Lobby e logge
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Lobby e logge

Le cupole occulte che controllano «il sistema» e divorano l'Italia

Luca Palamara, Alessandro Sallusti

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Le cupole occulte che controllano «il sistema» e divorano l'Italia

Luca Palamara, Alessandro Sallusti

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Gennaio 2021: arriva in libreria Il Sistema, il dirompente libro-confessione in cui Luca Palamara rivela ad Alessandro Sallusti la verità indicibile sulle correnti e la spartizione del potere all'interno della magistratura. Il libro non solo diventa ben presto il caso editoriale e politico dell'anno; avvia una reazione a catena di dimissioni, ricorsi, sentenze che non fa che confermare il racconto di Palamara.Gennaio 2022: l'ex magistrato e il giornalista affrontano i misteri del "dark web" del Sistema, la ragnatela oscura di logge e lobby che da sempre avviluppa imprenditori, faccendieri, politici, alti funzionari statali, uomini delle forze dell'ordine e dei servizi segreti, giornalisti e, naturalmente, magistrati. Logge e lobby che decidono se avviare o affossare indagini e processi e che, come scrive Sallusti, "usano la magistratura e l'informazione per regolare conti, consumare vendette, puntare su obiettivi altrimenti irraggiungibili, fare affari e stabilire nomine propedeutiche ad altre e ancora maggiori utilità. Per cambiare, di fatto, il corso naturale e democratico delle cose". Esiste davvero la "loggia Ungheria", di cui farebbero o avrebbero fatto parte membri del Consiglio superiore della magistratura, imprenditori, generali della Finanza e dei Carabinieri, politici di primissimo piano? Perché, quando un faccendiere plurindagato e ben introdotto in troppe procure ne svela l'esistenza durante una deposizione, quel verbale finisce in un cassetto per due anni? Ancora una volta, le rivelazioni sconvolgenti di Palamara e Sallusti smascherano un mondo parallelo dilaniato al suo interno da inconfessabili interessi, che agisce dietro le quinte, su binari di legalità formale, e si infiltra pericolosamente nelle crepe del sistema giudiziario.

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007 missione Renzi

Servizi e generali dietro le quinte del caso Consip
È possibile che il più esperto dei nostri agenti segreti, Marco Mancini, e il più scaltro dei nostri presidenti del Consiglio, Matteo Renzi, si facciano fregare come due polli da una non meglio precisata insegnante che casualmente si era trovata a parcheggiare nell’area di servizio dell’Autogrill di Fiano Romano, alle porte della capitale, dove i due si erano dati appuntamento per fare due chiacchiere lontano da occhi indiscreti, proprio nel pieno della crisi del governo Conte 2?
Non ci crede nessuno, comunque non io che di queste trappole ne ho viste tante.
È il 23 dicembre del 2020. Matteo Renzi e la sua pattuglia di parlamentari sono decisivi nel tentativo in atto di far cadere Giuseppe Conte e insediare a Palazzo Chigi Mario Draghi. Ma Renzi è anche sotto attacco delle procure che da oltre tre anni non mollano la presa su di lui, in particolare per la gestione della sua fondazione Open. Perché senta il bisogno di confrontarsi in un momento così delicato con uno 007 non lo sappiamo, né possiamo credere alla versione dell’ex premier di «un incontro casuale» in una piazzola così fuori mano.
I diretti interessati hanno detto di essersi visti per i consueti auguri natalizi. Io posso dire che non credo all’altra versione, quella di una insegnante passata di lì per caso che protetta dall’anonimato dirà in tv di essersi fermata perché il padre malato doveva andare in bagno e di essere stata folgorata dalla visione di Renzi. Al punto da filmarlo con il telefonino, da percepire a distanza le parole dell’uomo a lei sconosciuto che dice a Renzi: «Io sono a disposizione». E invece di postare il video sui suoi social come sarebbe stato più normale, del tipo «Ehi amici, guardate che figata mi è capitata stamattina, ero a pochi metri da Renzi», consegna il girato, cinque mesi dopo, per coincidenza a Report, la trasmissione di Rai3 specializzata in giornalismo di inchiesta. Che ovviamente lo manda in onda con grande rilievo ed enfasi.
Va bene, stabilito che le versioni ufficiali sono delle bufale, che cosa ci dice secondo lei questa storia?
Che una parte del mondo istituzionale legato ai servizi voleva far fuori Matteo Renzi.
È una vicenda che lei ha vissuto in prima persona, sul campo…
È una storia che io ho visto da vicino, che è stata preparata a tavolino, che è esplosa nel 2017 e che continua tuttora. Su questo penso abbia ragione Renzi quando dice di essere al centro di un complotto.
Chi di complotto ferisce…
Guardi, la questione non è stabilire da che parte stanno i buoni e da quale i cattivi, ognuno la pensi come vuole. Le dico che io in vita mia ne ho viste tante e non mi scandalizzo né formalizzo davanti a quasi nulla. Ma a una sparatoria come quella sul caso Renzi, glielo giuro, non ho mai assistito.
Sparatoria?
Mi passi l’immagine. Mi sembrava proprio di essere come quel tipo che dal balcone di casa assiste a una sparatoria, mette fuori il naso e vede proiettili che schizzano ovunque, solo che è difficile capire chi spara a chi. Poi capita che qualcuno dei partecipanti suoni alla porta per chiedere un bicchiere d’acqua, ti offre la sua versione di quello che sta succedendo e poi si ributta nella mischia.
Mi sa che a furia di mettere fuori la testa, dottor Palamara, una di quelle pallottole ha colpito anche lei. E forse non a caso, non era un proiettile vagante ma ben mirato.
Guardi, è un casino tale… Ho fatto fatica a capire io, si figuri come posso spiegarlo a lei. La verità è che da sette anni questo Paese è bloccato dalla guerra tra i renziani e gli antirenziani, qualche cosa di simile alla Guerra dei sette anni, che in una girandola di alleanze e tradimenti paralizzò l’Europa di metà Settecento. Winston Churchill la definì la vera Prima guerra mondiale.
Bella immagine, ma decisamente esagerata. Rimaniamo con i piedi per terra, per favore.
Guardi che è lei che sbaglia, se lo lasci dire da uno che questa guerra l’ha combattuta. In palio non c’erano le poltrone di Renzi, di Lotti o della Boschi, cose di cui l’Italia può fare tranquillamente a meno. La posta in gioco era la sopravvivenza dell’ultima cellula del comunismo europeo, che Renzi voleva, e in parte era riuscito, a rottamare. Proprio quando era a capo del partito erede del Pci.
Tesi interessante, ma questo non è un libro di fantapolitica, qui dobbiamo parlare solo di fatti.
Sono d’accordo. E i fatti dicono che Matteo Renzi prende il controllo del Pd nel dicembre del 2013 e lo mantiene fino al marzo del 2018, ed è primo ministro dal febbraio del 2014 al dicembre del 2016, caduto sul referendum costituzionale che si era intestato. Quando sbarca a Roma la prima cosa che capisce è che per governare, in generale ma in questo Paese in particolare, devi controllare o quantomeno avere persone di fiducia nei gangli del Sistema, per pararti dai colpi bassi. Così funziona.
La situazione che trova quindi non è quella ideale per lui.
Proprio no. Quindi inizia a muoversi. Gli obiettivi sono Carabinieri, Guardia di Finanza, servizi e magistratura. Riassumo in breve: per i Carabinieri punta su Tullio Del Sette, un generale che prima porterà al ministero della Difesa e poi, nel dicembre del 2014, al vertice dell’Arma. A casa sua, in Toscana, si blinda con la nomina del generale Emanuele Saltalamacchia, una sua vecchia conoscenza di quando era sindaco di Firenze, nominato comandante regionale. Discorso più complicato per quanto riguarda finanza e servizi.
Se riesce a semplificarlo…
Ci provo. Il comandante generale della Guardia di Finanza in quel momento è Saverio Capolupo, uomo potente e di grandi relazioni. La Guardia di Finanza, meglio ricordarlo, è strategica sotto molteplici punti di vista, anche perché rispetto alle altre forze di polizia è diventata protagonista di importanti e delicate indagini – soprattutto con alcuni suoi reparti speciali, ad esempio il Gruppo investigativo sulla criminalità organizzata, meglio conosciuto come Gico. L’incarico di Capolupo scade nel 2016 e lui conta su una proroga ma Renzi, commettendo con il senno di poi un errore fatale, prende un’altra strada e il 25 maggio 2016 insedia al vertice delle fiamme gialle Giorgio Toschi, preferito a Luciano Carta – a mio avviso, un altro errore –, il quale viene individuato come numero tre dei servizi segreti in uno stato d’animo, diciamo così, non proprio riconoscente nei confronti del premier.
Due errori in una mossa sola e due uomini potenti e non esattamente amici, Capolupo e Carta, in giro.
Esatto. In realtà Renzi avrebbe voluto come comandante della Finanza un suo caro amico, il generale Michele Adinolfi. Sarebbe stato un bingo, ma qui comincia l’intrigo, la Guerra dei sette anni, in parte raccontata – ovviamente nella versione dei renziani – nelle bozze di un libro mai stampato e ritrovato di recente dai magistrati nella sede della fondazione dell’ex premier, quella Open al centro di una contestata inchiesta. Il titolo provvisorio del libro, attribuito alla penna di Luca Di Bonaventura, ex portavoce del fedelissimo renziano Luca Lotti, sarebbe stato Poteri contro poteri. E sarebbe interessante leggere il testo integrale, non soltanto gli stralci anticipati da Giacomo Amadori sul quotidiano «La Verità».
Perché pensa che tutto parta dal caso Adinolfi?
Abbiamo detto: Renzi vuole affidare la sua sicurezza a Adinolfi, ma il vecchio sistema si mette di traverso e brucia il generale con una operazione perfetta coordinata tra magistrati e giornalisti amici.
Vediamola passo dopo passo questa operazione.
Fine del 2013. Renzi, già segretario del Pd, si appresta a prendere il posto di premier occupato da Enrico Letta. Alla procura di Napoli il pm Woodcock e il capitano dei Carabinieri Giampaolo Scafarto hanno in mano un’inchiesta, denominata Cpl Concordia, su tangenti per la metanizzazione dell’isola d’Ischia. Gli imputati, tra cui Giosi Ferrandino che trascorrerà oltre venti giorni a Poggioreale, saranno poi tutti assolti, ma la cosa che ci interessa in quel momento è un’altra. Nel corso delle intercettazioni – così diranno gli inquirenti – sentono parlare del generale Adinolfi come di un possibile corrotto, e tanto basta per mettere sotto controllo il suo telefono e registrare una lunga conversazione tra lui e Renzi nei primi giorni del 2014. Una telefonata molto amichevole dove i due si lasciano andare a giudizi anche sul premier ancora – per poco – in carica, Enrico Letta. Nulla accade fino all’anno successivo, quando Adinolfi sta scaldando i motori per prendere il posto di Capolupo. Succede però che quella telefonata con Renzi, che nulla aveva a che fare con l’inchiesta Cpl Concordia, viene pubblicata integrale sul «Fatto Quotidiano».
Ovvio che Adinolfi è bruciato, anche se poco dopo i pm di Napoli gli chiederanno scusa e non per la fuga di notizie ma perché si era trattato di uno scambio di persona. L’Adinolfi sospettato di corruzione non era lui ma un omonimo ufficiale dell’esercito.
È così, o meglio è così per chi ci crede. Io oggi voglio invece raccontarle una cosa che non è mai venuta fuori: come è stata organizzata la fuga di notizie. Ce lo racconta, sia pure indirettamente, in prima commissione del Csm, dove siedo anche io, il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, superiore di Woodcock, che era stato chiamato per dare spiegazioni di questo incidente.
E che dice Borrelli?
Spiega che aveva avuto una discussione con Woodcock perché questi, trasferito alla Direzione distrettuale antimafia, voleva tenersi comunque stretti alcuni fascicoli, tra i quali appunto quello Cpl Concordia. La spuntò Woodcock e Borrelli racconta che, poco prima di depositare gli atti di quell’inchiesta, i collaboratori di Woodcock Giampaolo Scafarto e Sergio De Caprio, più noto come capitano Ultimo – l’uomo che arrestò Totò Riina –, aggiunsero a pagina 470 del fascicolo la telefonata tra Adinolfi e Renzi.
Che nulla aveva a che fare con l’inchiesta in questione.
Lo abbiamo detto, proprio nulla. Si è trattato di un espediente per fare uscire dalla procura in modo formalmente legale quel testo e metterlo a disposizione degli avvocati delle parti in causa. Successivi accertamenti stabiliranno che quelle pagine sono state copiate con una chiavetta usb dal computer dell’ufficio della Camera penale. Nessun reato quindi, ma obiettivo raggiunto. Il giorno dopo il testo della telefonata che farà saltare Adinolfi e che lascerà Renzi scoperto sul lato Finanza-servizi sarà pubblicato integrale sul «Fatto Quotidiano». E così il gioco è fatto: si lascia pensare che la notizia sia oramai nella disponibilità di molte persone, ma in realtà l’interesse alla sua diffusione riguardava pochi e non molti.
Era il segnale: il vecchio sistema aveva dichiarato guerra a Renzi.
E di lì in poi inizia la sparatoria a cui accennavo all’inizio. In un incalzare di eventi e trappole. Nel 2017 cadono uno dopo l’altro, sempre per mano della procura di Napoli e del duo Scafarto-De Caprio, tutti gli uomini del cerchio renziano: il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Del Sette, il comandante dei Carabinieri della Toscana Saltalamacchia e il braccio destro di Renzi Luca Lotti, tutti e tre indagati per violazione del segreto istruttorio, e quindi azzoppati.
Ma nel 2017 Renzi non è più premier.
Già, lascia nel dicembre del 2016, ma è ancora potente perché ha il controllo dei gruppi parlamentari del Pd. È vero, ha sbagliato e ha perso il referendum da lui indetto sulla riforma costituzionale, però lo ha perso raccogliendo una montagna di voti. Insomma, fa ancora paura alla vecchia nomenclatura Pd che non vede l’ora, come disse Bersani, di «riprendere in mano la ditta».
La sua è una versione filorenziana dei fatti.
Io non entro nel merito delle questioni politiche, e non mi interessa se Renzi fosse bravo o cattivo. Io le sto raccontando come funzionano le guerre di potere. E se vuole vado avanti.
Non era un’offesa. Prego, vada avanti.
Le parlo di me. Come ormai noto, io in quel periodo ero al centro del sistema delle correnti e stavo spostando l’asse delle nomine. In pratica, lavoravo per tagliare fuori la vecchia sinistra giudiziaria dalle decisioni più importanti.
A suo modo un rottamatore, sulla scia di Renzi e non a caso con la consulenza di Luca Lotti.
Sintesi un po’ semplicistica, ma ci sta. Ecco, non è un caso che proprio nell’anno dell’offensiva anti-Renzi, quel 2017 di cui abbiamo appena parlato, anche io ricevo la mia pallottola: a dicembre il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, mi farà la confidenza fatale: «Scusa Luca, non dovrei dirtelo, ma mi è arrivata un’informativa su di te».
Avviso di sfratto, ma la sparatoria non si ferma lì, a quanto risulta.
Già, per arrivare al colpo di grazia una manina sposta De Caprio e il suo gruppo dal Noe dei Carabinieri al cuore dei servizi segreti. Nel maggio del 2016 i due nemici di Renzi approdano all’Aise, l’agenzia degli 007 impegnata sugli affari esteri, in quel momento sotto la gestione Manenti, e questo improvviso trasferimento suscita grandi perplessità nell’entourage renziano che non riesce a comprendere perché stiano avvenendo tali spostamenti.
Difficile seguire un intreccio del genere. Ma chi sarebbe il regista?
Secondo i renziani è Marco Minniti, a...

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