«Sento lâinfinito, in me». CosĂ N. nella gabbia di SantâElena, quasi a giustificare lâenormitĂ delle sue ambizioni, la grandezza che perfino la rovinosa caduta finisce per evidenziare e lo stesso martirio, opportunamente raccontato ed enfatizzato, rende ancora piĂș visibile. Si Ăš autodefinito «lâuomo piĂș grande che sia mai esistito», e puĂČ rivendicare con orgoglio le proprie modeste origini per misurare la strada percorsa e lâunicitĂ che lo distingue dai milioni di uomini di cui non rimane traccia.
Ă figlio di un avvocaticchio in unâisola senza risorse, arcaica e un poco ferina, con i suoi borghi aggrappati alle montagne, travagliata da aspre lotte tra fazioni, condannata a una vita grama, simile a quella dellâantica Sparta. Ajaccio Ăš un borgo rissoso di 3500 anime. Lâestremismo selvatico degli abitanti, cosĂ anacronistico agli occhi degli europei, Ăš fatto di senso dellâonore, forza dei legami di sangue, passionalitĂ , coraggio sprezzante, fedeltĂ al codice della vendetta.
Tuttavia N. riconosce di essere stato addirittura avvantaggiato dal fatto di uscire da una famiglia di modeste sostanze: la Rivoluzione lo avrebbe proscritto, il popolo gli avrebbe rimproverato di appartenere allâaristocrazia, non avrebbe potuto ottenere il comando di un esercito repubblicano e se anche lâavesse ottenuto non sarebbe riuscito a esprimere lo stesso libero ardimento. La condizione mediana, anonima, era dunque la piĂș adatta per intraprendere la carriera che poi avrebbe avuto.
Nato nel 1769, Ăš il secondo di sette fratelli. Un bambino secco, nervoso, robusto, che sfida subito lâautoritĂ del primogenito. La madre lo chiama Nabulio. Cresce per strada, nella piazzetta davanti a casa, dimostrando subito attitudini al comando. A nove anni viene spedito in un collegio militare del continente, a Brienne, dove rimarrĂ cinque anni, grazie ai buoni uffici di un amico di famiglia, il governatore Marbeuf. Studia a spese dello Stato francese che ha sconfitto quello che era il suo idolo, Pasquale Paoli, lâEpaminonda, il Leonida, il Cromwell dellâindipendenza corsa. Al collegio tutti si fanno beffe dellâispido provincialotto che porta un nome bizzarro, ha modi un poâ rozzi, parla un cattivo francese e guarda tutti in cagnesco.
Ă lĂ che il ragazzo matura la sua conoscenza disincantata degli uomini, il suo disprezzo per la mediocritĂ e il compromesso, la sua voglia di rivincita, ma anche la freddezza razionale con cui valuta la situazione e cerca una via dâuscita. Ă giĂ machiavellico senza aver letto Machiavelli. La lettura di Plutarco gli rafforza unâattitudine per lâeroismo sdegnoso e classicheggiante, nemico della tirannide. Scrive: «La morte non Ăš niente, ma vivere sconfitti e privi di gloria Ăš morire un poâ per giorno». Studia con fervore matematica e geometria, che rispondono alle sue esigenze di ordine, calcolo, metodo, e favoriscono la passione per lâartiglieria, che diventa la sua specializzazione sin dallâassedio di Tolone, in cui si metterĂ subito in vista.
I numeri diventano uno strumento potente per «leggere» e modificare la realtĂ . Alle chiacchiere di politicanti, amministratori, filosofi, letterati e pubblicisti opporrĂ sempre lâinoppugnabile filtro del fact checking, la nuda e dura veritĂ dei fatti e dei dati. Quando nel 1784 il padre muore di un cancro intestinale a soli trentanove anni, lui che ne ha quindici si sente investito delle responsabilitĂ del capofamiglia. Per lâintera vita non farĂ che applicare alla cosa pubblica il modello di una gestione familiare improntato al piĂș vigile rigore, al culto del budget, al regolamento puntuale di ogni affare anche minuto. Matura lâatteggiamento del buon padre che tutto vede e a tutto provvede, del massaio abituato ad amministrare con oculatezza le scarse risorse disponibili, lâabitudine e la pretesa di regolare nei dettagli la vita di fratelli, sorelle, collaboratori e sottoposti, sino allâultimo valletto, dando pareri pressochĂ© vincolanti anche sui loro matrimoni, a costo di scatenare tensioni e conflitti.
Quando passa alla Ăcole militaire di Parigi per ufficiali, quasi lussuosa in confronto a quella di Brienne (dove perĂČ puĂČ misurare ancor meglio il peso delle distanze sociali), manda un memoriale al sottoprefetto dellâistituto in cui suggerisce che invece di circondare gli allievi di tanti domestici, era meglio risparmiare sui costi ed educarli a una vita sobria e spartana: avrebbero dovuto provvedere da soli alle pulizie, e prepararsi alle fatiche della guerra. In compenso il professore di tedesco, Bauer, non vuole ammetterlo agli esami finali, convinto che «lâallievo Buonaparte non sia che una gran bestia». Quando indossa la divisa regolamentare, gli danno degli stivali cosĂ grandi che le sue gambe magre ci nuotano dentro. Nel giugno 1792 assiste alla presa delle Tuileries, vede il re affacciarsi alla finestra con il berretto frigio. «Che coglione â esclama. â PerchĂ© ha lasciato entrare quella canaglia? Bastava prenderne a cannonate quattro o cinquecento, il resto scapperebbe ancora».
«Avevo lâistinto della fondazione, non quello della proprietà », dirĂ a SantâElena. Largo con gli altri, munifico con alcuni, economo con se stesso. Sostituisce RĂ©musat, che gli fa spendere 80 000 franchi allâanno per la toilette personale, con de Turenne, cui assegna un budget di 24 000. Si cambia quattro volte al giorno, compresa la camicia e le calze di seta. Ama lodare la semplicitĂ delle proprie esigenze: mi basterebbero 1200 franchi e un cavallo, dice.
Nel pieno dei furori della Rivoluzione e poi delle accensioni dellâetĂ romantica, il giovane ex giacobino si dichiara inorridito da eccessi che giudica folli e disgustosi. Scrive al fratello: «A vederlo da vicino, il popolo non vale la pena di darsi da fare per meritare i suoi favori. Ă come ad Ajaccio: la storia Ăš la stessa, forse qui gli uomini sono piĂș piccini, piĂș cattivi, piĂș calunniatori, piĂș censori. Ciascuno persegue i suoi interessi, e vuole arrivare a forza di orrori e calunnie; gli intrighi sono del livello piĂș basso».
Abbandona il modello rousseauiano della decrescita felice e mette a punto una prassi fondata su un empirismo anglosassone che sa guardare lontano. Lâentusiasmo, lo slancio non bastano. Occorrono competenza, ordine, rigore. Aveva capito presto che lâAncien RĂ©gime non poteva offrire spiragli alle ambizioni di un giovane di provincia, e che una Corsica chiusa nella doppia gabbia dellâinsularitĂ e dellâindipendenza non poteva conoscere sviluppo. Per questo era stato giocoforza accettare e far proprio lâapparentamento forzato alla Francia, anche a costo di uccidere metaforicamente il padre politico, Paoli, forse lâunico che gli si possa attribuire. I maestri che si riconosce sono ricavati dalla lettura dei classici, modelli con cui avviare una competizione a distanza, da Alessandro a Cesare. Allo stesso tempo misura il vuoto di potere che la Rivoluzione ha lasciato. Le sue conquiste possono essere preservate e rilanciate solo da una adeguata forza militare che le controlli e incanali nella giusta direzione, perchĂ© niente Ăš piĂș distruttivo dellâanarchia che segue i grandi rivolgimenti. Fino alla fine continuerĂ a proclamarsi un figlio della Rivoluzione, colui che ne ha saputo sviluppare gli elementi fondativi e irrinunciabili.
Studia il modello inglese, ammirando un parlamento che limita lâarbitrio del sovrano e della grande aristocrazia. Si convince della superioritĂ dei governi repubblicani, del nesso che corre tra sviluppo economico e libertĂ , del ruolo frenante della Chiesa. Si vieta i sentimenti perchĂ© sterili e improduttivi, a cominciare dallâamore, nocivo perchĂ© allontana lâuomo dal suo impegno civile: «à lâoccupazione dellâozioso e la rovina del sovrano». «Lâuomo nato per gli affari e per esercitare lâautoritĂ non vede le persone, non si occupa che delle cose, della loro rilevanza delle loro conseguenze». O ancora: «Il cuore di un uomo di Stato deve sempre stare nel cervello». Un uomo che sia un uomo non deve odiare, perchĂ© lâodio e il rancore offuscano la nitidezza della sua visione e la luciditĂ delle sue strategie: «non deve avere nĂ© cuore nĂ© coglioni». PerĂČ ammette: «Il mio difetto Ăš di non poter sopportare le offese» (1801).
Concede di avere un cuore anche lui, ma Ăš un cuore di sovrano: «Non mi faccio turbare dalle lacrime di una duchessa, sono colpito dalle sofferenze del popolo». «à buono, â dice Giuseppina, â lo si giudicherebbe meglio se non fosse costretto a resistere a quegli impulsi del cuore che lui considera debolezze». Lui sembra convenire: «Se di un re si dice che Ăš un bravâuomo, si parla di un sovrano difettoso».
Sa che molti comportamenti sono dettati e quasi imposti dalle circostanze. Il suo Ú una sorta di relativismo contestuale. Si considera tollerante e magnanimo: «à noto che mi liberavo difficilmente delle persone con cui avevo cominciato a lavorare, e non ho mai buttato a mare nessuno, se non costretto dalle necessità ».
Diffidente per natura, non crede alla sinceritĂ , nemmeno a quella dei collaboratori piĂș stretti: «Ho fatto dei cortigiani, non ho mai preteso di farne degli amici». Ha degli uomini una concezione cosĂ bassa che Ăš difficile sorprenderlo: «Sfido qualcuno a imbrogliarmi. Bisognerebbe che gli uomini fossero ben scellerati per esserlo quanto suppongo che sianoâŠÂ» Ogni mezzo Ăš buono per raggiungere il proprio scopo. Si possono anche usare le moine, le civetterie. Bisogna prendere gli uomini per quello che sono, con tutti i loro difetti, e sfruttarne le caratteristiche a proprio vantaggio. Un generale corrotto o avido che si abbandona ai saccheggi puĂČ essere spinto a farsi perdonare dimostrando in battaglia un coraggio speciale.
Lascia interdetti i suoi interlocutori alternando severitĂ e durezze a scherzi e facezie. Tratta gentilmente collaboratori e domestici, ma chiede loro una disponibilitĂ e una devozione senza limiti, che non ammette malattie o debolezze. Come segnale di particolare benevolenza, fa il ganascino o tira le orecchie fino a far male. Rifila carezze che sembrano degli schiaffi.
Si compiace di una resistenza fisica fuori del comune, e la attribuisce alla forza della fibra morale, che ha bandito dal proprio vocabolario la parola «impossibile», alibi dei poltroni. Fa diffondere le notizie delle sue imprese per impressionare collaboratori e avversari, per rafforzare lâidentikit del superuomo che non ha lati deboli. Ă in grado di coprire le trentacinque leghe, circa 170 km, che separano Valladolid da Burgos, in cinque ore e mezzo. Le sue cacce piĂș brevi sono di sedici leghe (80 km). Cavalca male, «come un macellaio», dice un maggiore sassone, ma ha una grande resistenza e un coraggio che rasenta lâincoscienza. Delle sue cadute in ogni caso non si puĂČ parlare. Pratica la teoria degli eccessi opposti e contrari: dopo qualche tempo di riposo, fa una corsa di sessanta miglia o una caccia che dura tutto il giorno; se Ăš molto stanco, Ăš capace di dormire ventiquattrâore. Dorme ovunque, su una sedia, una pelle dâorso, in carrozza. Temprarsi alla fatica costruisce un carattere. Bisogna allenarsi a sopportare gli strapazzi, e non lo si puĂČ fare andando alla caccia alla lepre, come faceva il fratello Giuseppe a Napoli.
Non crede che la fisionomia sia lo specchio dellâuomo, anzi, lo ritiene un errore volgare. «Non mi sono mai lasciato impressionare nĂ© dai visi nĂ© dalle parole; ma ad ogni modo bisogna convenire che ci sono delle analogie curiose fra i tratti di certi individui e il muso di alcune bestie». Ad esempio Hudson Lowe, il governatore-carceriere di SantâElena ha qualcosa del muso della lince: «à buono per fare il capo degli sbirri, non il governatore».
Ă costretto a creare intorno a sĂ© unâatmosfera di timore, altrimenti, dice, gli sarebbero venuti a mangiare in mano o dato pacche sulle spalle. Meglio essere temuti che amati. Usa a freddo scenate e rimproveri per saggiare rapidamente la personalitĂ di chi gli sta davanti, lo pesa dalla qualitĂ delle reazioni. Spiega: «Conoscevo cosĂ la tempra di un animo dal suono che dava. Se con una mano guantata battete su un vaso di bronzo, quello resta muto; se lo percuotete con un martello, vedrete che manderĂ un suono». La violenza delle sue collere teatrali fa dire a Talleyrand: «Peccato che un cosĂ grandâuomo sia un tal maleducato». Sua madre, ancora in tarda etĂ , non aveva difficoltĂ a raccontare che gli aveva visto trattare i fratelli e la moglie «come lacchÚ», scagliare a terra e calpestare oggetti dâoro e vasi di cristallo, imbrattare tappezzerie con lanci di boccette dâinchiostro e tazze di caffĂš. Poi, «come il vento impetuoso di Corsica, si calmava dâimprovviso, cercava di farsi perdonare con parole gentili e atteggiamenti umilissimi». Lui precisava: «Posso perdonare, ma dimenticare Ăš unâaltra cosa».
Per Madame de StaĂ«l, «la forza della sua volontĂ consiste nel calcolo imperturbabile del suo egoismo; Ăš un abile giocatore di scacchi, dove il genere umano Ăš lâavversario cui vuol dare scacco matto». Lui si attribuiva una qualitĂ piĂș semplice: «Il mio talento Ăš veder chiaro in tutto» attraverso lâaccuratezza dellâanalisi e del calcolo.
Un altro tratto distintivo della sua personalitĂ Ăš la capacitĂ di concentrare pensieri complessi nella forma breve di aforismi fulminanti che sembrano scolpiti nel marmo, e si ricollegano direttamente alla grande tradizione di La Rochefoucauld, Joubert, Voltaire, Lichtenberg. Lâuomo che disprezzava i salotti ne sarebbe stato il dominatore con i suoi bon mots.
à alto 1,68 m, ha gambe corte, busto molto sviluppato, testa leggermente insaccata nelle spalle. Non ha una buona vista, deve utilizzare degli occhiali a 18 linee. Madame de Staël: «Di statura non alta, e di taglia forte, sta meglio a cavallo che in piedi. In società si muove con un impaccio senza timidezza».
Secondo la duchessa dâAbrantĂšs, moglie del generale Junot, che lo conosceva bene, «Ú difficile, se non impossibile, rendere lo charme della sua fisionomia quando sorrideva con un pensiero carezzevole: aveva lâanima sulle labbra e negli occhi. Sappiamo abbastanza bene quale fu, piĂș tardi, la potenza magica di quello sguardo. Lo aveva provato anche lâimperatore di Russia quando mi diceva: âNon ho amato nulla piĂș di quellâuomoâ».
Il suo aspetto cambia radicalmente nel giro di pochi anni, racconta la duchessa: giĂ ossuto, giallastro, perfino un poâ malaticcio, si arrotonda, rischiara, abbellisce.
Mangia in dieci minuti, si alza dal tavolo prima del dessert. Mai da solo, perchĂ© gli piace parlare. I pranzi prevedono dalle dodici alle sedici portate, da cui pesca a caso, sempre sospettoso dâavvelenamenti. Ha gusti semplici, manzo, pollo, carni ovine, minestre, fave, lenticchie, patate fritte con cipolle. Beve un poâ di Borgogna tagliato con acqua. Niente dessert. Quando Giuseppina gli fa notare che Ăš troppo frettoloso, sorride, si risiede un istante, poi si alza e se ne va senza dire una parola. Finito il lavoro, fa venire gelati e sorbetti. Di notte porta in testa un berretto di madras. Chiama «monsieur» i camerieri. Fa colazione alle nove e mezza, in otto minuti, su un tavolinetto senza tovaglia. Il suo pranzo Ăš previsto a budget per una spesa di 100 franchi al giorno. Se ha tempo, ama intrattenersi famigliarmente con scienziati (Monge, Berthollet), pittori (Denon, David, GĂ©rard, Isabey), attori (Talma), architetti (Fontaine).
Malattie accertate: disturbi di stomaco, versamenti di bile, eczemi, emorroidi (di cui soffre un grave attacco proprio a Waterloo). Ha una sfiducia incrollabile nei medici, che giudica sostanzialmente dei ciarlatani. Confida: «Lâacqua, lâaria e la pulizia sono i principali articoli della mia farmacopea». Facile al vomito, Ăš molto sensibile agli odori. Gli riesce particolarmente odioso quello della vernice fresca. In compenso adora lâacqua di Colonia, con cui si friziona quotidianamente. Si fa la barba da solo, per sicurezza, cambia tutti i giorni il gilet di flanella, i calzoni di cashmere bianco, le calze di seta. Porta le uniformi sino a quando non sono vistosamente consumate. Dice che due allâanno gli bastano. Il budget per il vestiario non deve superare i 1500 franchi. Quando gioca, vuole sempre vincere, Ăš pronto a barare senza pudore, persino a scacchi. Tutti lo lasciano fare.
Va a letto presto, alle dieci, ma si sveglia dopo quattro ore, indossa una vestaglia, si mette una bandana in testa, lavora per unâora, muovendosi nervosamente avanti e indietro per la stanza, giocherellando nervosamente con le tabacchiere, sempre concentratissimo. Ha una calligrafia contorta, pressochĂ© illeggibile, che egli stesso non Ăš in grado di decifrare, ma non puĂČ perdere tempo con la scrittura, cui provvedono segretari e scrivani sfinendosi di fatica. Arriva a dettare piĂș lettere contemporaneamente, ogni volta come se parlasse direttamente con il destinatario, accalorandosi, senza lasciare scampo agli scrivani condannati a rincorrerlo. Vietato farlo ripetere o interromperlo. Detta a tutti quelli che sono a tiro, fossero anche principi, duchi, ministri, marescialli. Si calcola che abbia scritto o dettato almeno 35 000 lettere e dispacci. Vuole segretari che non entrino troppo in confidenza: intelligenti, colti, discreti, ma soprattutto macchine da scrittura. La stenografia o tachigrafia viene introdotta solo nel 1812, quando MĂ©neval, sfinito, si ritira.
Non dimentica un numero, ma storpia le parole. Dice Filippiche per Filippine, sezione per sessione, punto fulminante per punto culminante, armistizio per amnistia, Ebro per Elba, Rambulet per Rambouillet, Smolenks per Salamanca. In privato usa un linguaggio rude, soldatesco. A Vilnius, quando si accorge che lo zar lo prende in giro, sbotta: «Alessandro se ne fotte di me».
Accumula per poter meglio ridistribuire. Spiega: «La mia ricchezza, centinaia di milioni, era quella della Francia: gliela diedi tutta perchĂ© mi ero fuso con lei. Non ebbi piaceri, gioie, soddisfazioni, ricchezze che non fossero quelle del popolo francese. Quando Giuseppina, con lâautoritĂ che le veniva dal mio nome, si accaparrava qualche capolavoro o lo faceva trasportare tra le pareti domestiche, provavo pena: quel quadro, quella statua, quellâoggetto di valore non stavano in un museo».
Dipinto come despota sicuro di se stesso, Ăš spesso indeciso. «Perentorio nella forma, era flessibile e al fondo spesso irresoluto» (Benjamin Constant). Nel 1799 spiega a Roederer: «Non câĂš uomo piĂș pusillanime di me quando stendo un piano militare: ingigantisco tutti i pericoli e tutti i mali possibili in quella data circostanza. Entro in unâagitazione assolutamente penosa. Questo non mi impedisce di apparire sereno alle persone che mi circondano. Quando ho preso una decisione, dimentico tutto, tranne quello che la puĂČ portar al successo». «Lo hanno detto perfido, era soltanto mutevole» (Stendhal). Lui spiegava: «Solo gli sciocchi credono dâessere infallibili, a parte il Papa», ma il messaggio che arrivava allâopinione pubblica era che non sbagliava mai. Ă pronto a cambiare idea, a esercitare lâautocritica: «Bisogna sempre riservarsi il diritto di ridere il giorno dopo delle idee del giorno prima. PuĂČ capitare che mi contraddica, Ăš una cosa del tutto naturale in una discussione».
Vi sono situazioni in cui il grande decisionista sembra avere un singolare ritegno nellâimporre la sua volontĂ . Cerca il consenso, la persuasione. Ă di una pazienza longanime e quasi autolesionista con certi suoi fratelli, con alcuni generali, con Talleyrand e FouchĂ©, di cui peraltro teme le ciniche scaltrezze. Se ha innalzato qualcuno ai piĂș alti livelli, non osa abbatterlo, al massimo lo promuove a posizioni ben remunerate. Lascia che generali e marescialli, spesso usciti dal popolo, accumul...