Il bianco e il negro
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Il bianco e il negro

Indagine storica sull'ordine razzista

Aurélia Michel, Valeria Zini

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Il bianco e il negro

Indagine storica sull'ordine razzista

Aurélia Michel, Valeria Zini

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Questo libro, pensato per un vasto pubblico, analizza il ruolo rilevante che la schiavitù ha ricoperto nella costruzione del mondo moderno e il peso che essa continua ad avere nelle nostre società. Aurélia Michel ripercorre nell'arco di quasi cinque secoli le tappe principali che hanno portato dalla schiavitú mediterranea, e poi africana e atlantica, al processo di colonizzazione europea nei diversi continenti, allo scopo di fornire le chiavi storiche della definizione dell'ordine razziale, di cui svela le basi economiche, antropologiche e politiche. Coinvolgendo le idee di libertà, uguaglianza, lavoro e le nostre stesse identità, la storia della schiavitú smaschera l'ordine razziale che ancora governa il nostro mondo.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2021
ISBN
9788858436899

Parte terza

Il regno del Bianco
Capitolo ottavo

La domi-nazione

(1790-1830)
L’apparizione della razza nel discorso scientifico non avviene a caso, ma secondo due epicentri che coincidono esattamente con le rivoluzioni democratiche della fine del XVIII secolo: gli Stati Uniti e la Francia. Queste due società schiaviste sono infatti quelle che hanno formulato, attraverso le loro rivoluzioni, i fondamenti della società politica democratica: la libertà e l’uguaglianza. Entrambe si sono trovate di fronte al paradosso del mantenimento della schiavitú, oltre all’impossibilità di assimilare il negro come parente nel nuovo ordine sociale che esse introducono, quello della fraternità nazionale.
L’idea di razza, che si consolida all’interno degli ambienti politici, coloniali e scientifici durante la prima metà del XIX secolo, corrisponde a quello che viene chiamato «razzismo scientifico» nel senso che si tratta di un tentativo di giustificazione scientifica dell’inuguaglianza degli uomini e degli statuti che la sanciscono. Tale idea svolge un ruolo fondamentale nella risoluzione del paradosso posto dalla rivoluzione democratica nelle società schiaviste, prima di diventare il supporto di una nuova ripartizione del lavoro e delle ricchezze nel mondo dopo la fine della schiavitú, ripartizione che si svolgerà a favore delle élite europee e americane.
Seguiremo dunque un passo per volta l’elaborazione di questa idea, e il modo in cui essa accompagna la lunga agonia della schiavitú atlantica e l’instaurazione delle nuove forme di potere costituite dagli stati-nazione a capo di imperi coloniali trasformati. Dalla fine del XVIII secolo alla metà del XIX, questa transizione è guidata congiuntamente da gruppi che occupano alternativamente il potere e che formano due campi distinti: da un lato, i piantatori e i loro alleati, legati al modello schiavista di tipo atlantico (tratta, piantagione e monopolio coloniale), e, dall’altro, le élite industriali, liberali, alla ricerca di nuove materie prime e di sbocchi commerciali. La tensione tra gli interessi di queste élite, le vecchie e le emergenti, e il processo democratico che, volenti o nolenti, entrambe subiscono, porta gradualmente a un’interpretazione particolare dell’idea di nazione. Si tratta di un’accezione della nazione che consente infatti di limitare la portata dell’uguaglianza a certi gruppi e di giustificare il loro dominio su altri. In altre parole, a partire dalla finzione negra, vediamo costituirsi quella del bianco.

La nazione confiscata (1794-1815).

La schiavitú si mantiene negli Stati Uniti e si ristabilisce in Francia
Innanzitutto, benché i movimenti abolizionisti europei e nordamericani siano cresciuti e abbiano contribuito ai processi rivoluzionari e indipendentisti, in realtà né in Francia né negli Stati Uniti le rivoluzioni hanno fatto arretrare la schiavitú – l’unica eccezione fu Saint-Domingue.
A Saint-Domingue, come abbiamo visto, l’isola è governata da Toussaint Louverture che, pur confermando l’abolizione della schiavitú, a partire dal 1801 vi instaura una Costituzione speciale, destinata a costringere al lavoro nelle piantagioni. In Martinica, i piantatori erano insorti nel 1793 e piuttosto che applicare l’abolizione avevano fatto entrare gli inglesi sull’isola. Anche sull’isola Bourbon erano riusciti a ostacolare la sua applicazione. La Louisiana, immenso possedimento che Napoleone cede agli Stati Uniti nel 1803, integra la nuova repubblica americana con le sue piantagioni di schiavisti. Nel 1802, Napoleone annulla l’abolizione della schiavitú votata nel 1794 e riesce a imporre con la forza il suo decreto in Guadalupa (decreto Richepanse del 1803). Ma, a Saint-Domingue, nonostante l’invio di 100 000 soldati contro le armate del generale Louverture e la sua cattura nel 1802, il ripristino della schiavitú scatena una nuova ribellione da cui le truppe francesi escono sconfitte. Malgrado l’incredibile crudeltà della campagna militare francese (nel corso della quale il generale Rochambeau si distinse in particolare per l’utilizzo dei cani da combattimento allevati a Cuba per «la cattura dei neri marroni»1), i francesi, perlomeno quelli sopravvissuti ai massacri, devono lasciare definitivamente l’isola, mentre nel 1804 il generale Dessalines proclama l’indipendenza di Haiti.
Negli Stati Uniti, il Congresso vota l’abolizione della tratta nel 1800, per applicarla nel 1808, senza che tuttavia si parli di fare a meno degli schiavi nelle piantagioni. Nel resto delle Americhe, neppure gli indipendentisti sono necessariamente abolizionisti. Lo si può vedere quando l’invasione della Spagna e del Portogallo da parte delle truppe napoleoniche nel 1808-809 provoca nelle colonie iberiche una crisi che sfocerà in guerre d’indipendenza. A condurle sono per la maggior parte proprietari fondiari e schiavisti che, come i piantatori di Saint-Domingue o della Martinica, preferiscono rompere con la Spagna piuttosto che obbedire a ingiunzioni eccessivamente contrarie ai loro interessi. In fondo, è per lealtà verso le Corone di Ancien Régime che le élite creole arrivano a formulare un progetto di nazione indipendente. È dunque complicato assimilare rivoluzione e nazione, e soprattutto abolizione. Se gli schiavi hanno potuto approfittare delle guerre d’indipendenza è perché, durante il conflitto, le diverse fazioni creole hanno avuto bisogno di utilizzarli nelle loro truppe e si sono lasciate andare a un crescendo di promesse di riscatto o di emancipazione. Nel 1815, Bolívar2, il leader del movimento d’indipendenza dell’America del Sud, espone dal suo esilio in Giamaica l’idea che si è fatto della «nazione» americana. Si tratta precisamente di una nazione schiavista, basata sulla dominazione degli indiani e degli schiavi, una dominazione pacata perché naturale, in quanto l’ordine della natura assegna a ogni «razza» il suo posto secondo le sue competenze e le sue propensioni, e quella del bianco è la dominazione3.
Bolívar non fa che esprimere una posizione che si consolida ponendosi in contrasto con il pensiero rivoluzionario dei Lumi per sottolineare il presunto carattere naturale della disuguaglianza. In Francia la troviamo presso molti autori, ad esempio Boissy d’Anglas, che nel 1795 si pronuncia contro l’abolizione basandosi sulla teoria dei climi, che compariva già in Buffon per spiegare le differenze di colore della pelle ma anche di comportamenti. La libertà sarebbe secondo lui un carattere che solo le genti del Nord possono rivendicare, emerso dalla loro lotta incessante contro gli elementi per assicurarsi sopravvivenza e progresso. I popoli del Sud, che non devono fronteggiare questa avversità grazie alla generosità della natura nei loro confronti, si limiterebbero a vegetare e non avrebbero avuto bisogno di conquistare tale libertà4.
Nella discussione si affronteranno ancora una volta gli schiavisti conservatori reazionari e i «liberali» che non fanno differenze tra i negri e i proletari europei. In entrambi i casi, la natura dello stato sociale, come in Le Mercier, giustifica lo sfruttamento degli uni da parte degli altri: «Il negro è come i vostri modesti contadini; quale che sia il loro stato, i lavoratori sono soggetti alla stessa legge inesorabile: Lavora per me e io ti nutrirò, ecco il Patto universale dei Ricchi con i Poveri»5. Un certo Jean-Félix Carteau scrive dai Caraibi nel 1802 per opporsi alla dimostrazione dell’uguaglianza naturale:
È provato, mi sembra, che appartenga alla natura della specie umana il fatto che le grandi società siano composte da persone che non lavorano e da altre costrette a lavorare: pertanto, sia che si chiamino i primi ricchi e i secondi poveri, sia che li si definisca borghesi e giornalieri, o padroni e schiavi, fondamentalmente è la stessa cosa. L’unica differenza sta nei nomi. Poveri, schiavi e giornalieri non designeranno mai se non la stessa classe di uomini: quella destinata dalla condizione sociale a servirne altri6.
Nonostante tutto, le rivoluzioni francese e americana hanno fatto della nazione sovrana la fonte di ogni legittimità, e in particolare quella relativa all’insurrezione. All’interno dei primi movimenti romantici nazionalisti, tedeschi e italiani, che non sono passati attraverso la rivoluzione egalitaria, si forgia dunque un’equivalenza tra nazione e libertà. In questo senso si può dire che la nazione dell’inizio del XIX secolo in Europa si ricolleghi alla definizione indoeuropea del «libero». È attraverso la nazione, ossia la società dei congeneri, che il libero si definisce come tale. Fa dunque parte di una comunità di parenti, che contribuiranno alla comunità nazionale assicurando la sussistenza delle generazioni future e pagando il loro debito alla generazione precedente, in particolare con le imposte. Il cittadino, attraverso la figura della nazione, è perciò un parente sul piano antropologico. In questo risiede la portata egalitaria della nazione politica. Abolendo la schiavitú, il decreto del 1794 della Convenzione ha dunque di fatto integrato gli affrancati nella nazione, rendendoli parenti che potranno trasmettere la cittadinanza. La società schiavista antillana è lungi dal voler applicare questa decisione politica. Anche negli Stati Uniti e in Inghilterra, paesi degli abolizionisti, il motto della Società degli abolizionisti britannici, «Non sono forse un uomo, e un fratello?», manterrà per sempre la sua forma interrogativa-negativa.
Che fare degli affrancati?
La Costituzione statunitense, promulgata nel 1789, istituisce una comunità di liberi proprietari e non considera gli schiavi – né gli indiani – come cittadini. Non sono né elettori, né eleggibili, né contribuenti. Ma che dire degli affrancati o dei discendenti di affrancati, nati liberi? La questione dei neri liberi e la maniera passionale in cui è affrontata nei discorsi politici mostrano fino a che punto l’affiliazione con il «negro», quella incarnazione della violenza traumatica che abbiamo descritto, sia un’angoscia permanente del colono bianco. Di fatto, l’uguaglianza teorica enunciata dalla Costituzione fa del negro un possibile parente per il cittadino statunitense, e questo è insopportabile. Thomas Jefferson, futuro presidente degli Stati Uniti, a sua volta grande proprietario di schiavi e padre di molti di loro, nel 1781 aveva proposto, in modo molto chiaro, l’espulsione dei neri liberi dallo stato della Virginia di cui era governatore. Davanti all’impossibilità di farli partecipare alla repubblica a causa del «pregiudizio», arriverà poi a sostenere la necessità di una loro espulsione «lontano dalla eventualità di mescolanza con i bianchi»7.
Sarebbe difficile trovare una formulazione piú efficace dell’impossibilità patologica di superare l’«esperienza negra» per i bianchi delle Americhe. Detto questo, l’espulsione dei neri liberi non può sempre essere considerata una soluzione globale, tanto meno nei paesi in cui essi costituiscono una parte non trascurabile degli attori economici, come nel caso del vicereame di Nueva Granada o in Brasile. In primo luogo, i nuovi stati americani, ma anche le colonie francesi, hanno bisogno delle popolazioni negre. La crisi della tratta ha indotto a prendere in considerazione le facoltà riproduttive dei negri e, per necessità, di una pseudo-parentela che si eserciterebbe tra loro. Ora, se si applicassero contemporaneamente la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, la Costituzione e il decreto di abolizione, questi legami pseudo-parentali minaccerebbero il ruolo esclusivo dei bianchi rispetto alla filiazione. La resistenza dei coloni bianchi è tale che questi ultimi preferiranno rinunciare all’esercizio della propria cittadinanza per fare delle colonie «territori speciali», in altre parole zone sulle quali si applicano «disposizioni particolari»8. Una di queste, secondo l’applicazione del codice civile napoleonico, risolve il problema nei termini seguenti:
Le Leggi del codice civile relative al matrimonio, all’adozione, al riconoscimento dei figli (sic) naturali, ai diritti dei figli nella successione del loro padre e della loro madre, alle concessioni fatte per testamento o donazioni, alle tutele ufficiose o dative non saranno applicate nella colonia se non da bianchi a bianchi tra di loro, senza che in nessun modo, diretto o indiretto, una qualunque delle sopracitate disposizioni possa aver luogo da una classe all’altra9.
Il regime di matrimonio e di filiazione, la trasmissione dell’eredità e le regole della successione, espressioni istituzionali della parentela nelle nostre società e pilastri della civiltà nazionale fino ai nostri giorni, devono dunque costituirsi nelle colonie in categorie impermeabili e immutabili. Per giustificare questa impermeabilità, il decreto si basa su una misteriosa e impalpabile necessità:
Considerando che da sempre nelle colonie è abituale la distinzione dei colori, che essa è indispensabile nei paesi di schiavi, e che è necessario mantenervi la linea di demarcazione che è sempre esistita tra la classe bianca e quella dei loro affrancati o dei loro discendenti (sic), eccetera10.
Un’altra forma di espulsione simbolica dalla nazione passa attraverso il divieto per i neri di partecipare alla guerra. Con Napoleone, la guerra è ormai interdetta agli uomini «di colore», che non possono far parte dell’esercito francese, mentre coloro che vi hanno prestato servizio si vedono revocare la pensione. L’integrazione repubblicana all...

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