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Una metronovela

Stefano Bartezzaghi

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Una metronovela

Stefano Bartezzaghi

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Tra arrivi e partenze, amicizie lunghe una vita e disincontri quotidiani, orizzonte superiore e orizzonte inferiore, ricordi tenaci e attimi mancati, Stefano Bartezzaghi ci conduce in un insolito viaggio sentimentale nella sua città. E la sua linguacornucopia scava nell'ovvio e nel mediocre del quotidiano e dell'oggetto comune per produrre riverberi insoliti, lampi di ricordi, nuovi angoli di osservazione, storie frivole e serie di persone note o del tutto sconosciute che insieme a Milano ci raccontano anche un'altra possibile città. Magari la nostra.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2015
ISBN
9788858419083

Parte seconda

Convoglio

Capitolo primo

PORTA ROMANA

Fra CROCETTA e LODI T. I. B. B.

QUELLA COSA A PORTA ROMANA
Il primo amore.
Ci sono tre parole in fondo al cuore:
la gioventú, la mamma ed il primo amore.
La gioventú la passa, la mamma muore
te restet come on pirla col primo amore.
Porta Romana bella, canzone popolare, XIX secolo.
Corso di Porta Romana è un mio primo amore. La prima via di Milano davvero amata, infatti, quando la metropolitana era ancora in cantiere e Milano era tappezzata di cartelloni: «La Linea Tre avanza» (inevitabile scritta a commento: «La mangeremo domani»). Al Teatro di Porta Romana ho visto spettacoli anche molto brutti e concerti anche molto belli; alla trattoria veneta e alla greca nella viuzza ho fatto parecchie cene, addizionando e sottraendo mentalmente i soldi che avevo in tasca a ogni consumazione. Spartivo il conto con amici adulti e stipendiati e, malgrado il nome della via, non si faceva «alla romana» (ognuno paga il suo) ma a quello che i milanesi ritengono sia «fare alla romana» (conto totale diviso per numero di commensali: ho pagato diverse razioni di dessert senza mai mangiarne uno). Per inciso, questi equivoci fra milanesi e romani sono frequentissimi. Famoso è il caso di «sticazzi» e «me cojoni», due efficaci esclamazioni che a Milano vengono adottate in forma distorta. Di «me cojoni» a Milano si pensa che significhi «i miei testicoli», mentre proviene dal verbo «cojonà», prendere in giro, e quindi è l’equivalente di «Stai scherzando?» «Sticazzi» significa: vabbe’, chi se ne importa («Un po’ mi è dispiaciuto, ma poi sticazzi»), mentre a Milano e in tutto il Nord lo si considera invece un equivalente di «Accidenti, sono impressionato», con un totale capovolgimento di significato. Io sono giunto alla conclusione che l’uso milanese di «sticazzi» non corrisponde all’uso genuino romano di «sticazzi», bensí, mutatis mutandis, al romano «anvedi»; il genuino «sticazzi» romano non è invece molto lontano dal milanese «s’ciao»: «Ho corso dietro al tram, ma quello non mi ha visto, ha chiuso le porte, è partito: e s’ciao».
Ah, il transito dei gerghi, che spasso, che pena!
A Porta Romana c’era la «lingéra» o la «ligéra» (forse da «leggera»), la piccola malavita. Strana consonanza fra «lingéra» e «via Filangieri», indirizzo del carcere milanese di San Vittore. Enzo Jannacci stava nella zona di via Lomellina («la Lomella») e raccontava come nella Milano della sua infanzia ogni quartiere avesse una propria variante di dialetto. In particolare a Porta Romana si parlava un milanese fortemente infiltrato dal gergo della lingéra.
Lingéra fa rima con ringhéra: la «ringhiera». Ringhiera non viene da «ringhio», purtroppo, ma da «arengo». Le «case di ringhiera» sembrano arene, arenghi, teatri: palcoscenico e platea è il cortile, palchi, balconate e loggioni sono i diversi ordini di ballatoio da cui si accede agli appartamenti e ai bagni comuni. Nel 1978 Franco fece un lungo viaggio – mesi e mesi – da Milano a Los Angeles e da qui in Brasile. Mi lasciò le chiavi del suo appartamento, in una casa di ringhiera alla fine del corso di Porta Romana: ci andavo nel pomeriggio, a leggere i suoi libri, ascoltare e suonare musica, fare niente. Nessuna ragazza da portarci. Era già finito il mio primo amore, e anche il secondo e anche il terzo. Ero in mezzo al quarto, matto, epistolare, impossibile e disperatissimo. Da allora corso di Porta Romana mi pare un po’ mio, persino ora che non mi piace piú tanto. Parlo del tratto dalla Cerchia dei Navigli alla Cerchia dei Bastioni. Anzi, anche meno: del tratto dalla Crocetta alla Porta, dove ora arriva la metropolitana.
Piante.
Andrea ha abitato a lungo in Porta Romana, nel grattacielo all’inizio di via Sabotino. Da lí lui e la madre, entrambi appassionati di botanica (cresceva fra le altre una pianticella di melone sul loro terrazzo), hanno seguito gli infiniti lavori di costruzione della metropolitana e poi dei parcheggi sotterranei. Mi hanno raccontato che per anni il cantiere ha girato attorno a tre alberi, che erano un po’ di intralcio ma che venivano preservati sullo spiazzo di terra in cui avevano messo radici da chissà quanto. Finiti i lavori, parcheggio pronto, cantiere tolto: subito prima, gli alberi furono abbattuti.
Porta Romana bella.
Ogni volta che scendo dalla metropolitana a Porta Romana ripenso alla voce di Nanni Svampa che canta Porta Romana bella. Non è un canto d’amore: è una canzone carceraria, pensieri di un malavitoso portato a «via Filangieri», ovvero a San Vittore, a calci e pugni.
La prima quartina sembra uno di quegli indovinelli equivoci, dal testo malizioso e gravido di allusioni sessuali, poi sciolte in modo anòdino.
Porta Romana bella, Porta Romana
ci stanno le ragazzine che te la dànno
ci stanno le ragazzine che te la dànno
prima la buonasera e poi la mano.
Ora a Porta Romana ci stanno residence e locali frequentati da guidatori di Suv spropositati che intralciano il passaggio dei tram nel budello del corso, e ci stanno modelle e altre ragazzine che fanno fatica a dare già la buonasera. Una mia amica mi ha detto che stava bevendo qualcosa in uno di quei locali con un suo amico, che un po’ le piaceva, un po’ no. Lui è andato nella toilette e da lí le ha mandato un sms: ti aspetto qui. Non vi dico come è finita.
I miei soggiorni nella casa di ringhiera di corso di Porta Romana sono forse stati l’unico caso in cui da ragazzo ho avuto un posto per fare l’amore in assenza di qualcuno con cui farlo. Erano piú abituali il caso opposto e il caso in cui non avessi né l’una né l’altro.
Il problema di dove andare a far l’amore non è uno scherzo, almeno da ragazzi. «Veronica, il primo amor di tutta via Canonica» (sempre Jannacci) lo faceva appunto in corso di Porta Romana, «al Carcano, in pée» (al Teatro Carcano, in piedi). Da via Canonica al Carcano è una passeggiata non da poco: «un bel pedalaggio» avrebbe forse detto sempre lui. Tiziano Scarpa racconta che a Venezia c’è un posto ideale da adattare ad alcova, proprio per strada, se si possono chiamare strade i meandri veneziani. Io ho sentito storie di persone che l’hanno fatto dentro i portoni, in taxi, nell’auto posteggiata in posti neanche troppo isolati, in metropolitana. Persone pratiche, spicce, che non pensano di avere sempre gli occhi puntati addosso, e magari hanno pure ragione. Provo a figurarmi la loro visione della città: collezione e rassemblement di luoghi pubblici, che con un po’ di fantasia applicata si possono momentaneamente privatizzare, in «quella fretta tutta fibbie, lacci e brividi» di cui parla l’inno delle coppie randagie. Si intitola Quella cosa in Lombardia ed è una famosa canzone scritta dal poeta Franco Fortini con il musicista Fiorenzo Carpi, per Laura Betti.
Caro, dove si andrà, diciamo cosí, a fare all’amore?
Non ho detto «andiamo a passeggiare»
e neppure «a scambiarci qualche bacio»…
«Fare all’amore»: i versi di Fortini precisano per bene di cosa si tratta, nessun equivoco possibile.
Ma oltre alla città degli arrapati pragmatici, che è articolata e ad alta definizione, c’è quella degli accorati, che invece è sfumata, nebbiosa, illeggibile. Gli accorati provano dolori che non vorrebbero manifestare, ma proprio non riescono a tirare in su gli angoli della bocca e spesso prendono una postura ingobbita, come a cercare di tenerlo al riparo, quel cuore dolente. Guardano niente, vogliono incontrare nessuno, sanno niente di quel che sta loro passando per la testa. Attraversano la città come guidati da un servomeccanismo, un pilota automatico, e non si accorgono di nulla.
Una notte tornavo da una cena di cui non ero riuscito a mangiare piú che qualche boccone. Ero molto, molto accorato. Sono uscito dal portone di corso di Porta Romana, ho passeggiato sino alla Porta per andare a prendere la metro. Sarei stato piú vicino alla fermata Crocetta ma volevo fare quattro passi, prima di galleggiare nella luce violenta e nei colori squillanti della metro. Era inverno, il corso era deserto, camminavo senza percepire. Il mondo non c’era piú. Non so come abbia fatto a rincasare: ora che sono arrivato alla fermata la metro era già chiusa, sarò andato a piedi, nella notte, non volevo aprire bocca neppure per dare a un tassista la buonasera e il mio indirizzo.
Sin da bambino, previdente, ho imparato come aggirarmi nel buio, anche di stanze poco conosciute, trovare gli occhiali (inutili, peraltro, al buio), le pantofole (sin che ne ho avute), l’acqua, il bagno, e poi la macchinetta del caffè, le sigarette, le scarpe. Al buio ho anche sempre trovato me stesso senza fatica o affanni. Lo benedivo, quel lungo esercizio, ora che non lo vedevo piú, il mondo, e sentirlo lo sentivo remoto, ed evitavo i pali e le merde di cane senza davvero vederli, e leggevo e rispondevo a un sms camminando senza davvero capire cosa leggessi e scrivessi, e sfioravo una targa di caduti della guerra di Liberazione e pensavo alla liberazione della donna che mi voleva ancora, sapevo che mi voleva ancora, ma non poteva piú. E allora s’ciao.
No, non c’erano stati la panzanella e l’hamburger, il vino e il cognac nella casa degli amici accoglienti e sgomenti del mio sgomento, non c’era stata la musica bellissima che ci aveva fatto compagnia. Camminavo per corso di Porta Romana, pianeta Luna: infagottato in una tuta spaziale, ballonzolando in condizioni di gravità diminuita, andando su e sembrava non potessi far altro, andando poi giú e sembrava non potessi far altro, e non avevo piú finezza né espressione, non sentivo piú.
Ricordo di aver solo notato un ragazzo attempato con la faccia un po’ triste e dei fiori in mano, appena sceso da un motorino, che citofonava e gli veniva aperto senza che dovesse rispondere a un «Chi è?» E io lí, rimasto come un pirla, con il mio amore.
Ci ha messo qualche giorno, il mondo: ma poi è tornato.
«Un amore di Chuck».
DEM Ma poi le hai telefonato?
CHUCK Le ho mandato un WhatsApp.
DEM Quando?
CHUCK Stanotte. Oh, be’, insomma, erano le quattro e mezzo, tornavo dalla festa di Jyn.
DEM Ti ha risposto?
CHUCK Immediatamente. Lei si alza a quell’ora, lo sapevo.
DEM E perché?
CHUCK Lavora, fa rassegne stampa per una radio, ha la trasmissione presto.
DEM E poi?
CHUCK Boh, non mi scrive piú.
DEM E allora perché hai sempre in mano il telefono?
CHUCK E-mail. Refresho.
DEM Smettila.
CHUCK Una volta non ho refreshato per due ore e lei mi aveva scritto un minuto dopo il penultimo controllo.
DEM Smettila. A Roma mi hanno insegnato cosa si dice: sticazzi.
CHUCK Facile, per te.
DEM Insomma, hai incontrato una in discoteca, ha visto il negrone, si è strusciata, si è fatta portare in bagno.
CHUCK Non capisci niente e negrone lo dici a tua sorella.
DEM Ti pare il caso di stare ad aspettare un sms con i cuoricini?
CHUCK Magari me lo manda.
DEM Non ci posso credere. Chuck, amico mio, ritorna in te.
CHUCK Magari in metro il telefono prende male.
DEM Prende benissimo. Senti, ragiona, non può funzionare, con quella.
CHUCK E perché?
DEM Mi sembra che veniate da… Da insiemi di circostanze davvero troppo diversi.
CHUCK Ma come parli?
DEM All’ora in cui si sveglia e lavora tu torni dalle feste, magari con un’altra, o magari con altre due.
CHUCK Con quelle mica ci parlo.
DEM Ah, perché, con lei sí.
CHUCK Domenica abbiamo parlato tutto il giorno.
DEM Ti ha detto di sua mamma? Del suo ex? Ha gatti?
CHUCK Vaffanculo, Dem: vai davvero a fare in culo.
Prossima fermata, Porta Romana. Next stop, Porta Romana.
DEM Scendiamo, rubacuori.
Chuck si è innamorato di una ragazza spagnola, Nala Vada. L’ha conosciuta per strada, una sera. Lei faceva l’autostop, lui si è fermato. Hanno bevuto un caffè in un autogrill, poi hanno deciso di andare a ballare assieme nel locale La vita beata. Chuck ha una moglie in Canada e nel locale ha incontrato un’altra donna con cui ha una relazione stabile, ma quella sera voleva Nala e solo lei. Al caffè le loro quattro chiacchiere avevano preso presto una piega stranamente confidenziale. A un certo punto lei lo aveva guardato negli occhi, e gli aveva chiesto, secca e diretta: «Sei felice?» e lui si era accorto che avrebbe anche potuto rispondere di sí, se soltanto lei non glielo avesse chiesto, o non lo avesse guardato cosí mentre glielo chiedeva. Dal momento in cui gliel’ha chiesto e l’ha guardato, lui non lo ha piú saputo. Forse no, non del tutto, adesso comunque non piú.
Alle tre del mattino, Dem lo sta tempestando di chiamate inevase e sms: dalla sede centrale è arrivato l’ordine di svolgere una missione: Lou Cash, un amministratore della famiglia Sinisi, segreta governatrice della lobby del fil ’e ferru, deve essere avvicinato e ricattato, si è scoperto che è schiavo della ludopatia e dai fondi neri della famiglia storna somme con cui alimenta un’insana passione per le scommesse sui concorsi di bellezza felina. Con una webcam nascosta lo hanno ripreso in una camera d’albergo, mentre si drogava e giaceva con una prostituta, dopo una folle notte di scommesse perdute. Mettendolo alle strette avrebbe potuto rivelare organigramma e strategie della lobby avversa alla Rocketee Corporation.
Ma Chuck ha silenziato da ore il telefono che tiene in tasca e intanto balla molto vicino a Nala, come se non ci fosse un domani. Si accorge delle chiamate solo piú tardi, quando nelle compiacenti toilette della Vita beata pretenderà da Nala un selfie con lui, dopo la consumazione di un rapporto sessuale alquanto soddisfacente per entrambi (lei ne racconterà i dettagli scabrosissimi in un’e-mail all’amica Carr Humpan che la corteggia invano da anni e si delizia dei racconti delle sue avventure etero).
Chuck e Nala si sono poi ritirati di prima mattina a casa di lui, hanno dormito assieme e sempre assieme hanno passato il pomeriggio e la prima serata della domenica, fra l’altro a parlare tanto: poi lei è rincasata e Chuck è andato alla festa di Jyn, dove ha avuto modo di sfogare altra parte della sua eccezionale bramosia sessuale. Ma ha continuato a pensare a Nala.
Nel pomeriggio del lunedí ha finalmente reincontrato Dem e con lui si sta recando all’appuntamento che Dem ha imposto a Lou Cash con una telefonata perentoria: parchetto di corso di Porta Romana, ore 17.00.
Alla stessa ora Nala Vada rincasa e scopre che qualcuno ha scritto sul muro davanti al suo portone:
And still feel so alone
and still feel related.
Sospetta di Chuck, e non ha davvero tutti i torti.
Infine…
… una volta, vicino a Porta Romana, l’amore l’ho trovato.

Capitolo secondo

GIOIA

Linea verde M2 fra GARIBALDI e CENTRALE

DELL’INCERTEZZA URBANA
Gioia anomala.
A Gioia si scende e si sale dai ...

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