Léon
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Carlo Lucarelli

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Carlo Lucarelli

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Torna Grazia Negro. E con lei Simone, il ragazzo cieco di Almost Blue. L'Iguana, il piú feroce fra i serial killer, è scappato. La notizia è di quelle che fanno davvero paura: ora la sua ossessione potrebbe essere vendicarsi della poliziotta che lo aveva arrestato. «Credo di aver sentito un rumore. È come quando ti accorgi che qualcuno sta parlando da un po' ma non hai capito cos'ha detto perché non stavi ascoltando. Da qualche parte, perso nella memoria, ho il ricordo di un suono, sempre piú lontano e indistinto, come un sogno dopo il risveglio. Ma c'era, l'ho sentito. C'è qualcuno qui con me».Bologna, Ospedale Maggiore. Grazia Negro è ancora stordita dall'anestesia per il cesareo eppure sorride. Finalmente, a dispetto di tutto, è quello che ha scoperto di voler essere: una madre. Basta con le indagini, basta con i morti, basta con la caccia ai mostri. È felice. Ma un attimo dopo capisce che qualcosa non va. Un'infermiera le porta via la culla con le gemelle appena partorite, mentre un agente spinge il suo letto fuori dalla stanza. L'Iguana, il pazzo assassino che anni prima aveva preso di mira gli studenti dell'università, è scomparso dalla struttura psichiatrica in cui era detenuto, lasciando due morti dietro di sé. Era stata Grazia a catturarlo. Per questo trasferiscono lei e le bambine in un luogo segreto. E per questo conducono lí anche Simone, il suo ex compagno, il giovane non vedente che l'aveva aiutata nell'indagine. Però non è sufficiente. Ci sono zone buie, in questa storia, che nascondono sorprese molto pericolose. Nessuna fra le persone coinvolte nel caso è al sicuro.

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Information

Parte prima

L’Iguana

Amor
You don’t find me
I’m a reckless
Are you knocking at the door?
Amor
Tu non sai dove trovarmi
Sono un incosciente
Stai bussando alla porta?
MELANCHOLIA, Léon

Bologna 5

Roberto allunga il braccio e rotea su sé stesso cercando l’inquadratura giusta. La luce va bene, non è ancora cosí buio e il lampione del posteggio di piazza Re Enzo sembra messo lí apposta per dare profondità. Infila la mano dentro il finestrino aperto e alza un po’ il volume dello stereo, quel tanto che basta perché il suo electro-swing allegro possa fare da sottofondo senza impastarsi con la sua voce. Sa come funziona, ne ha fatti tanti di video cosí, nelle pause tra una corsa e l’altra dice la sua, racconta quello che gli è successo, fa il cretino, come dice lui, e poi li mette su twitter.
Cosí fa qualche passo avanti per prendere il piú possibile i numeri del centro antiviolenza della Casa delle Donne che ha fatto stampare sul cofano del taxi, aggiusta la testa rotonda dentro l’inquadratura e comincia. Gli occhi sgranati nella telecamera del cellulare, i riflessi rossicci del lampione sul cranio nudo, la bocca che si allarga dentro la barbetta corta quando gli si aprono le parole, alla bolognese. Ironico ma non sempre, naturalmente istrionico, gliel’hanno detto tante volte che dovrebbe fare l’attore.
– Sarà una brutta notte questa perché dovrò lavorare fino a domani mattina con il Pos rotto… – sottolineato, – non va, – mostra la macchinetta e la fa girare davanti al volto, – avevo il Pos vecchio modello fino all’altro giorno, poi la banca e la cooperativa mi convocano, il vecchio non viene piú aggiornato, ti dobbiamo dare quello nuovo… beeene, – con le e strette, – cazzo, ci moderniziamo, – con una z sola, alla bolognese, – mi daranno un modello super! – Di nuovo il Pos accanto al volto. – Questo è un gran césso, – stretto. – È UN GRAN ZAVAGLIO! – urlato, poi tombale: – Non va. Durato due giorni, e poi stasera, dopo la prima transazione eseguita è cioccato, non va piú! È sparito, è morto! – Col pianto nella voce che tira in giú anche l’angolo degli occhi. – È un gran zavaglio, volevo quello vecchio che mi funzionava, adesso devo lavorare tutta la notte e non posso accettare le carte, e quindi… – basta piagnucolare, sguardo spietato, – quindi faccio anche la figura di merda di quello che trova la scusa e dice, – cantilenando, – no, ch’o il Pos rotto… – durissimo, adesso, – È ROTTO VERAMENTE, È UN CESSO, VOGLIO IL MIO POS VECCHIO! – Silenzio, sguardo obliquo. Funereo. – Sarà una bella notte, questa.
C’è un cliente. Roberto lo vede all’angolo dell’inquadratura che si dirige verso il posteggio, dove c’è soltanto il suo taxi, e interrompe la registrazione. È ancora sotto i portici del Modernissimo, ha il tempo di postarla su twitter e rimettersi la mascherina prima di sedersi al posto di guida. Glielo dice subito, mi scusi, sa, ho il Pos rotto, ma lui non sembra ascoltarlo, e mentre si sistema dietro il sedile del passeggero mormora un indirizzo che Roberto deve farsi ripetere.
Ma dov’è, qui a Bologna? Ah, Imola? No, no, va bene, non c’è problema.
Imposta il tassametro e parte. Gira a destra, verso le due Torri e lancia un’occhiata nello specchietto retrovisore, all’uomo che siede dietro. L’ha visto poco perché indossa una Ffp2 nera che gli sagoma metà della faccia, e lui invece i clienti li guarda, e ci parla, e anche molto, quando è il caso, perché ce ne sono alcuni che rompono veramente i maroni, in questo periodo poi di no vax, no mask, no questo e no quello, ma ce ne sono tanti di interessanti e strani, soprattutto di notte, e lui fa quasi sempre il turno di notte.
Questo è strano, infatti, anche se non saprebbe dire perché. Cosí lo riguarda nello specchietto e visto che non ha la luce del cellulare riflessa sul volto, e non sembra assorto in niente, si prepara a fargli una domanda qualunque, pronto a mollarla lí se gli risponde con un monosillabo, perché neanche lui vuole essere uno che rompe i maroni.
Ma non ci riesce.
L’uomo si slaccia la mascherina, come per respirare, e volta la testa di lato. Poi la rimette e torna a guardare il vuoto.
Roberto deglutisce e se ne sta zitto per tutto il viaggio, gli occhi fissi sulla strada davanti a sé.
Quando torna al posteggio, a Bologna, Roberto spegne il motore e aspetta, senza voltarsi. Guarda nello specchietto retrovisore l’uomo che sta contando i soldi, precisi al centesimo. Si era fatto scaricare in una stradina dalle parti della Rocca di Imola, gli aveva chiesto di attenderlo e poi era sparito dietro un angolo. Per la prima volta Roberto aveva sperato che fosse una fregatura, che l’uomo non si facesse piú vivo, e per un momento aveva anche pensato di ripartire lasciandolo lí, ma poi era arrivato e si era fatto riportare a Bologna.
Appena resta solo, tira giú il finestrino, ci pensa un po’ e prende il cellulare. Non regola l’inquadratura, gli basta vedersi nel display. Ci pensa ancora un po’, poi schiaccia il pallino rosso della registrazione e comincia.
– Ho visto il Diavolo.
Gli sembra esagerato anche a dirlo cosí, a voce bassa, come se stesse riflettendo tra sé, che è quello che effettivamente sta facendo. Vorrebbe correggere il tono, ma piú che ironico gli esce sorpreso, preoccupato.
– Cioè, carico questo tipo, alto, magro, pallido, stempiato, in giacca e cravatta, pure col gilè, fa ancora caldo, guarda qua, io sono in maglietta… ma non è per quello. C’ha su questa mascherina nera un po’ schiacciata sul naso che gli fa… – muove la mano ad artiglio sul mento, come per allungarsi la faccia, – ma non è neanche quello, con le Ffp2 sembrano tutti Hannibal Lecter, non è per quello, no.
Scuote la testa e si passa una mano sulla pelata, poi si gratta la barbetta. Guarda in alto, fuori dall’inquadratura.
– È che a un certo punto ha girato la testa da una parte, e sarà stato un lampione, sarà stato il faro di un’altra macchina, ma gli occhi gli sono diventati bianchi. Cioè, bianchi… come faccio a descriverlo, è stato un attimo… tipo gli squali quando mordono nei documentari. Occhi da matto. Occhi da assassino.
Esagera? Se lo chiede ancora, ma ormai è lanciato, non riesce a farci il cretino neanche se lo vuole, e poi parla a sé stesso, e infatti ecco un ricordo.
Il concerto di Elton John a Mosca, primi anni Ottanta. L’ha incontrato qualche giorno fa su YouTube, per caso, e gli è rimasto impresso perché lo aveva visto da bambino, in uno speciale alla televisione.
Il tipo alle percussioni. Ray Cooper.
– Uguale. Gli mancavano solo gli occhialini, anche il gilè, ch’aveva. Sòccia, Dio bono… c’è un pezzo che compare all’improvviso sul palco, si accende il faro, tra il fumo, lui rulla con le mazze sui tamburi, poi si blocca, si volta da una parte con quegli occhi e sorride. Cosí, proprio… sòccia, Dio bono. Perché ne ho visti tanti di strani, e mica solo nel turno di notte, gente assurda, spacciatori, quelli che fan certi discorsi, dei matti, vè, avrò caricato anche degli assassini, chissà, ma lui lí…
Scuote la testa e si guarda negli occhi. Parla a sé stesso, non avrebbe neanche bisogno di dirle, le parole, ma lui è cosí, un po’ istrione, e le cose deve metterle giú in modo che si vedano. Anche se sussurra cosí piano che quasi la videocamera non lo registra.
– Questa sera ho visto il Diavolo.
Tocca di nuovo il pallino rosso e ferma la registrazione. Adesso che l’ha ripreso gli sembra tutto un po’ esagerato. Forse la stanchezza, forse la fame, forse la suggestione di un vecchio ricordo. Ray Cooper… non aveva neanche gli occhiali, solo il gilè. Alla fine, vuoi vedere che quello piú strano di tutti, come al solito, è proprio lui?
Roberto si stringe nelle spalle. Scuote la testa. Picchietta col pollice sullo schermo del cellulare e cancella il video.
A Monteombraro faceva già freddo. Grazia aveva cercato di accendere la caldaia ma non c’era riuscita, e allora aveva seppellito le gemelline sotto le coperte che le fasciavano strette fin sopra le orecchie, finché l’Ersilia, la poliziotta cicciottella al comando della scorta che le avevano assegnato, e che di figli ne aveva tirati su tre, non le aveva detto che i bimbi si muovono nel sonno e scalciano via tutto, bisogna vestirli bene, non coprirli troppo, e comunque, non faceva mica poi tanto freddo.
Cosí adesso dormivano al centro del lettone, un lato spinto contro il muro e due sedie dall’altra parte a fare da sponda con gli schienali, infagottate nelle tutine dell’ospedale perché non avevano fatto in tempo a passare da casa per correre a quella villetta sull’Appennino. Grazia le aveva osservate a lungo prima di decidersi a lasciarle, poi aveva lo stesso tirato su le coperte, rimboccate attorno ai cuscini che aveva sistemato dietro le loro schiene in modo che restassero stese sul fianco, una di fronte all’altra.
La villetta non era male. Isolata in mezzo a un bosco, con una sola strada d’accesso, sterrata e chiusa da una sbarra, aveva una specie di studio al piano di sopra, con una bella vetrata che si affacciava sulla valle. Grazia, però, aveva insistito che la riunione si tenesse in cucina, perché stava proprio di fianco alla stanza in cui dormivano le bimbe, giusto al di là della porta socchiusa. Ma se ne pentí presto.
Il vicequestore Carlisi, che era stato il suo capo alla Mobile di Bologna finché non era andata in aspettativa, parlava forte, voleva fumare e al massimo aveva accettato di starsene seduto sul davanzale della finestra, da dove parlava ancora piú forte.
Seduti al tavolo di formica bianca, ad aspettare un caffè che l’Ersilia stava preparando con la moka, c’erano due sconosciuti.
Uno era un ometto calvo che non riusciva a stare fermo sulla sedia, le guance arrossate come se avesse la febbre. Era lo psichiatra che dirigeva il servizio che aveva in carico l’Iguana, Persichetti, e doveva essere stato il modo con cui Carlisi aveva caricato sul titolo, dottor Persichetti, con la r allungata, troppo, ad accendergli il volto.
L’altra era una donna, una rossa dai capelli cortissimi che il vicequestore non aveva fatto in tempo a presentare perché si era messo subito a litigare con il dottore.
– Alessio Crotti ha ammazzato un numero imprecisato di persone, non siamo mai riusciti a stabilirlo ma sono tante, minimo otto. E no ammazzate e basta, massacrate, con una violenza che non si può neanche immaginare…
– Lo so, dottore… – anche Persichetti aveva calcato sul titolo, allungando le t.
– Una belva che cambiava identità a ogni omicidio e proprio per questo lo chiamavano l’Iguana, perché cambiava pelle…
– Lo so, dottore, lo so benissimo, ma…
– E voi dimettete dall’Opg un soggetto come quello per assegnarlo a una casa famiglia? Alessio Crotti? L’Iguana, porca puttana, l’Iguana!
Grazia guardò la porta socchiusa. Stava per fare cenno di abbassare la voce ma Persichetti parlava con un sibilo sottile, perché la rabbia gli chiudeva la gola.
– Sono quasi dieci anni che il paziente era stabile e sotto controllo. Ha sempre assunto i farmaci prescritti e non ha mai, ripeto mai, dato adito a nessun tipo di valutazione negativa…
– Minchia, dottore… un paziente modello.
– Sí, dottore! E infatti l’abbiamo considerato idoneo a essere trasferito dall’ospedale psichiatrico giudiziario a una struttura piú consona ai suoi progressi…
– Assieme ad altri due mattucchini…
– Assieme a una coppia di degenti autosufficienti! – Le guance di Persichetti erano in fiamme. – E poi, Cristo, il vostro Iguana è cieco, Cristo d’un Cristo, cieco! E anche…
Persichetti alzò un indice e lo fece roteare a mezz’aria per significare che era anche piccolo e magro, il loro Iguana. Stava per aggiungere qualcos’altro ma serrò le labbra perché Carlisi sorrideva, cattiv...

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