Tutto quello che so sull'amore
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Tutto quello che so sull'amore

Dolly Alderton

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  1. 340 pages
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Tutto quello che so sull'amore

Dolly Alderton

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Diventare grandi è il viaggio della vita, e quello di Dolly Alderton è stato un giro vorticoso sulle montagne russe. Stazione di partenza, uno scialbo sobborgo londinese dove Dolly, nei primi anni del nuovo millennio, è un'adolescente che passa le giornate su Messenger, smaterializzata in uno spazio parallelo di relazioni simulate, o a fantasticare su ragazzi e feste e soprattutto fughe insieme alla sua migliore amica Farly. Il primo, elettrizzante scatto in avanti arriva al momento di trasferirsi a Exeter per l'università e dare sfogo a tutti i sogni di libertà, in quelli che saranno anni di eccentrica sregolatezza, sbronze micidiali, avventure di una notte e incontri destinati a durare. Poi, spinta dal sogno, questa volta, di diventare giornalista, si tufferà nel cuore pulsante di Londra, città spettinata, gaudente, come lei tendente all'autodistruzione, una regina severa che cambierà il suo modo di vedere il mondo. Il memoir di Dolly Alderton, vincitore del National Book Award, è un bellissimo posto dove stare. Dentro ci sono cose normali come l'amicizia, le delusioni, le sorprese del sesso, gli amori che salvano o ti annientano, la palude dell'ambiente familiare - ma soprattutto c'è lei, una ragazza ferocemente divertente che sa raccontare come si diventa donna, e quali sono le tante forme dell'amore.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2021
ISBN
9788831804417

Sono stata gurizzata

All’inizio dell’estate in cui Farly è stata lasciata, mi è stato chiesto di scrivere un articolo sui pericoli insiti nel compiacere la gente. L’editor per cui lavoravo mi ha consigliato di parlare con un tizio che aveva appena scritto un libro sull’argomento. Il tizio si chiamava David, aveva una cinquantina d’anni ed era un attore che si era reinventato scrittore. L’ho googlato prima di parlarci al telefono e ho scoperto che era anche molto bello: pelle olivastra, capelli brizzolati, occhi castani e gentili. Il suo editore mi ha mandato un PDF del libro che si è rivelato una lettura frustrante per quanto era geniale. Il suo lavoro si concentrava sul bisogno umano di essere approvati e su come questo minasse la felicità. Leggerlo è stato come essere afferrata per le spalle da delle manone forti e sicure e prendermi una grossa scrollata, intensa e necessaria.
Ci siamo mandati qualche mail per un po’ di tempo e poi abbiamo fissato un appuntamento telefonico. Aveva la voce dolce e profonda, molto più espressiva e teatrale di quanto mi sarei aspettata. Il suo atteggiamento ricordava quello di un hippy a intermittenza, ma parlava come un membro di un ensemble di musica classica. Gli ho fatto domande sul libro e sulle cose che mi avevano colpito, e lui mi ha detto che fin da piccoli ci è sempre stato chiesto di moderare i nostri comportamenti. Mi ha spiegato che la raccomandazione a non fare i capetti, i vanitosi o gli intelligentoni crea delle barriere intorno a certi recessi della nostra personalità e da adulti ci spaventa l’idea di riscoprirli. Allora tendiamo a nascondere quelle parti di noi, quelle parti eccessive, oscure, eccentriche o ambigue, per la paura di non essere amati. Ma erano proprio quelle parti di noi – secondo lui – a essere le più belle.
Visto che l’articolo doveva avere un taglio personale ci siamo ritrovati a parlare delle mie esperienze private. Gli ho detto che avevo cominciato a fare terapia quell’anno.
«Il pericolo di un percorso del genere per una persona come te è che sei intelligente» ha detto. «Intuirai facilmente tutta la teoria. Diventerai scientifica rispetto a te stessa quando parli. Ma non è che riuscirai a farci molto altro, con tutte queste chiacchiere. Hai bisogno di sentirlo davvero dentro di te, il cambiamento, non si può limitare a una cosa di cui discuti col tuo analista. Devi sentirlo nel corpo.» Ha parlato più lentamente: «Hai bisogno di sentirlo nell’incavo delle ginocchia, nel grembo, nelle dita dei piedi, nei polpastrelli».
«Uhm» ho detto con un moto di approvazione.
Abbiamo parlato per circa tre quarti d’ora passando dalle pagine del libro alla ricerca e al lavoro che aveva portato avanti per anni, e poi alle mie esperienze personali. Mi parlava in maniera schietta, senza formalismi o affettazione. Mi sentivo come se in qualche modo avesse un accesso diretto al mio equatore interiore grazie a una semplice chiacchiera telefonica.
«Datti un buffetto da sola» mi ha suggerito, come se mi conoscesse da anni. «Non hai bisogno di qualcuno che ti dica cosa fare o come essere. Sei la madre di te stessa. Devi ascoltare quello che desideri.»
«Uhm» ho ribadito.
«E da ora in avanti, voglio che tu prenda seriamente questo compito ogni giorno della tua vita.»
«Ma come si fa a comportarsi in modo corretto se si è se stessi tutto il tempo?»
«Ti sei mai innamorata di qualcuno perché era corretto?»
«Be’, no.»
«Ohhh, quel Greg» ha detto in tono lussurioso. «Mi eccita da matti, quanto cazzo è corretto
«No, no» ho detto ridendo.
«Non sono interessato alla correttezza. È nell’oscurità, nelle asperità, negli angoli più remoti che giacciono tesori sepolti. Vaffanculo alla correttezza.»
Mi sembrava che stesse flirtando con me, ma non riuscivo a capire se mi stesse parlando in maniera così confidenziale solo per ottenere delle buone citazioni nel pezzo. Alla fine ci siamo messi a chiacchierare del più e del meno dimenticando lo scopo della telefonata. Intuivo anche che volesse sapere se avevo una storia, ma mi sono tenuta sul vago. Mi ha detto che secondo lui avremmo potuto provare una seduta a tu per tu.
«Se te la senti di rivelare tutta te stessa senza la paura di essere giudicata» ha detto, «vedrai che la tua sfera intima salirà alle stelle.»
«Sì, è sempre stato un problema enorme per me» ho detto. «La sfera intima.»
«Lo so, lo percepisco.» C’è stato un attimo improvviso di silenzio. Magari stava solo sparando cazzate da guru, o magari tutto quello che credevo di aver represso era molto più evidente di quanto pensassi.
«Uhm» ho detto per la terza volta.
«Spero che ci sia qualcuno nella tua vita che ti sostenga davvero, Dolly.»
«Ho la mia analista» ho detto.
«Non è quello che intendo» ha ribattuto.
Sono uscita di casa sbattendo gli occhi contro la luce come se mi fossi appena svegliata.
«Ho fatto una chiacchierata incredibile» ho detto a India e Belle che stavano prendendo il sole in giardino.
«Con chi?» mi ha chiesto India togliendosi le cuffie.
«Quel tizio dell’articolo, quella specie di guru.»
«E che ti ha detto?»
«Non lo so, è stato come se parlasse a una parte nascosta dentro di me a cui nessuno aveva mai parlato prima, l’ho sentita tipo sbadigliare e svegliarsi per la prima volta.»
«Però è così che funziona, no? Ti fanno pensare che è proprio quello il loro potere» ha detto India in tono lugubre mettendosi a pancia in su. «Non mi sono mai fidata di quelli che si definiscono guru.»
«A dire il vero lui non si definisce un guru» ho detto. «Sono tutti gli altri che lo vedono così.»
«Okay, già meglio» ha replicato.
«È un po’ come per gli “esperti”» ho continuato, «o per i “pezzi grossi”. Deve essere qualcun altro a dirlo, non è che ti ci puoi chiamare da solo.»
Mi sono tolta la maglietta e mi sono unita a loro sugli asciugamani che avevano buttato sull’erba.
«Hai ottenuto quello che ti serviva?» mi ha chiesto Belle.
«Sì» ho detto. «È stata un’ottima intervista.»
Ho chiuso gli occhi e mi sono goduta un raro abbraccio del potente sole inglese. «Che cavolo, non riesco a smettere di pensare a lui.»
«Ma in modo sessuale?» mi ha chiesto India.
«No, non credo. Più una cosa tipo: voglio divorarti l’anima. Voglio scoprire tutto di lui, voglio ascoltare tutto quello che ha da dire.»
«Chiedigli il numero di telefono» mi ha detto.
«Ce l’ho il suo numero. L’ho appena intervistato.»
«Ah già» ha detto. «Be’, allora mandagli un messaggio.»
«Ma non posso mandare un messaggio a uno che ho appena intervistato per un articolo.»
«Perché no?» mi ha chiesto Belle.
«Perché non sarebbe corretto» ho detto con le parole che mi si bloccavano in gola. «Ma chi è che s’innamora della correttezza?»
Ho riascoltato la registrazione quando mi sono messa a letto quella sera, le sue parole mi rimbalzavano dentro come una pallina da ping-pong. La mattina successiva ho scritto il pezzo, l’ho mandato all’editor e non ho più pensato a lui.
Un paio di mesi dopo, stavo tornando a casa tardi da una festa quando ho ricevuto un WhatsApp da David. Mi scriveva che era in vacanza in Francia e si era fatto una lunga passeggiata sotto le stelle ricordandosi all’improvviso della nostra intervista, che non aveva visto pubblicata da nessuna parte.
«Ovviamente è il mio narcisismo a parlare. Quando esce l’articolo?»
«Macché narcisismo, non mi pare proprio!» ho risposto. «È stato rimandato di un numero, mi dispiace. Ti faccio sapere che giorno esce il mese prossimo. Ti posso far spedire una copia se non sei in Inghilterra.»
«No, sarò tornato per allora. E tu come stai?» mi ha chiesto. «Sembravi camminare su una fune sottile quando ci siamo parlati l’altra volta.»
«Ancora instabile» ho scritto. «Ancora in cerca di un cambio di paradigma. Un giochetto da ragazzi. E tu come stai?»
«Uguale.»
Mi ha detto che era uscito da qualche settimana da una lunga relazione. Mi ha detto che era stata la cosa giusta: una separazione amichevole e consenziente. Mi ha detto che a volte lasciarsi può essere un sollievo per tutti e due, come quando finalmente si spegne il condizionatore, quel ronzio costante di cui non ti eri reso conto fin quando non torna il silenzio.
Quella sera ci siamo mandati messaggi per ore, istruendoci vicendevolmente sulle cose fondamentali della nostra vita che non avevamo sviscerato la prima volta. Eravamo entrambi cresciuti a North London, eravamo andati in collegi di stampo conservatore, il che spiegava perché avesse una voce che odiava tanto, così come io odiavo la mia. Aveva quattro figli – due maschi e due femmine – che ovviamente lo impegnavano parecchio. Potevo annusarlo a chilometri di distanza quando un uomo usava i propri figli come arma di rimorchio, e non era questo il caso. Conosceva nel dettaglio il carattere, le passioni, il quotidiano di ciascun figlio e ne parlava con devozione e stupore sinceri.
Abbiamo chiacchierato di musica, di testi di canzoni. Io gli ho detto che il mio cantante preferito era John Martyn, che la sua musica è stata l’unica storia d’amore durata più di una manciata di anni. Lui mi ha detto che aveva comprato una chitarra di John Martyn dall’ex moglie e che se volevo poteva darmela visto che ero così in fissa con la sua musica. Abbiamo parlato di un libro che avevamo letto tutti e due e che mi aveva fatto diventare vegetariana; ci avevano fatto incazzare gli stessi paragrafi e gli stessi dati statistici. Abbiamo parlato delle nostre vacanze da bambini trascorse in Francia. Abbiamo parlato dei nostri genitori. Abbiamo parlato della pioggia. Gli ho detto che mi piaceva tanto, più del cielo azzurro e del sole. Gli ho detto che la pioggia mi aveva sempre fatto sentire coccolata e serena, e che da piccola chiedevo a mia madre se potevo andarmi a sedere nel bagagliaio della sua macchina parcheggiata fuori quando pioveva. Gli ho raccontato che quando ho letto nell’autobiografia di Rod Stewart che se ne stava in mezzo alla strada con le braccia aperte nell’unica giornata di pioggia all’anno di Los Angeles soltanto perché gli mancava, ho capito che non avrei mai potuto abbandonare Londra. Ci siamo dati la buonanotte alle tre di mattina.
Il giorno dopo mi sono svegliata come se mi stessi riprendendo da un sogno particolarmente vivido. Ma ovviamente c’era un nuovo messaggio di David sul cellulare che mi aspettava sotto il cuscino, come un soldino scintillante depositato dalla fatina dei denti.
«Stamattina mi hai svegliato verso le cinque» c’era scritto.
«In che senso?» ho risposto. Mi ha mandato la registrazione di uno scroscio di pioggia, prima forte e poi leggero, dalla finestra della sua camera da letto.
«Sono la pioggia?» ho chiesto sospendendo il mio affilato cinismo in un modo che sarebbe diventato il puntello di tutte le nostre future interazioni.
«Eh sì» mi ha risposto. «Ti ho sentito vicina.»
Ho dovuto raccontare alle mie amiche di David perché non mi staccavo mai dal telefono. Ci mandavamo messaggi da quando aprivamo gli occhi fino al momento di andare a letto. Io mi ritagliavo un cinque ore per lavorare, mangiare, lavarmi, ma persino in quelle obbligate finestre temporali non facevo che pensar...

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