Bomba atomica
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Bomba atomica

La storia vera e incredibile dell'ordigno più potente del mondo

Roberto Mercadini

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Bomba atomica

La storia vera e incredibile dell'ordigno più potente del mondo

Roberto Mercadini

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Che senso ha raccontare la storia della bomba atomica? Nessuno, in apparenza. Perché tutti sappiamo già come va a finire. Il mattino del 6 agosto 1945, la bomba viene sganciata sulla città di Hiroshima. E fa circa centosessantaseimila vittime. Eppure, c'è un eppure. Perché questa è una storia diversa da tutte le altre. La sorpresa non sta nel finale, ma nei singoli passaggi. Un presidente che sale al potere nel momento sbagliato. Una rete di falsi sospetti e informazioni top secret. Un gruppo di eccentrici fisici convinti che i marziani siano qui tra noi, e che in nome della scienza non ci siano limiti che non si possano superare. E ancora: Nobel consegnati per errore, città create dal nulla, improvvise sostituzioni e rovesciamenti di sorte. Se dietro ogni grande disastro si nasconde una serie di casualità e di errori - più o meno piccoli, più o meno umani -, allora l'esplosione di Fat Man e Little Boy è senza dubbio la più grande catastrofe della Storia, "una catena di fatti eccezionali, imprevedibili e paradossali inanellati in modo impeccabile". Prendendo spunto da uno dei suoi monologhi più riusciti, Roberto Mercadini ci racconta protagonisti e retroscena di quell'evento devastante, e ci ricorda, in un mondo ossessionato dalla velocità e dal progresso, l'importanza della riflessione e della lentezza.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2020
ISBN
9788831800952
PARTE TERZA

Eclisse

1

I marziani e Mister Spaghetti

L’espressione “bomba atomica” compare per la prima volta in un romanzo di fantascienza del 1913. Ben trentadue anni prima che la prima bomba atomica fosse effettivamente realizzata. Il titolo del romanzo è Il mondo liberato e a scriverlo è stato Herbert George Wells, lo stesso autore de La guerra dei mondi.
La bomba descritta nel libro si basa su un nuovo elemento chimico chiamato “carolinum”, capace di sprigionare onde radioattive micidiali per un tempo indefinito.
Lo scrittore, ovviamente, tralascia qualsiasi dettaglio tecnico sul funzionamento del congegno. E il carolinum, altrettanto ovviamente, non esiste. Ma, col senno di poi, la capacità profetica dell’invenzione letteraria fa venire i brividi. Nel romanzo si legge: “E quelle bombe atomiche che la scienza sganciò sul mondo quella notte erano misteriose anche per gli uomini che le usarono”.
Può darsi che Wells oggi sia considerato semplicemente uno scrittore di genere, un minore; ma in vita era ritenuto una penna di prima grandezza: per ben quattro volte venne candidato al premio Nobel.
Ebbene, fra i tanti lettori di Wells c’è un tizio basso, corpulento, con i capelli folti e ricciuti portati all’indietro, che passeggia pensoso per le strade di Londra in una grigia mattina del settembre 1933. Il tizio arriva a un semaforo. Rosso. Si ferma, e intanto continua a pensare. Pensa alle auto, che devono fermarsi anche loro. Se un’auto frenasse di colpo, quella che la segue potrebbe tamponarla, ed essere a sua volta tamponata dalla macchina seguente, e così via. Pensa alle tessere del domino in fila, che si abbattono l’una sull’altra in successione; pensa ai cani che si svegliano di notte e si mettono ad abbaiare, svegliando altri cani e facendoli abbaiare e svegliare cani e così via; pensa alle valanghe che più scendono a valle e più crescono, più crescono e più veloci continuano a scendere. Poi pensa al libro di Wells, quello della bomba atomica al carolinum. E un lampo di terrore si impossessa di lui.
Il tizio si chiama Leó Szilárd, ed è un fisico teorico ungherese di origine ebraica che si trova a Londra per fuggire dai nazisti. È una persona alquanto stravagante e lo sa. Vive in albergo, con le valige fatte; pronto a ripartire da un momento all’altro. Non si sente a casa in nessun luogo. Darà a sé e agli altri fisici ungheresi che conoscerà all’estero un nomignolo: “i marziani”. Il nomignolo farà il giro del mondo, anche Fermi userà spesso questa battuta: «Gli extraterrestri? Ma sono già fra noi, solo che si fanno chiamare ungheresi!».
Szilárd e Fermi un giorno si incontreranno. Ma non corriamo.
Torniamo all’incrocio di Londra. Il semaforo è ancora rosso. E Szilárd infine pensa: supponiamo che esista un elemento chimico il cui atomo, in certe condizioni, sprigioni energia ed emetta un neutrone. Supponiamo che tale neutrone colpisca un altro atomo dello stesso elemento e lo induca (in un modo non meglio precisato) a sprigionare energia ed emettere un neutrone a sua volta, e che quest’altro neutrone colpisca un terzo atomo, e così di seguito. Si svilupperebbe una “reazione a catena” (l’espressione è stata coniata proprio da Szilárd). E, disponendo di una sufficiente quantità di tale elemento, la reazione a catena potrebbe sviluppare un’energia addirittura inimmaginabile. In questo modo la bomba atomica, l’arma più potente mai creata, uscirebbe dalle pagine di un libro ed entrerebbe nel mondo, pronta a distruggerlo.
Certo, c’è un dettaglio di non poco conto: il fatto che di questo processo, al momento, manchi qualsiasi dettaglio. Diciamo che non siamo più soltanto nella fantascienza, ma non siamo neppure a un grado di chiarezza degno della scienza vera e propria. Siamo un po’ a metà strada.
Per allontanarsi dalla fantasia e procedere in direzione della scienza strettamente intesa, Szilárd conduce alcuni esperimenti nel tentativo di individuare un elemento chimico adatto a sviluppare la reazione a catena. Prova con il berillio. Niente da fare. Poi con l’indio. Neanche l’indio va bene. Poi, per qualche anno, accantona l’idea.
Ma quando, nel 1939, viene a sapere della scissione dell’uranio, l’ultimo tassello del puzzle trova il suo posto. Scissione dell’uranio + energia sprigionata + reazione a catena. Dunque è possibile davvero creare la bomba atomica!
Szilárd, che ne frattempo si è trasferito a New York, si affretta a contattare Fermi per spiegargli tutto. E Fermi, ovviamente, capisce ogni cosa.
Cominciano immediatamente a lavorare insieme. Fermi l’eternamente impassibile e Szilárd l’iperemotivo; l’uno metodico come una macchina, e l’altro sempre pronto a distrarsi, a cambiare argomento, a saltare da una disciplina a un’altra. Se non fosse per la scissione nucleare, è assolutamente improbabile che si sarebbero messi a collaborare. È stata la divisione a unirli, potremmo dire: contraria sunt complementa.
I due hanno un ultimissimo dato da verificare. Cosa succede, esattamente, quando avviene la scissione di un atomo d’uranio? Sappiamo già che esso si divide in due atomi più piccoli, solitamente uno di bario e uno di kripton. E poi? L’atomo scisso sprigiona energia, tantissima energia. E poi? Dal nucleo schizzano via dei neutroni, solitamente due. Significa che ognuno dei due può scindere un altro atomo di uranio, che farà schizzare via altri due neutroni, che scinderanno altri due atomi di uranio e così via. Le scissioni aumentano in modo esponenziale: una reazione a catena.
Dunque è possibile. La bomba atomica può uscire dal libro di Wells ed entrare nel mondo. Ora, Szilárd il marziano si vanta di possedere una sorta di preveggenza, specie per le questioni politiche. Aveva previsto (così dice lui) la Prima guerra mondiale con largo anticipo. E, quando il Partito nazista era ancora agli esordi, ha predetto che un giorno avrebbe controllato l’Europa. In questo caso, la profezia è che Hitler tenterà di entrare in possesso della bomba atomica. La cosa spaventosa, però, è che la scissione dell’atomo è stata per la prima volta prodotta e compresa proprio in Germania. Per cui i tedeschi, in teoria, sono già in vantaggio.
Szilárd incalza Fermi. Non c’è tempo da perdere! Bisogna avvisare il presidente Roosevelt! Bisogna convincerlo a finanziare un programma scientifico per realizzare la bomba prima di Hitler! E lui, Fermi, è di certo la persona più adatta a convincere le autorità: è il più recente vincitore del premio Nobel per la Fisica e ha una capacità impareggiabile di spiegare in modo chiaro anche i concetti più ardui.
Così, il 17 marzo del 1939, Enrico Fermi si reca a Washington per riferire tutto alla Marina americana. Arriva nel quartier generale e, giunto all’ingresso, si presenta spiegando di avere un appuntamento con l’ammiraglio Stanford Hooper. Un solerte impiegato lo conduce fino alla sala riunioni, gli chiede di attendere fuori un attimo, si affaccia sull’uscio della sala e annuncia Fermi con queste solenni parole: «Qua fuori c’è uno spaghetti».
Proprio così: “Qua fuori c’è uno spaghetti”. Non un premio Nobel, non un fisico, non uno scienziato: uno spaghetti.
Hooper fa cenno di farlo passare e Mister Spaghetti entra nella sala riunioni. Saluta, si siede, comincia a parlare del terribile pericolo di una bomba atomica. L’ammiraglio e la sua squadra, però, non lo prendono sul serio. Forse perché lo scienziato non è stato presentato loro in modo particolarmente ossequioso, ma forse anche perché Mister Spaghetti, olimpicamente sereno, eternamente impassibile, parla della possibile catastrofe nucleare senza agitarsi, senza scomporsi, senza fremiti. Siccome è cauto e rigoroso, è refrattario a fare affermazioni avventate; tende a sminuire i rischi piuttosto che a evidenziarli. Così nessuno sente puzza di pericolo, nessuno vede mostri all’orizzonte. Sarei pronto a scommettere che Hooper e i suoi si sono persino annoiati, nell’ora scarsa in cui Fermi ha tenuto la sua relazione, un po’ come i commissari nel giorno della sua laurea a Pisa.
L’incontro, dunque, è un buco nell’acqua. Fermi, in teoria, era la persona migliore da inviare, ma le cose non sono mai semplici come sembrano “in teoria”. In questo caso si è rivelato la scelta peggiore, l’ultimo che avrebbe potuto mettere in allarme gli uomini della Marina. E, per inciso, non è detto che aver fatto la scelta peggiore sia stato poi un male.
D’altra parte l’errore di valutazione dei militari è ancora più clamoroso. Ma come fargliene un torto? È davvero difficile immaginare cosa accadrà nel futuro. A volte gli eventi sembrano seguire traiettorie talmente contorte e stravaganti da risultare, di fatto, imprevedibili. Un po’ come accade per le particelle elementari. Per dirla con Wittgenstein: “Ogni volta che pensiamo al futuro del mondo intendiamo il luogo in cui esso sarà se continua a procedere come ora lo vediamo procedere, e non pensiamo che esso non procede seguendo una linea retta, ma una linea curva, e che la direzione cambia costantemente”.
2

Una calma inquietante

All’arrivo dell’estate del 1939 il mondo sta galoppando spedito verso la Seconda guerra mondiale. Non è necessario essere un veggente (né tantomeno essere Leó Szilárd) per capire che il conflitto scoppierà presto. A chiunque legga i giornali o ascolti la radio appare fin troppo chiaro che il futuro sarà molto cupo.
È già la fine di luglio quando Werner Heisenberg, l’uomo per cui ci sono domande che non avranno mai una risposta, arriva negli Stati Uniti, ad Ann Arbor, in Michigan. Per quale motivo? L’ennesimo simposio fra fisici. È ancora il tempo in cui le scoperte scientifiche si condividono nelle tavole rotonde, nei seminari, nelle conferenze, nei congressi. È ancora il tempo in cui i fisici si sentono parte di un’unica comunità. Ma chiunque sa che quel tempo è al tramonto.
In quella fine di luglio, nell’intensa luce giallo-arancio del mondo che tramonta, ad Ann Arbor Heisenberg rivede un vecchio amico: Enrico Fermi. Si mettono a parlare. Sono uno di fronte all’altro. Fermi e Heisenberg sono estremamente simili, ma, allo stesso tempo, sono l’uno l’opposto dell’altro. Come un’immagine e il suo riflesso specchiato. Come una particella e la sua antiparticella. Perfettamente coetanei, entrambi estremamente precoci, entrambi vincitori di un premio Nobel. Fermi che arriva sempre prima del primo, Heisenberg che sembra sfrecciare controvento anche quando sta fermo.
La grossa differenza fra loro è che Fermi ha abbandonato l’Italia per sfuggire al fascismo, invece Heisenberg è deciso a tornare in Germania, nonostante il nazismo. È nazista? No. Anzi, ha avuto grosse grane dai nazisti. Qualche anno prima un fisico filonazista, Johannes Stark (anche lui premio Nobel: in questo racconto i premi Nobel sono creature comunissime, un po’ come gli elfi nelle saghe fantasy) lo ha accusato di essere connivente con gli ebrei perché è amico di Einstein. Mentre una rivista delle SS, la «Das Schwarze Korps» (Il corpo nero), lo ha definito addirittura “ebreo bianco”. D’altra parte, si potrebbe commentare, se Hitler è biondo (come lui stesso sembra credere), il biondissimo Heisenberg può tranquillamente essere ebreo.
Nonostante questo, Heisenberg ama la sua patria e non vuole abbandonarla. Pensa che la Germania abbia bisogno di lui, ora più che mai. E che, tramite la sua autorità di scienziato, potrà riuscire a guidare il governo in una direzione più razionale. L’amore per il proprio Paese: bellissimo sentimento. La fiducia nel genere umano: bellissimo sentimento anche questo. Certo è un merito saper nutrire sentimenti simili. Solo che questi sono tempi molto, molto bizzarri. Tempi in cui i meriti diventano facilmente colpe, e le colpe facilmente meriti.
Insomma, Fermi tenta di convincere Heisenberg a restare in America. Heisenberg ripete le sue ragioni: si sentirebbe un traditore ad abbandonare la Germania proprio adesso.
Fermi, allora, tira in ballo la bomba atomica, di cui sono entrambi informati: se in Germania partisse un progetto per creare un’arma nucleare sfruttando la scissione dell’uranio, Heisenberg non potrebbe di certo sottrarsi. Intende restare al servizio di Hitler e fornirgli un ordigno così devastante?
Heisenberg risponde che, in tempi brevi, la costruzione di un’arma simile è assolutamente improbabile.
Fermi chiede al suo riflesso se Hitler possa vincere la guerra.
Il riflesso gli risponde che la ritiene un’altra eventualità molto remota.
La particella non riesce a comprendere: come è possibile pensare di tornare in Germania?
Per l’antiparticella il patriottismo è più importante di qualsiasi altro fattore.
Enrico desiste. «Mi dispiace. Speriamo di rivederci a guerra finita» dice all’amico, e intanto nel suo cuore scende una notte spaventosa. Di solito è pacato, freddo, razionale, ma ora la situazione è tale che conservare troppa calma sarebbe segno di cecità o di follia.
È chiaro come il sole che la guerra scoppierà. È ovvio che Hitler tenterà di costruire una bomba atomica arruolando i suoi migliori scienziati. È scontato che fra questi scienziati ci sarà anche Werner Heisenberg. È evidente che Heisenberg non potrà sottrarsi alla richiesta di Hitler. Ed è certo, infine, che se è umanamente possibile realizzare la bomba atomica, il genio che risponde al nome di Werner Heisenberg sarà in grado di realizzarla.
Anche se Heisenberg gli ha detto che ritiene la costruzione della bomba improbabile, Fermi si convince che non c’è tempo da perdere: occorre avviare al più presto un programma americano per la costruzione dell’arma nucleare. È successo un po’ come quando qualcuno ci dice di non preoccuparci, e così ci mette in ansia. Dev’essere accaduto questo, fra un uomo e il suo identico rovescio, al tramonto di un mondo.
Adesso i ruoli si sono quasi rovesciati: è Fermi a incalzare Szilárd. E Szilárd dà fondo alle sue conoscenze. Per prima cosa, contatta altri due marziani, ungheresi immigrati in America: Eugene Wigner (futuro premio Nobel per la Fisica) e Edward Teller (futuro padre della bomba H). Salgono tutti e tre in macchina e viaggiano fino alla penisola di North Fork, Long Island, in direzione di una casetta sperduta nella campagna.
Lì vive un terrestre, vecchio amico di Szilárd: Albert Einstein. I due si conoscono da tempo. Si dà il caso, infatti, che dal 1926 al 1934 abbiano lavorato gomito a gomito al progetto di un nuovo tipo di frigorifero (mai entrato in produzione). Bene, ora che Szilárd, facendo sfoggio della sua invidiabile versatilità mentale, è passato dai frigoriferi alle bombe atomiche, racconta ad Einstein dell’uranio, della reazione a catena, della creazione di una bomba atomica da parte di Hitler.
Il terrestre si convince: i marziani hanno assolutamen...

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