Stai zitta
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Stai zitta

e altre nove frasi che non vogliamo sentire piú

Michela Murgia, Anarkikka

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e altre nove frasi che non vogliamo sentire piú

Michela Murgia, Anarkikka

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Di tutte le cose che le donnepossono fare nel mondo, parlare è ancora consideratala piú sovversiva.Se si è donna, in Italia si muore anche dilinguaggio. È una morte civile, ma nonper questo fa meno male. È con le paroleche ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie, ma di parole ingiuste si muore anchenella vita quotidiana, dove il pregiudizioche passa per il linguaggio uccidela nostra possibilità di essere pienamentenoi stesse. Per ogni dislivello di dirittiche le donne subiscono a causa del maschilismoesiste un impianto verbale chelo sostiene e lo giustifica. Accade ognivolta che rifiutano di chiamarvi avvocata, sindaca o architetta perché altrimenti«dovremmo dire anche farmacisto».Succede quando fate un bel lavoro, ma vichiedono prima se siete mamma. Quandosiete le uniche di cui non si pronunciamai il cognome, se non con un articolodeterminativo davanti. Quando simettono a spiegarvi qualcosa che sapetegià perfettamente, quando vi dicono dicalmarvi, di farvi una risata, di scoparedi piú, di smetterla di spaventare gli uominicon le vostre opinioni, di sorriderepiuttosto, e soprattutto di star zitta.Questo libro è uno strumento che evidenziail legame mortificante che esistetra le ingiustizie che viviamo e le paroleche sentiamo. Ha un'ambizione: chetra dieci anni una ragazza o un ragazzo, trovandolo su una bancarella, possa pensaresorridendo che per fortuna questefrasi non le dice piú nessuno.

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Era solo un complimento

Era solo un complimento

Nella sontuosa cornice del teatro La Fenice di Venezia, durante la cerimonia di premiazione del Campiello del 2010 trasmessa da Rai 1, il conduttore Bruno Vespa invitò la scrittrice Silvia Avallone a salire sul palco per ritirare il premio assegnatole per il suo romanzo Acciaio, vincitore come miglior opera prima. Mentre Avallone faceva i pochi gradini verso il proscenio vestita di un abito da sera color crema del tutto adeguato all’eleganza della circostanza, Bruno Vespa esclamò rivolto alla regia: «Prego inquadrare lo spettacolare décolleté della signorina». Un istante prima di quella frase la scrittrice sorridente si stava voltando verso il teatro gremito per ricevere l’applauso per i suoi meriti letterari. Un attimo dopo tutti i presenti, dalle poltroncine e dai palchetti, uomini e donne indistintamente, le stavano fissando la scollatura. È facile immaginare che anche da ogni divano di casa gli spettatori, aiutati da una regia compiacente, stessero giudicando la spettacolarità del décolleté, del tutto dimentichi che Avallone si trovava su quel palco per ricevere un premio letterario, non per farsi inquadrare le tette.
Ciò che la scrittrice subí quella sera a favore di telecamera sul primo canale pubblico avrebbe avuto tutti gli estremi per essere definito una molestia. «Esagerata, – mi direte, – alla fine era solo un complimento». Smettete di pensarlo o di farvelo dire, perché non è vero. Un complimento è dire a una donna «Sei bella» e solo in certi contesti, per esempio se sei uscita a cena con un uomo che ti piace e non durante una premiazione letteraria o una riunione di lavoro. «Inquadratele le tette» invece non è un complimento in nessuna circostanza e in quella serata era specificamente un abuso di potere mediatico esercitato dal padrone del palcoscenico su una donna che non era nella condizione di reagire se non abbozzando.
«Inquadratele le tette» significa «dispongo dell’immagine del tuo corpo e neanche ti chiedo il permesso». A pretendere che la sua frase fosse un complimento ci provò lo stesso Bruno Vespa, difendendo la sua uscita come «un apprezzamento fatto con molta grazia» e dicendo a chi lo aveva criticato – nello specifico io – che mancava di «senso dell’umorismo». Ammetto di faticare a capire ancora oggi cosa ci fosse di umoristico nell’intimare a una regia di stringere l’inquadratura sul seno di una donna e aspettai per giorni che si alzassero altre voci critiche verso quel comportamento, doppiamente grave perché andava in onda sul primo canale del servizio pubblico. Attesi invano: solo Gad Lerner ebbe il coraggio di scrivere che quello che Vespa aveva fatto era un atto di potere, non un complimento. A levarsi numerose furono invece le voci in difesa di Vespa e delle sue buone intenzioni, con argomenti che oggi varrebbe la pena di andarsi a rileggere, anche solo per sentire quanto suonino insieme vuoti e gravi alla luce rivelatoria del #metoo. Ricordo un intervento su tutti, forse il piú emblematico, a firma di Claudio Sabelli Fioretti su «Io Donna», il settimanale femminile del «Corriere della Sera»: «Mi chiedo, se una giovane si presenta in pubblico scollatissima è perché il particolare è culturalmente pregnante o perché vuole essere ammirata? E se il conduttore, rozzamente quanto volete, la indica all’ammirazione, fa una cosa scorretta o fa quello che la giovane ha implicitamente stimolato?»
Mi stupisce ancora la tranquillità con cui l’argomento del se l’è cercata venne applicato al caso Avallone senza che nessuno facesse notare che è lo stesso artificio logico usato per dare alle vittime la colpa del loro stupro o dell’essere state oggetto di comportamenti sessualmente abusivi. L’idea che presentarsi in pubblico con un abito scollato implichi automaticamente l’autorizzazione a essere guardate nelle tette è la stessa che suppone il consenso a farsele toccare; in entrambi i casi, a pretendere di decidere quale sia la natura dell’atto non è la persona che lo subisce, ma quella che lo pratica, nella convinzione di essere stata provocata. Secondo questo ragionamento, l’unico modo per essere sicure di non ricevere attenzioni non gradite è mettersi il burqa.
Nessun maschio eterosessuale che tenesse una rubrica su qualsivoglia giornale, sito o canale televisivo italiano sembrò in quel momento in grado di riconoscere che il problema non è quanta pelle si veda del corpo di una donna, ma quanto lo sguardo maschile sia formato culturalmente a sessualizzare ogni centimetro che ne scorge. Se hai la testa a forma di fucile, tutto quello che vedi ti sembra un bersaglio, ed evidentemente la testa a forma di fucile, in questo Paese, ce l’avevano e continuano ad avercela ancora in parecchi.
Quanto questo equivoco abbia poco a che fare con il desiderio e molto con il potere è evidente dal fatto che le attenzioni sessuali non richieste diventano sempre piú esplicite quando la persona interessata è in una posizione di debolezza e non può reagire. La sera della cerimonia del 2010 il premio Campiello venne consegnato alla vincitrice dalla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, il cui abito blu elettrico era corto e non meno scollato di quello di Silvia Avallone, ma a nessuno, nemmeno a Vespa, sarebbe mai venuto in mente di intimare alla regia di inquadrare le tette della donna piú potente tra gli industriali italiani.
Non è inutile ricordare anche cosa disse Silvia Avallone, interpellata il giorno dopo la premiazione in merito alle attenzioni forzate di cui, secondo Sabelli Fioretti, avrebbe dovuto sentirsi la prima responsabile: «Francamente preferisco tirar dritto, come hanno imparato a fare le donne quando capitano cose simili». Non farne un dramma, insomma, ma se il dramma fosse proprio continuare a tirar dritto? Fare finta di niente è quello che abbiamo imparato, perché è quello che ci insegnano sin da bambine quando riceviamo attenzioni che non volevamo sollecitare. Davanti a ogni comportamento molesto ci intimano di essere superiori, sorridere, abbozzare e non opporre alcuna resistenza, perché tanto è una battaglia persa. L’idea che sia impossibile reagire è diffusissima e la si può capire, perché le energie che servono per ribellarsi all’essere considerate un bersaglio mobile delle esternazioni maschili sono troppe, dato che troppe sono ancora le azioni a cui bisognerebbe reagire. Chi vorrebbe opporsi avverte il rischio di precipitare in una sorta di guerriglia quotidiana contro chiunque, dal muratore del ponteggio che ti grida cosa farebbe col tuo culo, al collega in ufficio che ogni mattina ti fa la battuta a doppio senso davanti alla macchinetta del caffè. Ogni volta che protesti ricevi una strana e violenta ironia. Non sai farti una risata. Non hai senso dell’umorismo. Non capisci che è un complimento. Ti lamenti perché ti dicono che sei bella? Allora hai tu qualcosa che non va. Dovresti essere contenta se attiri il desiderio e l’ammirazione. Non è per questo che ti compri i vestiti, vai dal parrucchiere e ti trucchi? Non è lo sguardo maschile che cerchi? Se non ci fosse ti dispiacerebbe e quando non ci sarà piú, cioè quando sarai uscita dal radar anagrafico o estetico che ti identifica come oggetto di desiderio, vedrai come ti mancherà.
Dietro queste frasi c’è la convinzione che le donne vivano avendo come obiettivo l’essere desiderate dagli uomini e che siano in fondo loro stesse a chiedere di essere validate come sessualmente attraenti. Volere è potere, dice il proverbio, ma alle donne si lascia credere che il loro potere sia invece quello di essere volute. È un inganno: desiderare ti rende soggetto attivo e ti educa a scegliere, invece che a essere scelta. Chi desidera comanda. Dire sempre «desiderami» e mai «io desidero» è un cammino di de-formazione, perché chi può solo essere desiderabile sacrificherà la propria forma per prendere quella che pensa sarà piú desiderata, condannandosi a esistere solo come conseguenza dello sguardo di altri. Come Mina, molte di noi hanno cantato «sono come tu mi vuoi», recitando la parte della donna preda che si rivolge al suo amore «aspettando in silenzio»1 che egli si accorga di lei.
Non è strano che il risultato di questa pedagogia tossica sia che ogni ragazzina pensi di essere bella solo se trova qualcuno che glielo grida a ogni angolo di strada o le mette like sulla bacheca di un social network, e dentro questa dinamica è perfettamente logico che in ogni ambito pubblico il giudizio sulla maggiore o minore desiderabilità delle donne venga espresso di continuo anche in contesti in cui non c’entra assolutamente niente. Dalla «culona inchiavabile» riferito ad Angela Merkel da Silvio Berlusconi alle gallerie di foto che sui quotidiani invitano a votare «la ministra piú sexy», l’idea che ci sia un giudizio universale permanente che grava su tutte le donne si radica nell’animo delle donne stesse. Essere guardate ed esistere in questa logica diventano la stessa cosa. La frase «Se fai cosí i ragazzi non ti guarderanno» è il mantra che, generazione dopo generazione, ha incastonato dentro di noi una specie di occhio mistico in forza del quale finiamo da sole a guardarci l’un l’altra come pensiamo che ci guarderebbe un maschio: giudicandoci.
Al di là della già scomodissima questione del giudizio, l’equivoco che contrappone la desiderabilità passiva femminile al desiderio attivo maschile rivela il vero problema della cultura patriarcale, che è quello dell’inutilità del consenso. Supporre che essere desiderata sia l’interesse primario di ogni donna rende del tutto superflua la questione della sua volontà, che viene data per implicita in ogni manifestazione del comportamento. La scollatura diventa un consenso a essere fissate sul petto. La gonna corta a vedersi guardare le gambe da chiunque. Il rossetto a essere baciate all’improvviso. I jeans elasticizzati a beccarsi la pacca sul sedere in autobus. Il semplice camminare per strada diventa l’autorizzazione a farsi fischiare da ogni finestrino. Il trovarsi a una festa e bere è indicatore certo di disponibilità sessuale. A una donna non bisogna chiedere alcun permesso, perché è la sua stessa esistenza di creatura desiderabile ad autorizzare la manifestazione del desiderio. Questo impianto di pensiero ha un nome: si chiama «cultura dello stupro» e ha conseguenze quotidiane che fatichiamo ancora a riconoscere come violenza. La violenza è considerata un atto di forzatura, un gesto oppositivo. La difficoltà a riconoscerla in questi cosiddetti complimenti deriva dal fatto che non si vede a cosa dovrebbero contrapporsi, visto che il consenso delle donne è sempre presunto. La cultura dello stupro viene teorizzata per la prima volta nel 1975 nel documentario intitolato Rape Culture, ma la definizione che mi sembra piú corrispondente alla varietà di forme di violenza esercitabili sulla volontà delle donne resta per me quella di Buchwald, Fletcher e Roth:
La cultura dello stupro è un complesso di credenze che incoraggiano l’aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta. In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso. Una cultura dello stupro condona come «normale» il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia «un fatto della vita», inevitabile come la morte o le tasse2.
È sempre il linguaggio quotidiano a rivelare quanto questa definizione sia purtroppo corretta. Il modo in cui vengono raccontate le molestie nella cronaca giornalistica è intriso della cultura dello stupro, che agisce tutte le volte che le molestie verbali vengono definite «complimenti», le molestie on line «messaggi hot», l’insistenza non gradita «corteggiamento», le molestie fisiche «carezze», le allusioni sessuali «battute» e i video intimi diffusi in rete per vendetta «filmati hard». In questo registro è capitato di veder catalogare uno stupro di gruppo come «notte di sesso sfrenato» e di sentir definire un abusante «innamorato pazzo» o «don giovanni».
La cultura dello stupro vive del pregiudizio che se una donna dice no vuol dire forse e se dice forse vuol dire , per cui niente di quello che afferma in relazione alla sua volontà ha in realtà un valore fattuale. Un uomo nato e cresciuto dentro a questa cultura riesce con fatica a immaginare un altro modo di porsi e spesso cade dalle nubi quando gli si fa notare che il suo comportamento è inopportuno. La reazione difensiva è immediata: «Ma io non volevo essere molesto, era solo un complimento». L’idea che non siano le sue intenzioni a configurare la molestia gli è del tutto estranea. Se un uomo pensa: «Ho scritto un messaggio osé» e la donna che lo riceve pensa: «Ho ricevuto un messaggio molesto», chi ha ragione? Chi decide la natura dell’approccio? La risposta giusta dovrebbe essere sempre e solo una: decide chi lo riceve.
Sembra ovvio, ma nelle società dove il consenso è considerato implicito al punto che chiederlo non è necessario, il rifiuto risulta incomprensibile e scatena aggressività e frustrazione. Cosí la donna che dovesse dire che quel tipo di attenzioni non le sono gradite finirà facilmente per sentirsi dare della frigida, della snob, dell’arrogante, della superba, della furba che mette in mostra le grazie e poi fa l’ingenua, ma anche della puttanella che fa eccitare gli uomini per poi negarsi. È difficile decidere di opporre resistenza quando sai già che alla fine la stronza sarai tu e lui il galantuomo che ti ha solo fatto un complimento.
I modi alterna...

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