo sguardo.
Via Ventimiglia, come tutte le strade che tagliano Catania dal centro città agli archi della Marina, a quell’ora era nel pieno del caos. Una fila strombazzante assaltava agguerrita l’incrocio con via Vittorio Emanuele, in quel momento ostruito da tre macchine che l’avevano occupato incuranti e due autobus urbani.
L’ispettore capo Carmelo SpanĂČ si era appena tirato su dopo essersi chinato sul marciapiede. AlzĂČ la testa verso le finestre di fronte, scorrendole con gli occhi. Poi si girĂČ a destra e a sinistra ispezionando l’edificio, fino ad arrivare al balcone del vicequestore Guarrasi. Le sorrise e la salutĂČ con una mano, mentre con l’altra reggeva una palla di carta dall’aspetto inconfondibile.
– Buongiorno, capo! – le gridĂČ, prima di infilarsi nel portone della Mobile e chiuderselo alle spalle.
Cinque minuti dopo, Vanina lo sentĂ­ bussare alla sua porta.
– ’Sti carusi! Ma varda tu se Ăš normale che uno se ne sta per i fatti so’ sul marciapiede e gli tirano una palla di carta sulla testa. Manco feci in tempo a vedere da dov’era arrivata, – santiĂČ l’ispettore, piazzandosi sul balcone accanto a lei.
Vanina sorrise tra sĂ©, senza commentare. Gli offrĂ­ una sigaretta. Meno male che al bar sotto casa sua, a Santo Stefano, non usavano carta intestata ma anonimi sacchetti bianchi. Sarebbe stato difficile per SpanĂČ ipotizzare che un caruso del quartiere si fosse fatto tredici chilometri – e mezzo – per andare a comprare la colazione in un paese alle pendici dell’Etna.
– Oggi c’ù una tranquillitĂ  insolita, – constatĂČ l’ispettore.
Anche il corridoio era silenzioso. Due terzi della squadra Mobile quella mattina erano fuori, a presenziare alla conferenza stampa del primo dirigente Tito Macchia sull’operazione antiracket portata a termine la sera prima, con una trentina di arresti, quattro dei quali eccellenti.
La sezione Reati contro la persona invece era riunita nell’ufficio accanto, come ogni mattina. Socializzavano, si scambiavano opinioni, nell’attesa che il vicequestore Guarrasi comparisse con la sua usuale, cronica, mezz’ora buona di ritardo. Quella mattina, trovarla già piazzata nel suo ufficio al loro arrivo li aveva disorientati.
Stava giusto chiudendo le vetrate, intenzionata a raggiungerli insieme a SpanĂČ, quando l’ispettore Marta Bonazzoli si materializzĂČ al centro della stanza.
– Capo, lo so che non gradisci, ma temo sia il caso che tu venga al telefono di lĂ . C’ù una tipa agitata che dice di avere un’informazione importante da darci. E vuole parlare solo con te, altrimenti riattacca, – comunicĂČ.
Vanina sbuffĂČ. Stava capitando sempre piĂș spesso che la gente pretendesse di rivolgersi direttamente a lei. La colpa, manco a dirlo, era dei mezzi d’informazione, che negli ultimi tempi avevano fatto largo uso della sua faccia e del suo nome; un paio di volte, di cui ricordava ancora lo sgomento, anche del suo passato. Palermo. Suo padre, l’ispettore Giovanni Guarrasi, trucidato venticinque anni prima da un commando di cosa nostra davanti ai suoi occhi. Gli anni passati all’antimafia. Paolo Malfitano, il magistrato della Dda, allora suo compagno, che quattro anni prima lei aveva salvato a colpi di calibro 9 da un attentato, anche in quel caso di stampo mafioso. Ridondanti dissertazioni, sulle quali non riusciva a fare a meno di scorgere la patina untuosa di quella che chiamava «retorica della legalità», e nelle quali lei, il vicequestore aggiunto Giovanna Guarrasi, veniva rappresentata come la paladina della giustizia senza se e senza ma. Una sorta di sceriffo in salsa sicula.
– Che camurrĂ­a, – mugugnĂČ, infilando la porta.
Nell’ufficio accanto il vicesovrintendente Fragapane e il sovrintendente Nunnari erano chini sulla scrivania della Bonazzoli e fissavano il telefono aperto.
Vanina li allontanĂČ agitando la mano e si sedette sulla poltroncina ergonomica di Marta. AppoggiĂČ le ginocchia sui cuscinetti appositi, come aveva visto fare a lei, e subito la sedia s’inclinĂČ i...

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