Nella sontuosa cornice del teatro La Fenice di Venezia, durante la cerimonia di premiazione del Campiello del 2010 trasmessa da Rai 1, il conduttore Bruno Vespa invitĂČ la scrittrice Silvia Avallone a salire sul palco per ritirare il premio assegnatole per il suo romanzo Acciaio, vincitore come miglior opera prima. Mentre Avallone faceva i pochi gradini verso il proscenio vestita di un abito da sera color crema del tutto adeguato allâeleganza della circostanza, Bruno Vespa esclamĂČ rivolto alla regia: «Prego inquadrare lo spettacolare dĂ©colletĂ© della signorina». Un istante prima di quella frase la scrittrice sorridente si stava voltando verso il teatro gremito per ricevere lâapplauso per i suoi meriti letterari. Un attimo dopo tutti i presenti, dalle poltroncine e dai palchetti, uomini e donne indistintamente, le stavano fissando la scollatura. Ă facile immaginare che anche da ogni divano di casa gli spettatori, aiutati da una regia compiacente, stessero giudicando la spettacolaritĂ del dĂ©colletĂ©, del tutto dimentichi che Avallone si trovava su quel palco per ricevere un premio letterario, non per farsi inquadrare le tette.
CiĂČ che la scrittrice subĂ quella sera a favore di telecamera sul primo canale pubblico avrebbe avuto tutti gli estremi per essere definito una molestia. «Esagerata, â mi direte, â alla fine era solo un complimento». Smettete di pensarlo o di farvelo dire, perchĂ© non Ăš vero. Un complimento Ăš dire a una donna «Sei bella» e solo in certi contesti, per esempio se sei uscita a cena con un uomo che ti piace e non durante una premiazione letteraria o una riunione di lavoro. «Inquadratele le tette» invece non Ăš un complimento in nessuna circostanza e in quella serata era specificamente un abuso di potere mediatico esercitato dal padrone del palcoscenico su una donna che non era nella condizione di reagire se non abbozzando.
«Inquadratele le tette» significa «dispongo dellâimmagine del tuo corpo e neanche ti chiedo il permesso». A pretendere che la sua frase fosse un complimento ci provĂČ lo stesso Bruno Vespa, difendendo la sua uscita come «un apprezzamento fatto con molta grazia» e dicendo a chi lo aveva criticato â nello specifico io â che mancava di «senso dellâumorismo». Ammetto di faticare a capire ancora oggi cosa ci fosse di umoristico nellâintimare a una regia di stringere lâinquadratura sul seno di una donna e aspettai per giorni che si alzassero altre voci critiche verso quel comportamento, doppiamente grave perchĂ© andava in onda sul primo canale del servizio pubblico. Attesi invano: solo Gad Lerner ebbe il coraggio di scrivere che quello che Vespa aveva fatto era un atto di potere, non un complimento. A levarsi numerose furono invece le voci in difesa di Vespa e delle sue buone intenzioni, con argomenti che oggi varrebbe la pena di andarsi a rileggere, anche solo per sentire quanto suonino insieme vuoti e gravi alla luce rivelatoria del #metoo. Ricordo un intervento su tutti, forse il piĂș emblematico, a firma di Claudio Sabelli Fioretti su «Io Donna», il settimanale femminile del «Corriere della Sera»: «Mi chiedo, se una giovane si presenta in pubblico scollatissima Ăš perchĂ© il particolare Ăš culturalmente pregnante o perchĂ© vuole essere ammirata? E se il conduttore, rozzamente quanto volete, la indica allâammirazione, fa una cosa scorretta o fa quello che la giovane ha implicitamente stimolato?»
Mi stupisce ancora la tranquillitĂ con cui lâargomento del se lâĂš cercata venne applicato al caso Avallone senza che nessuno facesse notare che Ăš lo stesso artificio logico usato per dare alle vittime la colpa del loro stupro o dellâessere state oggetto di comportamenti sessualmente abusivi. Lâidea che presentarsi in pubblico con un abito scollato implichi automaticamente lâautorizzazione a essere guardate nelle tette Ăš la stessa che suppone il consenso a farsele toccare; in entrambi i casi, a pretendere di decidere quale sia la natura dellâatto non Ăš la persona che lo subisce, ma quella che lo pratica, nella convinzione di essere stata provocata. Secondo questo ragionamento, lâunico modo per essere sicure di non ricevere attenzioni non gradite Ăš mettersi il burqa.
Nessun maschio eterosessuale che tenesse una rubrica su qualsivoglia giornale, sito o canale televisivo italiano sembrĂČ in quel momento in grado di riconoscere che il problema non Ăš quanta pelle si veda del corpo di una donna, ma quanto lo sguardo maschile sia formato culturalmente a sessualizzare ogni centimetro che ne scorge. Se hai la testa a forma di fucile, tutto quello che vedi ti sembra un bersaglio, ed evidentemente la testa a forma di fucile, in questo Paese, ce lâavevano e continuano ad avercela ancora in parecchi.
Quanto questo equivoco abbia poco a che fare con il desiderio e molto con il potere Ăš evidente dal fatto che le attenzioni sessuali non richieste diventano sempre piĂș esplicite quando la persona interessata Ăš in una posizione di debolezza e non puĂČ reagire. La sera della cerimonia del 2010 il premio Campiello venne consegnato alla vincitrice dalla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, il cui abito blu elettrico era corto e non meno scollato di quello di Silvia Avallone, ma a nessuno, nemmeno a Vespa, sarebbe mai venuto in mente di intimare alla regia di inquadrare le tette della donna piĂș potente tra gli industriali italiani.
Non Ăš inutile ricordare anche cosa disse Silvia Avallone, interpellata il giorno dopo la premiazione in merito alle attenzioni forzate di cui, secondo Sabelli Fioretti, avrebbe dovuto sentirsi la prima responsabile: «Francamente preferisco tirar dritto, come hanno imparato a fare le donne quando capitano cose simili». Non farne un dramma, insomma, ma se il dramma fosse proprio continuare a tirar dritto? Fare finta di niente Ăš quello che abbiamo imparato, perchĂ© Ăš quello che ci insegnano sin da bambine quando riceviamo attenzioni che non volevamo sollecitare. Davanti a ogni comportamento molesto ci intimano di essere superiori, sorridere, abbozzare e non opporre alcuna resistenza, perchĂ© tanto Ăš una battaglia persa. Lâidea che sia impossibile reagire Ăš diffusissima e la si puĂČ capire, perchĂ© le energie che servono per ribellarsi allâessere considerate un bersaglio mobile delle esternazioni maschili sono troppe, dato che troppe sono ancora le azioni a cui bisognerebbe reagire. Chi vorrebbe opporsi avverte il rischio di precipitare in una sorta di guerriglia quotidiana contro chiunque, dal muratore del ponteggio che ti grida cosa farebbe col tuo culo, al collega in ufficio che ogni mattina ti fa la battuta a doppio senso davanti alla macchinetta del caffĂš. Ogni volta che protesti ricevi una strana e violenta ironia. Non sai farti una risata. Non hai senso dellâumorismo. Non capisci che Ăš un complimento. Ti lamenti perchĂ© ti dicono che sei bella? Allora hai tu qualcosa che non va. Dovresti essere contenta se attiri il desiderio e lâammirazione. Non Ăš per questo che ti compri i vestiti, vai dal parrucchiere e ti trucchi? Non Ăš lo sguardo maschile che cerchi? Se non ci fosse ti dispiacerebbe e quando non ci sarĂ piĂș, cioĂš quando sarai uscita dal radar anagrafico o estetico che ti identifica come oggetto di desiderio, vedrai come ti mancherĂ .
Dietro queste frasi câĂš la convinzione che le donne vivano avendo come obiettivo lâessere desiderate dagli uomini e che siano in fondo loro stesse a chiedere di essere validate come sessualmente attraenti. Volere Ăš potere, dice il proverbio, ma alle donne si lascia credere che il loro potere sia invece quello di essere volute. Ă un inganno: desiderare ti rende soggetto attivo e ti educa a scegliere, invece che a essere scelta. Chi desidera comanda. Dire sempre «desiderami» e mai «io desidero» Ăš un cammino di de-formazione, perchĂ© chi puĂČ solo essere desiderabile sacrificherĂ la propria forma per prendere quella che pensa sarĂ piĂș desiderata, condannandosi a esistere solo come conseguenza dello sguardo di altri. Come Mina, molte di noi hanno cantato «sono come tu mi vuoi», recitando la parte della donna preda che si rivolge al suo amore «aspettando in silenzio»1 che egli si accorga di lei.
Non Ăš strano che il risultato di questa pedagogia tossica sia che ogni ragazzina pensi di essere bella solo se trova qualcuno che glielo grida a ogni angolo di strada o le mette like sulla bacheca di un social network, e dentro questa dinamica Ăš perfettamente logico che in ogni ambito pubblico il giudizio sulla maggiore o minore desiderabilitĂ delle donne venga espresso di continuo anche in contesti in cui non câentra assolutamente niente. Dalla «culona inchiavabile» riferito ad Angela Merkel da Silvio Berlusconi alle gallerie di foto che sui quotidiani invitano a votare «la ministra piĂș sexy», lâidea che ci sia un giudizio universale permanente che grava su tutte le donne si radica nellâanimo delle donne stesse. Essere guardate ed esistere in questa logica diventano la stessa cosa. La frase «Se fai cosĂ i ragazzi non ti guarderanno» Ăš il mantra che, generazione dopo generazione, ha incastonato dentro di noi una specie di occhio mistico in forza del quale finiamo da sole a guardarci lâun lâaltra come pensiamo che ci guarderebbe un maschio: giudicandoci.
Al di lĂ della giĂ scomodissima questione del giudizio, lâequivoco che contrappone la desiderabilitĂ passiva femminile al desiderio attivo maschile rivela il vero problema della cultura patriarcale, che Ăš quello dellâinutilitĂ del consenso. Supporre che essere desiderata sia lâinteresse primario di ogni donna rende del tutto superflua la questione della sua volontĂ , che viene data per implicita in ogni manifestazione del comportamento. La scollatura diventa un consenso a essere fissate sul petto. La gonna corta a vedersi guardare le gambe da chiunque. Il rossetto a essere baciate allâimprovviso. I jeans elasticizzati a beccarsi la pacca sul sedere in autobus. Il semplice camminare per strada diventa lâautorizzazione a farsi fischiare da ogni finestrino. Il trovarsi a una festa e bere Ăš indicatore certo di disponibilitĂ sessuale. A una donna non bisogna chiedere alcun permesso, perchĂ© Ăš la sua stessa esistenza di creatura desiderabile ad autorizzare la manifestazione del desiderio. Questo impianto di pensiero ha un nome: si chiama «cultura dello stupro» e ha conseguenze quotidiane che fatichiamo ancora a riconoscere come violenza. La violenza Ăš considerata un atto di forzatura, un gesto oppositivo. La difficoltĂ a riconoscerla in questi cosiddetti complimenti deriva dal fatto che non si vede a cosa dovrebbero contrapporsi, visto che il consenso delle donne Ăš sempre presunto. La cultura dello stupro viene teorizzata per la prima volta nel 1975 nel documentario intitolato Rape Culture, ma la definizione che mi sembra piĂș corrispondente alla varietĂ di forme di violenza esercitabili sulla volontĂ delle donne resta per me quella di Buchwald, Fletcher e Roth:
La cultura dello stupro Ăš un complesso di credenze che incoraggiano lâaggressivitĂ sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne. Questo accade in una societĂ dove la violenza Ăš vista come sexy e la sessualitĂ come violenta. In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso. Una cultura dello stupro condona come «normale» il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia «un fatto della vita», inevitabile come la morte o le tasse2.
Ă sempre il linguaggio quotidiano a rivelare quanto questa definizione sia purtroppo corretta. Il modo in cui vengono raccontate le molestie nella cronaca giornalistica Ăš intriso della cultura dello stupro, che agisce tutte le volte che le molestie verbali vengono definite «complimenti», le molestie on line «messaggi hot», lâinsistenza non gradita «corteggiamento», le molestie fisiche «carezze», le allusioni sessuali «battute» e i video intimi diffusi in rete per vendetta «filmati hard». In questo registro Ăš capitato di veder catalogare uno stupro di gruppo come «notte di sesso sfrenato» e di sentir definire un abusante «innamorato pazzo» o «don giovanni».
La cultura dello stupro vive del pregiudizio che se una donna dice no vuol dire forse e se dice forse vuol dire sĂ, per cui niente di quello che afferma in relazione alla sua volontĂ ha in realtĂ un valore fattuale. Un uomo nato e cresciuto dentro a questa cultura riesce con fatica a immaginare un altro modo di porsi e spesso cade dalle nubi quando gli si fa notare che il suo comportamento Ăš inopportuno. La reazione difensiva Ăš immediata: «Ma io non volevo essere molesto, era solo un complimento». Lâidea che non siano le sue intenzioni a configurare la molestia gli Ăš del tutto estranea. Se un uomo pensa: «Ho scritto un messaggio osé» e la donna che lo riceve pensa: «Ho ricevuto un messaggio molesto», chi ha ragione? Chi decide la natura dellâapproccio? La risposta giusta dovrebbe essere sempre e solo una: decide chi lo riceve.
Sembra ovvio, ma nelle societĂ dove il consenso Ăš considerato implicito al punto che chiederlo non Ăš necessario, il rifiuto risulta incomprensibile e scatena aggressivitĂ e frustrazione. CosĂ la donna che dovesse dire che quel tipo di attenzioni non le sono gradite finirĂ facilmente per sentirsi dare della frigida, della snob, dellâarrogante, della superba, della furba che mette in mostra le grazie e poi fa lâingenua, ma anche della puttanella che fa eccitare gli uomini per poi negarsi. Ă difficile decidere di opporre resistenza quando sai giĂ che alla fine la stronza sarai tu e lui il galantuomo che ti ha solo fatto un complimento.
I modi alterna...