Napoleone in venti parole
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Napoleone in venti parole

Ernesto Ferrero

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Napoleone in venti parole

Ernesto Ferrero

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Il mito di Napoleone, «l'uomo che suonava la musica dell'avvenire», continua a coinvolgere e intrigare sempre nuove generazioni. Di che cosa è fatta la sua eccezionalità? Come si è sviluppata e che cosa ha prodotto? Dopo N. (Premio Strega 2000), che racconta i dieci mesi dell'Elba, Ernesto Ferrero ha continuato a indagarne gli aspetti che possono rivelarlo meglio e che ci toccano piú da vicino: le inesauribili capacità organizzative, le tecniche di comunicazione, la progettualità visionaria, l'introduzione della meritocrazia, il culto del budget, le politiche economiche e culturali, l'attenzione per l'arte e per il libro, la rifondazione della macchina dello Stato, a partire dal Codice civile. Con una narrazione incalzante e in un fitto intreccio di storie e personaggi, il libro condensa in venti temi-chiave le ragioni di un'ascesa e di una caduta fuori misura (dalla prima campagna d'Italia all'Egitto, dalla Russia a Waterloo, all'esilio sull'isola di Sant'Elena) e i retroscena di un «sistema operativo» che fa di Napoleone il fondatore della modernità.«"Sento l'infinito, in me". Cosí N. nella gabbia di Sant'Elena, quasi a giustificare l'enormità delle sue ambizioni, la grandezza che perfino la rovinosa caduta finisce per evidenziare e lo stesso martirio, opportunamente raccontato ed enfatizzato, rende ancora piú visibile. Si è autodefinito "l'uomo piú grande che sia mai esistito", e può rivendicare con orgoglio le proprie modeste origini per misurare la strada percorsa e l'unicità che lo distingue dai milioni di uomini di cui non rimane traccia».

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2021
ISBN
9788858436165
1.

L’uomo

«Sento l’infinito, in me». Cosí N. nella gabbia di Sant’Elena, quasi a giustificare l’enormità delle sue ambizioni, la grandezza che perfino la rovinosa caduta finisce per evidenziare e lo stesso martirio, opportunamente raccontato ed enfatizzato, rende ancora piú visibile. Si è autodefinito «l’uomo piú grande che sia mai esistito», e può rivendicare con orgoglio le proprie modeste origini per misurare la strada percorsa e l’unicità che lo distingue dai milioni di uomini di cui non rimane traccia.
È figlio di un avvocaticchio in un’isola senza risorse, arcaica e un poco ferina, con i suoi borghi aggrappati alle montagne, travagliata da aspre lotte tra fazioni, condannata a una vita grama, simile a quella dell’antica Sparta. Ajaccio è un borgo rissoso di 3500 anime. L’estremismo selvatico degli abitanti, cosí anacronistico agli occhi degli europei, è fatto di senso dell’onore, forza dei legami di sangue, passionalità, coraggio sprezzante, fedeltà al codice della vendetta.
Tuttavia N. riconosce di essere stato addirittura avvantaggiato dal fatto di uscire da una famiglia di modeste sostanze: la Rivoluzione lo avrebbe proscritto, il popolo gli avrebbe rimproverato di appartenere all’aristocrazia, non avrebbe potuto ottenere il comando di un esercito repubblicano e se anche l’avesse ottenuto non sarebbe riuscito a esprimere lo stesso libero ardimento. La condizione mediana, anonima, era dunque la piú adatta per intraprendere la carriera che poi avrebbe avuto.
Nato nel 1769, è il secondo di sette fratelli. Un bambino secco, nervoso, robusto, che sfida subito l’autorità del primogenito. La madre lo chiama Nabulio. Cresce per strada, nella piazzetta davanti a casa, dimostrando subito attitudini al comando. A nove anni viene spedito in un collegio militare del continente, a Brienne, dove rimarrà cinque anni, grazie ai buoni uffici di un amico di famiglia, il governatore Marbeuf. Studia a spese dello Stato francese che ha sconfitto quello che era il suo idolo, Pasquale Paoli, l’Epaminonda, il Leonida, il Cromwell dell’indipendenza corsa. Al collegio tutti si fanno beffe dell’ispido provincialotto che porta un nome bizzarro, ha modi un po’ rozzi, parla un cattivo francese e guarda tutti in cagnesco.
È lí che il ragazzo matura la sua conoscenza disincantata degli uomini, il suo disprezzo per la mediocrità e il compromesso, la sua voglia di rivincita, ma anche la freddezza razionale con cui valuta la situazione e cerca una via d’uscita. È già machiavellico senza aver letto Machiavelli. La lettura di Plutarco gli rafforza un’attitudine per l’eroismo sdegnoso e classicheggiante, nemico della tirannide. Scrive: «La morte non è niente, ma vivere sconfitti e privi di gloria è morire un po’ per giorno». Studia con fervore matematica e geometria, che rispondono alle sue esigenze di ordine, calcolo, metodo, e favoriscono la passione per l’artiglieria, che diventa la sua specializzazione sin dall’assedio di Tolone, in cui si metterà subito in vista.
I numeri diventano uno strumento potente per «leggere» e modificare la realtà. Alle chiacchiere di politicanti, amministratori, filosofi, letterati e pubblicisti opporrà sempre l’inoppugnabile filtro del fact checking, la nuda e dura verità dei fatti e dei dati. Quando nel 1784 il padre muore di un cancro intestinale a soli trentanove anni, lui che ne ha quindici si sente investito delle responsabilità del capofamiglia. Per l’intera vita non farà che applicare alla cosa pubblica il modello di una gestione familiare improntato al piú vigile rigore, al culto del budget, al regolamento puntuale di ogni affare anche minuto. Matura l’atteggiamento del buon padre che tutto vede e a tutto provvede, del massaio abituato ad amministrare con oculatezza le scarse risorse disponibili, l’abitudine e la pretesa di regolare nei dettagli la vita di fratelli, sorelle, collaboratori e sottoposti, sino all’ultimo valletto, dando pareri pressoché vincolanti anche sui loro matrimoni, a costo di scatenare tensioni e conflitti.
Quando passa alla École militaire di Parigi per ufficiali, quasi lussuosa in confronto a quella di Brienne (dove però può misurare ancor meglio il peso delle distanze sociali), manda un memoriale al sottoprefetto dell’istituto in cui suggerisce che invece di circondare gli allievi di tanti domestici, era meglio risparmiare sui costi ed educarli a una vita sobria e spartana: avrebbero dovuto provvedere da soli alle pulizie, e prepararsi alle fatiche della guerra. In compenso il professore di tedesco, Bauer, non vuole ammetterlo agli esami finali, convinto che «l’allievo Buonaparte non sia che una gran bestia». Quando indossa la divisa regolamentare, gli danno degli stivali cosí grandi che le sue gambe magre ci nuotano dentro. Nel giugno 1792 assiste alla presa delle Tuileries, vede il re affacciarsi alla finestra con il berretto frigio. «Che coglione – esclama. – Perché ha lasciato entrare quella canaglia? Bastava prenderne a cannonate quattro o cinquecento, il resto scapperebbe ancora».
«Avevo l’istinto della fondazione, non quello della proprietà», dirà a Sant’Elena. Largo con gli altri, munifico con alcuni, economo con se stesso. Sostituisce Rémusat, che gli fa spendere 80 000 franchi all’anno per la toilette personale, con de Turenne, cui assegna un budget di 24 000. Si cambia quattro volte al giorno, compresa la camicia e le calze di seta. Ama lodare la semplicità delle proprie esigenze: mi basterebbero 1200 franchi e un cavallo, dice.
Nel pieno dei furori della Rivoluzione e poi delle accensioni dell’età romantica, il giovane ex giacobino si dichiara inorridito da eccessi che giudica folli e disgustosi. Scrive al fratello: «A vederlo da vicino, il popolo non vale la pena di darsi da fare per meritare i suoi favori. È come ad Ajaccio: la storia è la stessa, forse qui gli uomini sono piú piccini, piú cattivi, piú calunniatori, piú censori. Ciascuno persegue i suoi interessi, e vuole arrivare a forza di orrori e calunnie; gli intrighi sono del livello piú basso».
Abbandona il modello rousseauiano della decrescita felice e mette a punto una prassi fondata su un empirismo anglosassone che sa guardare lontano. L’entusiasmo, lo slancio non bastano. Occorrono competenza, ordine, rigore. Aveva capito presto che l’Ancien Régime non poteva offrire spiragli alle ambizioni di un giovane di provincia, e che una Corsica chiusa nella doppia gabbia dell’insularità e dell’indipendenza non poteva conoscere sviluppo. Per questo era stato giocoforza accettare e far proprio l’apparentamento forzato alla Francia, anche a costo di uccidere metaforicamente il padre politico, Paoli, forse l’unico che gli si possa attribuire. I maestri che si riconosce sono ricavati dalla lettura dei classici, modelli con cui avviare una competizione a distanza, da Alessandro a Cesare. Allo stesso tempo misura il vuoto di potere che la Rivoluzione ha lasciato. Le sue conquiste possono essere preservate e rilanciate solo da una adeguata forza militare che le controlli e incanali nella giusta direzione, perché niente è piú distruttivo dell’anarchia che segue i grandi rivolgimenti. Fino alla fine continuerà a proclamarsi un figlio della Rivoluzione, colui che ne ha saputo sviluppare gli elementi fondativi e irrinunciabili.
Studia il modello inglese, ammirando un parlamento che limita l’arbitrio del sovrano e della grande aristocrazia. Si convince della superiorità dei governi repubblicani, del nesso che corre tra sviluppo economico e libertà, del ruolo frenante della Chiesa. Si vieta i sentimenti perché sterili e improduttivi, a cominciare dall’amore, nocivo perché allontana l’uomo dal suo impegno civile: «È l’occupazione dell’ozioso e la rovina del sovrano». «L’uomo nato per gli affari e per esercitare l’autorità non vede le persone, non si occupa che delle cose, della loro rilevanza delle loro conseguenze». O ancora: «Il cuore di un uomo di Stato deve sempre stare nel cervello». Un uomo che sia un uomo non deve odiare, perché l’odio e il rancore offuscano la nitidezza della sua visione e la lucidità delle sue strategie: «non deve avere né cuore né coglioni». Però ammette: «Il mio difetto è di non poter sopportare le offese» (1801).
Concede di avere un cuore anche lui, ma è un cuore di sovrano: «Non mi faccio turbare dalle lacrime di una duchessa, sono colpito dalle sofferenze del popolo». «È buono, – dice Giuseppina, – lo si giudicherebbe meglio se non fosse costretto a resistere a quegli impulsi del cuore che lui considera debolezze». Lui sembra convenire: «Se di un re si dice che è un brav’uomo, si parla di un sovrano difettoso».
Sa che molti comportamenti sono dettati e quasi imposti dalle circostanze. Il suo è una sorta di relativismo contestuale. Si considera tollerante e magnanimo: «È noto che mi liberavo difficilmente delle persone con cui avevo cominciato a lavorare, e non ho mai buttato a mare nessuno, se non costretto dalle necessità».
Diffidente per natura, non crede alla sincerità, nemmeno a quella dei collaboratori piú stretti: «Ho fatto dei cortigiani, non ho mai preteso di farne degli amici». Ha degli uomini una concezione cosí bassa che è difficile sorprenderlo: «Sfido qualcuno a imbrogliarmi. Bisognerebbe che gli uomini fossero ben scellerati per esserlo quanto suppongo che siano…» Ogni mezzo è buono per raggiungere il proprio scopo. Si possono anche usare le moine, le civetterie. Bisogna prendere gli uomini per quello che sono, con tutti i loro difetti, e sfruttarne le caratteristiche a proprio vantaggio. Un generale corrotto o avido che si abbandona ai saccheggi può essere spinto a farsi perdonare dimostrando in battaglia un coraggio speciale.
Lascia interdetti i suoi interlocutori alternando severità e durezze a scherzi e facezie. Tratta gentilmente collaboratori e domestici, ma chiede loro una disponibilità e una devozione senza limiti, che non ammette malattie o debolezze. Come segnale di particolare benevolenza, fa il ganascino o tira le orecchie fino a far male. Rifila carezze che sembrano degli schiaffi.
Si compiace di una resistenza fisica fuori del comune, e la attribuisce alla forza della fibra morale, che ha bandito dal proprio vocabolario la parola «impossibile», alibi dei poltroni. Fa diffondere le notizie delle sue imprese per impressionare collaboratori e avversari, per rafforzare l’identikit del superuomo che non ha lati deboli. È in grado di coprire le trentacinque leghe, circa 170 km, che separano Valladolid da Burgos, in cinque ore e mezzo. Le sue cacce piú brevi sono di sedici leghe (80 km). Cavalca male, «come un macellaio», dice un maggiore sassone, ma ha una grande resistenza e un coraggio che rasenta l’incoscienza. Delle sue cadute in ogni caso non si può parlare. Pratica la teoria degli eccessi opposti e contrari: dopo qualche tempo di riposo, fa una corsa di sessanta miglia o una caccia che dura tutto il giorno; se è molto stanco, è capace di dormire ventiquattr’ore. Dorme ovunque, su una sedia, una pelle d’orso, in carrozza. Temprarsi alla fatica costruisce un carattere. Bisogna allenarsi a sopportare gli strapazzi, e non lo si può fare andando alla caccia alla lepre, come faceva il fratello Giuseppe a Napoli.
Non crede che la fisionomia sia lo specchio dell’uomo, anzi, lo ritiene un errore volgare. «Non mi sono mai lasciato impressionare né dai visi né dalle parole; ma ad ogni modo bisogna convenire che ci sono delle analogie curiose fra i tratti di certi individui e il muso di alcune bestie». Ad esempio Hudson Lowe, il governatore-carceriere di Sant’Elena ha qualcosa del muso della lince: «È buono per fare il capo degli sbirri, non il governatore».
È costretto a creare intorno a sé un’atmosfera di timore, altrimenti, dice, gli sarebbero venuti a mangiare in mano o dato pacche sulle spalle. Meglio essere temuti che amati. Usa a freddo scenate e rimproveri per saggiare rapidamente la personalità di chi gli sta davanti, lo pesa dalla qualità delle reazioni. Spiega: «Conoscevo cosí la tempra di un animo dal suono che dava. Se con una mano guantata battete su un vaso di bronzo, quello resta muto; se lo percuotete con un martello, vedrete che manderà un suono». La violenza delle sue collere teatrali fa dire a Talleyrand: «Peccato che un cosí grand’uomo sia un tal maleducato». Sua madre, ancora in tarda età, non aveva difficoltà a raccontare che gli aveva visto trattare i fratelli e la moglie «come lacchè», scagliare a terra e calpestare oggetti d’oro e vasi di cristallo, imbrattare tappezzerie con lanci di boccette d’inchiostro e tazze di caffè. Poi, «come il vento impetuoso di Corsica, si calmava d’improvviso, cercava di farsi perdonare con parole gentili e atteggiamenti umilissimi». Lui precisava: «Posso perdonare, ma dimenticare è un’altra cosa».
Per Madame de Staël, «la forza della sua volontà consiste nel calcolo imperturbabile del suo egoismo; è un abile giocatore di scacchi, dove il genere umano è l’avversario cui vuol dare scacco matto». Lui si attribuiva una qualità piú semplice: «Il mio talento è veder chiaro in tutto» attraverso l’accuratezza dell’analisi e del calcolo.
Un altro tratto distintivo della sua personalità è la capacità di concentrare pensieri complessi nella forma breve di aforismi fulminanti che sembrano scolpiti nel marmo, e si ricollegano direttamente alla grande tradizione di La Rochefoucauld, Joubert, Voltaire, Lichtenberg. L’uomo che disprezzava i salotti ne sarebbe stato il dominatore con i suoi bon mots.
È alto 1,68 m, ha gambe corte, busto molto sviluppato, testa leggermente insaccata nelle spalle. Non ha una buona vista, deve utilizzare degli occhiali a 18 linee. Madame de Staël: «Di statura non alta, e di taglia forte, sta meglio a cavallo che in piedi. In società si muove con un impaccio senza timidezza».
Secondo la duchessa d’Abrantès, moglie del generale Junot, che lo conosceva bene, «è difficile, se non impossibile, rendere lo charme della sua fisionomia quando sorrideva con un pensiero carezzevole: aveva l’anima sulle labbra e negli occhi. Sappiamo abbastanza bene quale fu, piú tardi, la potenza magica di quello sguardo. Lo aveva provato anche l’imperatore di Russia quando mi diceva: “Non ho amato nulla piú di quell’uomo”».
Il suo aspetto cambia radicalmente nel giro di pochi anni, racconta la duchessa: già ossuto, giallastro, perfino un po’ malaticcio, si arrotonda, rischiara, abbellisce.
Mangia in dieci minuti, si alza dal tavolo prima del dessert. Mai da solo, perché gli piace parlare. I pranzi prevedono dalle dodici alle sedici portate, da cui pesca a caso, sempre sospettoso d’avvelenamenti. Ha gusti semplici, manzo, pollo, carni ovine, minestre, fave, lenticchie, patate fritte con cipolle. Beve un po’ di Borgogna tagliato con acqua. Niente dessert. Quando Giuseppina gli fa notare che è troppo frettoloso, sorride, si risiede un istante, poi si alza e se ne va senza dire una parola. Finito il lavoro, fa venire gelati e sorbetti. Di notte porta in testa un berretto di madras. Chiama «monsieur» i camerieri. Fa colazione alle nove e mezza, in otto minuti, su un tavolinetto senza tovaglia. Il suo pranzo è previsto a budget per una spesa di 100 franchi al giorno. Se ha tempo, ama intrattenersi famigliarmente con scienziati (Monge, Berthollet), pittori (Denon, David, Gérard, Isabey), attori (Talma), architetti (Fontaine).
Malattie accertate: disturbi di stomaco, versamenti di bile, eczemi, emorroidi (di cui soffre un grave attacco proprio a Waterloo). Ha una sfiducia incrollabile nei medici, che giudica sostanzialmente dei ciarlatani. Confida: «L’acqua, l’aria e la pulizia sono i principali articoli della mia farmacopea». Facile al vomito, è molto sensibile agli odori. Gli riesce particolarmente odioso quello della vernice fresca. In compenso adora l’acqua di Colonia, con cui si friziona quotidianamente. Si fa la barba da solo, per sicurezza, cambia tutti i giorni il gilet di flanella, i calzoni di cashmere bianco, le calze di seta. Porta le uniformi sino a quando non sono vistosamente consumate. Dice che due all’anno gli bastano. Il budget per il vestiario non deve superare i 1500 franchi. Quando gioca, vuole sempre vincere, è pronto a barare senza pudore, persino a scacchi. Tutti lo lasciano fare.
Va a letto presto, alle dieci, ma si sveglia dopo quattro ore, indossa una vestaglia, si mette una bandana in testa, lavora per un’ora, muovendosi nervosamente avanti e indietro per la stanza, giocherellando nervosamente con le tabacchiere, sempre concentratissimo. Ha una calligrafia contorta, pressoché illeggibile, che egli stesso non è in grado di decifrare, ma non può perdere tempo con la scrittura, cui provvedono segretari e scrivani sfinendosi di fatica. Arriva a dettare piú lettere contemporaneamente, ogni volta come se parlasse direttamente con il destinatario, accalorandosi, senza lasciare scampo agli scrivani condannati a rincorrerlo. Vietato farlo ripetere o interromperlo. Detta a tutti quelli che sono a tiro, fossero anche principi, duchi, ministri, marescialli. Si calcola che abbia scritto o dettato almeno 35 000 lettere e dispacci. Vuole segretari che non entrino troppo in confidenza: intelligenti, colti, discreti, ma soprattutto macchine da scrittura. La stenografia o tachigrafia viene introdotta solo nel 1812, quando Méneval, sfinito, si ritira.
Non dimentica un numero, ma storpia le parole. Dice Filippiche per Filippine, sezione per sessione, punto fulminante per punto culminante, armistizio per amnistia, Ebro per Elba, Rambulet per Rambouillet, Smolenks per Salamanca. In privato usa un linguaggio rude, soldatesco. A Vilnius, quando si accorge che lo zar lo prende in giro, sbotta: «Alessandro se ne fotte di me».
Accumula per poter meglio ridistribuire. Spiega: «La mia ricchezza, centinaia di milioni, era quella della Francia: gliela diedi tutta perché mi ero fuso con lei. Non ebbi piaceri, gioie, soddisfazioni, ricchezze che non fossero quelle del popolo francese. Quando Giuseppina, con l’autorità che le veniva dal mio nome, si accaparrava qualche capolavoro o lo faceva trasportare tra le pareti domestiche, provavo pena: quel quadro, quella statua, quell’oggetto di valore non stavano in un museo».
Dipinto come despota sicuro di se stesso, è spesso indeciso. «Perentorio nella forma, era flessibile e al fondo spesso irresoluto» (Benjamin Constant). Nel 1799 spiega a Roederer: «Non c’è uomo piú pusillanime di me quando stendo un piano militare: ingigantisco tutti i pericoli e tutti i mali possibili in quella data circostanza. Entro in un’agitazione assolutamente penosa. Questo non mi impedisce di apparire sereno alle persone che mi circondano. Quando ho preso una decisione, dimentico tutto, tranne quello che la può portar al successo». «Lo hanno detto perfido, era soltanto mutevole» (Stendhal). Lui spiegava: «Solo gli sciocchi credono d’essere infallibili, a parte il Papa», ma il messaggio che arrivava all’opinione pubblica era che non sbagliava mai. È pronto a cambiare idea, a esercitare l’autocritica: «Bisogna sempre riservarsi il diritto di ridere il giorno dopo delle idee del giorno prima. Può capitare che mi contraddica, è una cosa del tutto naturale in una discussione».
Vi sono situazioni in cui il grande decisionista sembra avere un singolare ritegno nell’imporre la sua volontà. Cerca il consenso, la persuasione. È di una pazienza longanime e quasi autolesionista con certi suoi fratelli, con alcuni generali, con Talleyrand e Fouché, di cui peraltro teme le ciniche scaltrezze. Se ha innalzato qualcuno ai piú alti livelli, non osa abbatterlo, al massimo lo promuove a posizioni ben remunerate. Lascia che generali e marescialli, spesso usciti dal popolo, accumul...

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