Stai zitta
eBook - ePub

Stai zitta

e altre nove frasi che non vogliamo sentire piĂș

Michela Murgia, Anarkikka

Partager le livre
  1. 96 pages
  2. Italian
  3. ePUB (adapté aux mobiles)
  4. Disponible sur iOS et Android
eBook - ePub

Stai zitta

e altre nove frasi che non vogliamo sentire piĂș

Michela Murgia, Anarkikka

DĂ©tails du livre
Aperçu du livre
Table des matiĂšres
Citations

À propos de ce livre

Di tutte le cose che le donnepossono fare nel mondo, parlare Ăš ancora consideratala piĂș sovversiva.Se si Ăš donna, in Italia si muore anche dilinguaggio. È una morte civile, ma nonper questo fa meno male. È con le paroleche ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie, ma di parole ingiuste si muore anchenella vita quotidiana, dove il pregiudizioche passa per il linguaggio uccidela nostra possibilitĂ  di essere pienamentenoi stesse. Per ogni dislivello di dirittiche le donne subiscono a causa del maschilismoesiste un impianto verbale chelo sostiene e lo giustifica. Accade ognivolta che rifiutano di chiamarvi avvocata, sindaca o architetta perchĂ© altrimenti«dovremmo dire anche farmacisto».Succede quando fate un bel lavoro, ma vichiedono prima se siete mamma. Quandosiete le uniche di cui non si pronunciamai il cognome, se non con un articolodeterminativo davanti. Quando simettono a spiegarvi qualcosa che sapetegiĂ  perfettamente, quando vi dicono dicalmarvi, di farvi una risata, di scoparedi piĂș, di smetterla di spaventare gli uominicon le vostre opinioni, di sorriderepiuttosto, e soprattutto di star zitta.Questo libro Ăš uno strumento che evidenziail legame mortificante che esistetra le ingiustizie che viviamo e le paroleche sentiamo. Ha un'ambizione: chetra dieci anni una ragazza o un ragazzo, trovandolo su una bancarella, possa pensaresorridendo che per fortuna questefrasi non le dice piĂș nessuno.

Foire aux questions

Comment puis-je résilier mon abonnement ?
Il vous suffit de vous rendre dans la section compte dans paramĂštres et de cliquer sur « RĂ©silier l’abonnement ». C’est aussi simple que cela ! Une fois que vous aurez rĂ©siliĂ© votre abonnement, il restera actif pour le reste de la pĂ©riode pour laquelle vous avez payĂ©. DĂ©couvrez-en plus ici.
Puis-je / comment puis-je télécharger des livres ?
Pour le moment, tous nos livres en format ePub adaptĂ©s aux mobiles peuvent ĂȘtre tĂ©lĂ©chargĂ©s via l’application. La plupart de nos PDF sont Ă©galement disponibles en tĂ©lĂ©chargement et les autres seront tĂ©lĂ©chargeables trĂšs prochainement. DĂ©couvrez-en plus ici.
Quelle est la différence entre les formules tarifaires ?
Les deux abonnements vous donnent un accĂšs complet Ă  la bibliothĂšque et Ă  toutes les fonctionnalitĂ©s de Perlego. Les seules diffĂ©rences sont les tarifs ainsi que la pĂ©riode d’abonnement : avec l’abonnement annuel, vous Ă©conomiserez environ 30 % par rapport Ă  12 mois d’abonnement mensuel.
Qu’est-ce que Perlego ?
Nous sommes un service d’abonnement Ă  des ouvrages universitaires en ligne, oĂč vous pouvez accĂ©der Ă  toute une bibliothĂšque pour un prix infĂ©rieur Ă  celui d’un seul livre par mois. Avec plus d’un million de livres sur plus de 1 000 sujets, nous avons ce qu’il vous faut ! DĂ©couvrez-en plus ici.
Prenez-vous en charge la synthÚse vocale ?
Recherchez le symbole Écouter sur votre prochain livre pour voir si vous pouvez l’écouter. L’outil Écouter lit le texte Ă  haute voix pour vous, en surlignant le passage qui est en cours de lecture. Vous pouvez le mettre sur pause, l’accĂ©lĂ©rer ou le ralentir. DĂ©couvrez-en plus ici.
Est-ce que Stai zitta est un PDF/ePUB en ligne ?
Oui, vous pouvez accĂ©der Ă  Stai zitta par Michela Murgia, Anarkikka en format PDF et/ou ePUB ainsi qu’à d’autres livres populaires dans Sozialwissenschaften et Feminismus & feministische Theorie. Nous disposons de plus d’un million d’ouvrages Ă  dĂ©couvrir dans notre catalogue.

Informations

Éditeur
EINAUDI
Année
2021
ISBN
9788858435823

Era solo un complimento

Era solo un complimento

Nella sontuosa cornice del teatro La Fenice di Venezia, durante la cerimonia di premiazione del Campiello del 2010 trasmessa da Rai 1, il conduttore Bruno Vespa invitĂČ la scrittrice Silvia Avallone a salire sul palco per ritirare il premio assegnatole per il suo romanzo Acciaio, vincitore come miglior opera prima. Mentre Avallone faceva i pochi gradini verso il proscenio vestita di un abito da sera color crema del tutto adeguato all’eleganza della circostanza, Bruno Vespa esclamĂČ rivolto alla regia: «Prego inquadrare lo spettacolare dĂ©colletĂ© della signorina». Un istante prima di quella frase la scrittrice sorridente si stava voltando verso il teatro gremito per ricevere l’applauso per i suoi meriti letterari. Un attimo dopo tutti i presenti, dalle poltroncine e dai palchetti, uomini e donne indistintamente, le stavano fissando la scollatura. È facile immaginare che anche da ogni divano di casa gli spettatori, aiutati da una regia compiacente, stessero giudicando la spettacolaritĂ  del dĂ©colletĂ©, del tutto dimentichi che Avallone si trovava su quel palco per ricevere un premio letterario, non per farsi inquadrare le tette.
CiĂČ che la scrittrice subĂ­ quella sera a favore di telecamera sul primo canale pubblico avrebbe avuto tutti gli estremi per essere definito una molestia. «Esagerata, – mi direte, – alla fine era solo un complimento». Smettete di pensarlo o di farvelo dire, perchĂ© non Ăš vero. Un complimento Ăš dire a una donna «Sei bella» e solo in certi contesti, per esempio se sei uscita a cena con un uomo che ti piace e non durante una premiazione letteraria o una riunione di lavoro. «Inquadratele le tette» invece non Ăš un complimento in nessuna circostanza e in quella serata era specificamente un abuso di potere mediatico esercitato dal padrone del palcoscenico su una donna che non era nella condizione di reagire se non abbozzando.
«Inquadratele le tette» significa «dispongo dell’immagine del tuo corpo e neanche ti chiedo il permesso». A pretendere che la sua frase fosse un complimento ci provĂČ lo stesso Bruno Vespa, difendendo la sua uscita come «un apprezzamento fatto con molta grazia» e dicendo a chi lo aveva criticato – nello specifico io – che mancava di «senso dell’umorismo». Ammetto di faticare a capire ancora oggi cosa ci fosse di umoristico nell’intimare a una regia di stringere l’inquadratura sul seno di una donna e aspettai per giorni che si alzassero altre voci critiche verso quel comportamento, doppiamente grave perchĂ© andava in onda sul primo canale del servizio pubblico. Attesi invano: solo Gad Lerner ebbe il coraggio di scrivere che quello che Vespa aveva fatto era un atto di potere, non un complimento. A levarsi numerose furono invece le voci in difesa di Vespa e delle sue buone intenzioni, con argomenti che oggi varrebbe la pena di andarsi a rileggere, anche solo per sentire quanto suonino insieme vuoti e gravi alla luce rivelatoria del #metoo. Ricordo un intervento su tutti, forse il piĂș emblematico, a firma di Claudio Sabelli Fioretti su «Io Donna», il settimanale femminile del «Corriere della Sera»: «Mi chiedo, se una giovane si presenta in pubblico scollatissima Ăš perchĂ© il particolare Ăš culturalmente pregnante o perchĂ© vuole essere ammirata? E se il conduttore, rozzamente quanto volete, la indica all’ammirazione, fa una cosa scorretta o fa quello che la giovane ha implicitamente stimolato?»
Mi stupisce ancora la tranquillità con cui l’argomento del se l’ù cercata venne applicato al caso Avallone senza che nessuno facesse notare che ù lo stesso artificio logico usato per dare alle vittime la colpa del loro stupro o dell’essere state oggetto di comportamenti sessualmente abusivi. L’idea che presentarsi in pubblico con un abito scollato implichi automaticamente l’autorizzazione a essere guardate nelle tette ù la stessa che suppone il consenso a farsele toccare; in entrambi i casi, a pretendere di decidere quale sia la natura dell’atto non ù la persona che lo subisce, ma quella che lo pratica, nella convinzione di essere stata provocata. Secondo questo ragionamento, l’unico modo per essere sicure di non ricevere attenzioni non gradite ù mettersi il burqa.
Nessun maschio eterosessuale che tenesse una rubrica su qualsivoglia giornale, sito o canale televisivo italiano sembrĂČ in quel momento in grado di riconoscere che il problema non Ăš quanta pelle si veda del corpo di una donna, ma quanto lo sguardo maschile sia formato culturalmente a sessualizzare ogni centimetro che ne scorge. Se hai la testa a forma di fucile, tutto quello che vedi ti sembra un bersaglio, ed evidentemente la testa a forma di fucile, in questo Paese, ce l’avevano e continuano ad avercela ancora in parecchi.
Quanto questo equivoco abbia poco a che fare con il desiderio e molto con il potere Ăš evidente dal fatto che le attenzioni sessuali non richieste diventano sempre piĂș esplicite quando la persona interessata Ăš in una posizione di debolezza e non puĂČ reagire. La sera della cerimonia del 2010 il premio Campiello venne consegnato alla vincitrice dalla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, il cui abito blu elettrico era corto e non meno scollato di quello di Silvia Avallone, ma a nessuno, nemmeno a Vespa, sarebbe mai venuto in mente di intimare alla regia di inquadrare le tette della donna piĂș potente tra gli industriali italiani.
Non Ăš inutile ricordare anche cosa disse Silvia Avallone, interpellata il giorno dopo la premiazione in merito alle attenzioni forzate di cui, secondo Sabelli Fioretti, avrebbe dovuto sentirsi la prima responsabile: «Francamente preferisco tirar dritto, come hanno imparato a fare le donne quando capitano cose simili». Non farne un dramma, insomma, ma se il dramma fosse proprio continuare a tirar dritto? Fare finta di niente Ăš quello che abbiamo imparato, perchĂ© Ăš quello che ci insegnano sin da bambine quando riceviamo attenzioni che non volevamo sollecitare. Davanti a ogni comportamento molesto ci intimano di essere superiori, sorridere, abbozzare e non opporre alcuna resistenza, perchĂ© tanto Ăš una battaglia persa. L’idea che sia impossibile reagire Ăš diffusissima e la si puĂČ capire, perchĂ© le energie che servono per ribellarsi all’essere considerate un bersaglio mobile delle esternazioni maschili sono troppe, dato che troppe sono ancora le azioni a cui bisognerebbe reagire. Chi vorrebbe opporsi avverte il rischio di precipitare in una sorta di guerriglia quotidiana contro chiunque, dal muratore del ponteggio che ti grida cosa farebbe col tuo culo, al collega in ufficio che ogni mattina ti fa la battuta a doppio senso davanti alla macchinetta del caffĂš. Ogni volta che protesti ricevi una strana e violenta ironia. Non sai farti una risata. Non hai senso dell’umorismo. Non capisci che Ăš un complimento. Ti lamenti perchĂ© ti dicono che sei bella? Allora hai tu qualcosa che non va. Dovresti essere contenta se attiri il desiderio e l’ammirazione. Non Ăš per questo che ti compri i vestiti, vai dal parrucchiere e ti trucchi? Non Ăš lo sguardo maschile che cerchi? Se non ci fosse ti dispiacerebbe e quando non ci sarĂ  piĂș, cioĂš quando sarai uscita dal radar anagrafico o estetico che ti identifica come oggetto di desiderio, vedrai come ti mancherĂ .
Dietro queste frasi c’ù la convinzione che le donne vivano avendo come obiettivo l’essere desiderate dagli uomini e che siano in fondo loro stesse a chiedere di essere validate come sessualmente attraenti. Volere Ăš potere, dice il proverbio, ma alle donne si lascia credere che il loro potere sia invece quello di essere volute. È un inganno: desiderare ti rende soggetto attivo e ti educa a scegliere, invece che a essere scelta. Chi desidera comanda. Dire sempre «desiderami» e mai «io desidero» Ăš un cammino di de-formazione, perchĂ© chi puĂČ solo essere desiderabile sacrificherĂ  la propria forma per prendere quella che pensa sarĂ  piĂș desiderata, condannandosi a esistere solo come conseguenza dello sguardo di altri. Come Mina, molte di noi hanno cantato «sono come tu mi vuoi», recitando la parte della donna preda che si rivolge al suo amore «aspettando in silenzio»1 che egli si accorga di lei.
Non Ăš strano che il risultato di questa pedagogia tossica sia che ogni ragazzina pensi di essere bella solo se trova qualcuno che glielo grida a ogni angolo di strada o le mette like sulla bacheca di un social network, e dentro questa dinamica Ăš perfettamente logico che in ogni ambito pubblico il giudizio sulla maggiore o minore desiderabilitĂ  delle donne venga espresso di continuo anche in contesti in cui non c’entra assolutamente niente. Dalla «culona inchiavabile» riferito ad Angela Merkel da Silvio Berlusconi alle gallerie di foto che sui quotidiani invitano a votare «la ministra piĂș sexy», l’idea che ci sia un giudizio universale permanente che grava su tutte le donne si radica nell’animo delle donne stesse. Essere guardate ed esistere in questa logica diventano la stessa cosa. La frase «Se fai cosĂ­ i ragazzi non ti guarderanno» Ăš il mantra che, generazione dopo generazione, ha incastonato dentro di noi una specie di occhio mistico in forza del quale finiamo da sole a guardarci l’un l’altra come pensiamo che ci guarderebbe un maschio: giudicandoci.
Al di lĂ  della giĂ  scomodissima questione del giudizio, l’equivoco che contrappone la desiderabilitĂ  passiva femminile al desiderio attivo maschile rivela il vero problema della cultura patriarcale, che Ăš quello dell’inutilitĂ  del consenso. Supporre che essere desiderata sia l’interesse primario di ogni donna rende del tutto superflua la questione della sua volontĂ , che viene data per implicita in ogni manifestazione del comportamento. La scollatura diventa un consenso a essere fissate sul petto. La gonna corta a vedersi guardare le gambe da chiunque. Il rossetto a essere baciate all’improvviso. I jeans elasticizzati a beccarsi la pacca sul sedere in autobus. Il semplice camminare per strada diventa l’autorizzazione a farsi fischiare da ogni finestrino. Il trovarsi a una festa e bere Ăš indicatore certo di disponibilitĂ  sessuale. A una donna non bisogna chiedere alcun permesso, perchĂ© Ăš la sua stessa esistenza di creatura desiderabile ad autorizzare la manifestazione del desiderio. Questo impianto di pensiero ha un nome: si chiama «cultura dello stupro» e ha conseguenze quotidiane che fatichiamo ancora a riconoscere come violenza. La violenza Ăš considerata un atto di forzatura, un gesto oppositivo. La difficoltĂ  a riconoscerla in questi cosiddetti complimenti deriva dal fatto che non si vede a cosa dovrebbero contrapporsi, visto che il consenso delle donne Ăš sempre presunto. La cultura dello stupro viene teorizzata per la prima volta nel 1975 nel documentario intitolato Rape Culture, ma la definizione che mi sembra piĂș corrispondente alla varietĂ  di forme di violenza esercitabili sulla volontĂ  delle donne resta per me quella di Buchwald, Fletcher e Roth:
La cultura dello stupro Ăš un complesso di credenze che incoraggiano l’aggressivitĂ  sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne. Questo accade in una societĂ  dove la violenza Ăš vista come sexy e la sessualitĂ  come violenta. In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso. Una cultura dello stupro condona come «normale» il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia «un fatto della vita», inevitabile come la morte o le tasse2.
È sempre il linguaggio quotidiano a rivelare quanto questa definizione sia purtroppo corretta. Il modo in cui vengono raccontate le molestie nella cronaca giornalistica Ăš intriso della cultura dello stupro, che agisce tutte le volte che le molestie verbali vengono definite «complimenti», le molestie on line «messaggi hot», l’insistenza non gradita «corteggiamento», le molestie fisiche «carezze», le allusioni sessuali «battute» e i video intimi diffusi in rete per vendetta «filmati hard». In questo registro Ăš capitato di veder catalogare uno stupro di gruppo come «notte di sesso sfrenato» e di sentir definire un abusante «innamorato pazzo» o «don giovanni».
La cultura dello stupro vive del pregiudizio che se una donna dice no vuol dire forse e se dice forse vuol dire sĂ­, per cui niente di quello che afferma in relazione alla sua volontĂ  ha in realtĂ  un valore fattuale. Un uomo nato e cresciuto dentro a questa cultura riesce con fatica a immaginare un altro modo di porsi e spesso cade dalle nubi quando gli si fa notare che il suo comportamento Ăš inopportuno. La reazione difensiva Ăš immediata: «Ma io non volevo essere molesto, era solo un complimento». L’idea che non siano le sue intenzioni a configurare la molestia gli Ăš del tutto estranea. Se un uomo pensa: «Ho scritto un messaggio osé» e la donna che lo riceve pensa: «Ho ricevuto un messaggio molesto», chi ha ragione? Chi decide la natura dell’approccio? La risposta giusta dovrebbe essere sempre e solo una: decide chi lo riceve.
Sembra ovvio, ma nelle società dove il consenso ù considerato implicito al punto che chiederlo non ù necessario, il rifiuto risulta incomprensibile e scatena aggressività e frustrazione. Cosí la donna che dovesse dire che quel tipo di attenzioni non le sono gradite finirà facilmente per sentirsi dare della frigida, della snob, dell’arrogante, della superba, della furba che mette in mostra le grazie e poi fa l’ingenua, ma anche della puttanella che fa eccitare gli uomini per poi negarsi. È difficile decidere di opporre resistenza quando sai già che alla fine la stronza sarai tu e lui il galantuomo che ti ha solo fatto un complimento.
I modi alterna...

Table des matiĂšres