Allâinizio dellâestate in cui Farly Ăš stata lasciata, mi Ăš stato chiesto di scrivere un articolo sui pericoli insiti nel compiacere la gente. Lâeditor per cui lavoravo mi ha consigliato di parlare con un tizio che aveva appena scritto un libro sullâargomento. Il tizio si chiamava David, aveva una cinquantina dâanni ed era un attore che si era reinventato scrittore. Lâho googlato prima di parlarci al telefono e ho scoperto che era anche molto bello: pelle olivastra, capelli brizzolati, occhi castani e gentili. Il suo editore mi ha mandato un PDF del libro che si Ăš rivelato una lettura frustrante per quanto era geniale. Il suo lavoro si concentrava sul bisogno umano di essere approvati e su come questo minasse la felicitĂ . Leggerlo Ăš stato come essere afferrata per le spalle da delle manone forti e sicure e prendermi una grossa scrollata, intensa e necessaria.
Ci siamo mandati qualche mail per un poâ di tempo e poi abbiamo fissato un appuntamento telefonico. Aveva la voce dolce e profonda, molto piĂč espressiva e teatrale di quanto mi sarei aspettata. Il suo atteggiamento ricordava quello di un hippy a intermittenza, ma parlava come un membro di un ensemble di musica classica. Gli ho fatto domande sul libro e sulle cose che mi avevano colpito, e lui mi ha detto che fin da piccoli ci Ăš sempre stato chiesto di moderare i nostri comportamenti. Mi ha spiegato che la raccomandazione a non fare i capetti, i vanitosi o gli intelligentoni crea delle barriere intorno a certi recessi della nostra personalitĂ e da adulti ci spaventa lâidea di riscoprirli. Allora tendiamo a nascondere quelle parti di noi, quelle parti eccessive, oscure, eccentriche o ambigue, per la paura di non essere amati. Ma erano proprio quelle parti di noi â secondo lui â a essere le piĂč belle.
Visto che lâarticolo doveva avere un taglio personale ci siamo ritrovati a parlare delle mie esperienze private. Gli ho detto che avevo cominciato a fare terapia quellâanno.
«Il pericolo di un percorso del genere per una persona come te Ăš che sei intelligente» ha detto. «Intuirai facilmente tutta la teoria. Diventerai scientifica rispetto a te stessa quando parli. Ma non Ăš che riuscirai a farci molto altro, con tutte queste chiacchiere. Hai bisogno di sentirlo davvero dentro di te, il cambiamento, non si puĂČ limitare a una cosa di cui discuti col tuo analista. Devi sentirlo nel corpo.» Ha parlato piĂč lentamente: «Hai bisogno di sentirlo nellâincavo delle ginocchia, nel grembo, nelle dita dei piedi, nei polpastrelli».
«Uhm» ho detto con un moto di approvazione.
Abbiamo parlato per circa tre quarti dâora passando dalle pagine del libro alla ricerca e al lavoro che aveva portato avanti per anni, e poi alle mie esperienze personali. Mi parlava in maniera schietta, senza formalismi o affettazione. Mi sentivo come se in qualche modo avesse un accesso diretto al mio equatore interiore grazie a una semplice chiacchiera telefonica.
«Datti un buffetto da sola» mi ha suggerito, come se mi conoscesse da anni. «Non hai bisogno di qualcuno che ti dica cosa fare o come essere. Sei la madre di te stessa. Devi ascoltare quello che desideri.»
«Uhm» ho ribadito.
«E da ora in avanti, voglio che tu prenda seriamente questo compito ogni giorno della tua vita.»
«Ma come si fa a comportarsi in modo corretto se si Ú se stessi tutto il tempo?»
«Ti sei mai innamorata di qualcuno perché era corretto?»
«Beâ, no.»
«Ohhh, quel Greg» ha detto in tono lussurioso. «Mi eccita da matti, quanto cazzo Ú corretto!»
«No, no» ho detto ridendo.
«Non sono interessato alla correttezza. Ă nellâoscuritĂ , nelle asperitĂ , negli angoli piĂč remoti che giacciono tesori sepolti. Vaffanculo alla correttezza.»
Mi sembrava che stesse flirtando con me, ma non riuscivo a capire se mi stesse parlando in maniera cosĂŹ confidenziale solo per ottenere delle buone citazioni nel pezzo. Alla fine ci siamo messi a chiacchierare del piĂč e del meno dimenticando lo scopo della telefonata. Intuivo anche che volesse sapere se avevo una storia, ma mi sono tenuta sul vago. Mi ha detto che secondo lui avremmo potuto provare una seduta a tu per tu.
«Se te la senti di rivelare tutta te stessa senza la paura di essere giudicata» ha detto, «vedrai che la tua sfera intima salirà alle stelle.»
«SÏ, Ú sempre stato un problema enorme per me» ho detto. «La sfera intima.»
«Lo so, lo percepisco.» CâĂš stato un attimo improvviso di silenzio. Magari stava solo sparando cazzate da guru, o magari tutto quello che credevo di aver represso era molto piĂč evidente di quanto pensassi.
«Uhm» ho detto per la terza volta.
«Spero che ci sia qualcuno nella tua vita che ti sostenga davvero, Dolly.»
«Ho la mia analista» ho detto.
«Non Ú quello che intendo» ha ribattuto.
Sono uscita di casa sbattendo gli occhi contro la luce come se mi fossi appena svegliata.
«Ho fatto una chiacchierata incredibile» ho detto a India e Belle che stavano prendendo il sole in giardino.
«Con chi?» mi ha chiesto India togliendosi le cuffie.
«Quel tizio dellâarticolo, quella specie di guru.»
«E che ti ha detto?»
«Non lo so, Ăš stato come se parlasse a una parte nascosta dentro di me a cui nessuno aveva mai parlato prima, lâho sentita tipo sbadigliare e svegliarsi per la prima volta.»
«PerĂČ Ăš cosĂŹ che funziona, no? Ti fanno pensare che Ăš proprio quello il loro potere» ha detto India in tono lugubre mettendosi a pancia in su. «Non mi sono mai fidata di quelli che si definiscono guru.»
«A dire il vero lui non si definisce un guru» ho detto. «Sono tutti gli altri che lo vedono cosÏ.»
«Okay, già meglio» ha replicato.
«à un poâ come per gli âespertiâ» ho continuato, «o per i âpezzi grossiâ. Deve essere qualcun altro a dirlo, non Ăš che ti ci puoi chiamare da solo.»
Mi sono tolta la maglietta e mi sono unita a loro sugli asciugamani che avevano buttato sullâerba.
«Hai ottenuto quello che ti serviva?» mi ha chiesto Belle.
«SÏ» ho detto. «à stata unâottima intervista.»
Ho chiuso gli occhi e mi sono goduta un raro abbraccio del potente sole inglese. «Che cavolo, non riesco a smettere di pensare a lui.»
«Ma in modo sessuale?» mi ha chiesto India.
«No, non credo. PiĂč una cosa tipo: voglio divorarti lâanima. Voglio scoprire tutto di lui, voglio ascoltare tutto quello che ha da dire.»
«Chiedigli il numero di telefono» mi ha detto.
«Ce lâho il suo numero. Lâho appena intervistato.»
«Ah già » ha detto. «Beâ, allora mandagli un messaggio.»
«Ma non posso mandare un messaggio a uno che ho appena intervistato per un articolo.»
«Perché no?» mi ha chiesto Belle.
«PerchĂ© non sarebbe corretto» ho detto con le parole che mi si bloccavano in gola. «Ma chi Ăš che sâinnamora della correttezza?»
Ho riascoltato la registrazione quando mi sono messa a letto quella sera, le sue parole mi rimbalzavano dentro come una pallina da ping-pong. La mattina successiva ho scritto il pezzo, lâho mandato allâeditor e non ho piĂč pensato a lui.
Un paio di mesi dopo, stavo tornando a casa tardi da una festa quando ho ricevuto un WhatsApp da David. Mi scriveva che era in vacanza in Francia e si era fatto una lunga passeggiata sotto le stelle ricordandosi allâimprovviso della nostra intervista, che non aveva visto pubblicata da nessuna parte.
«Ovviamente Ăš il mio narcisismo a parlare. Quando esce lâarticolo?»
«Macché narcisismo, non mi pare proprio!» ho risposto. «à stato rimandato di un numero, mi dispiace. Ti faccio sapere che giorno esce il mese prossimo. Ti posso far spedire una copia se non sei in Inghilterra.»
«No, sarĂČ tornato per allora. E tu come stai?» mi ha chiesto. «Sembravi camminare su una fune sottile quando ci siamo parlati lâaltra volta.»
«Ancora instabile» ho scritto. «Ancora in cerca di un cambio di paradigma. Un giochetto da ragazzi. E tu come stai?»
«Uguale.»
Mi ha detto che era uscito da qualche settimana da una lunga relazione. Mi ha detto che era stata la cosa giusta: una separazione amichevole e consenziente. Mi ha detto che a volte lasciarsi puĂČ essere un sollievo per tutti e due, come quando finalmente si spegne il condizionatore, quel ronzio costante di cui non ti eri reso conto fin quando non torna il silenzio.
Quella sera ci siamo mandati messaggi per ore, istruendoci vicendevolmente sulle cose fondamentali della nostra vita che non avevamo sviscerato la prima volta. Eravamo entrambi cresciuti a North London, eravamo andati in collegi di stampo conservatore, il che spiegava perchĂ© avesse una voce che odiava tanto, cosĂŹ come io odiavo la mia. Aveva quattro figli â due maschi e due femmine â che ovviamente lo impegnavano parecchio. Potevo annusarlo a chilometri di distanza quando un uomo usava i propri figli come arma di rimorchio, e non era questo il caso. Conosceva nel dettaglio il carattere, le passioni, il quotidiano di ciascun figlio e ne parlava con devozione e stupore sinceri.
Abbiamo chiacchierato di musica, di testi di canzoni. Io gli ho detto che il mio cantante preferito era John Martyn, che la sua musica Ăš stata lâunica storia dâamore durata piĂč di una manciata di anni. Lui mi ha detto che aveva comprato una chitarra di John Martyn dallâex moglie e che se volevo poteva darmela visto che ero cosĂŹ in fissa con la sua musica. Abbiamo parlato di un libro che avevamo letto tutti e due e che mi aveva fatto diventare vegetariana; ci avevano fatto incazzare gli stessi paragrafi e gli stessi dati statistici. Abbiamo parlato delle nostre vacanze da bambini trascorse in Francia. Abbiamo parlato dei nostri genitori. Abbiamo parlato della pioggia. Gli ho detto che mi piaceva tanto, piĂč del cielo azzurro e del sole. Gli ho detto che la pioggia mi aveva sempre fatto sentire coccolata e serena, e che da piccola chiedevo a mia madre se potevo andarmi a sedere nel bagagliaio della sua macchina parcheggiata fuori quando pioveva. Gli ho raccontato che quando ho letto nellâautobiografia di Rod Stewart che se ne stava in mezzo alla strada con le braccia aperte nellâunica giornata di pioggia allâanno di Los Angeles soltanto perchĂ© gli mancava, ho capito che non avrei mai potuto abbandonare Londra. Ci siamo dati la buonanotte alle tre di mattina.
Il giorno dopo mi sono svegliata come se mi stessi riprendendo da un sogno particolarmente vivido. Ma ovviamente câera un nuovo messaggio di David sul cellulare che mi aspettava sotto il cuscino, come un soldino scintillante depositato dalla fatina dei denti.
«Stamattina mi hai svegliato verso le cinque» câera scritto.
«In che senso?» ho risposto. Mi ha mandato la registrazione di uno scroscio di pioggia, prima forte e poi leggero, dalla finestra della sua camera da letto.
«Sono la pioggia?» ho chiesto sospendendo il mio affilato cinismo in un modo che sarebbe diventato il puntello di tutte le nostre future interazioni.
«Eh sÏ» mi ha risposto. «Ti ho sentito vicina.»
Ho dovuto raccontare alle mie amiche di David perché non mi staccavo mai dal telefono. Ci mandavamo messaggi da quando aprivamo gli occhi fino al momento di andare a letto. Io mi ritagliavo un cinque ore per lavorare, mangiare, lavarmi, ma persino in quelle obbligate finestre temporali non facevo che pensar...