Contro l'interpretazione
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Contro l'interpretazione

e altri saggi

Susan Sontag, Paolo Dilonardo

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Contro l'interpretazione

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Susan Sontag, Paolo Dilonardo

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Un limpido talento critico, una capacità fuori dal comune di orientarsi nell'universo contemporaneo di segni e linguaggi plurali: con sguardo allenato da continue combinazioni tra passioni profonde e interessi eclettici, Susan Sontag traccia un'originalissima, radicale rotta attraverso la teoria, la letteratura, il cinema, il teatro e le arti degli anni sessanta del '900. Prima dell'"età del nichilismo", Sontag scrive gli articoli riuniti nel 1966 in Contro l'interpretazione, il suo libro d'esordio come saggista: "un atto di liberazione intellettuale" che la fa in breve diventare una figura di riferimento dello scenario contemporaneo, delle sue rivelazioni, trasgressioni, sperimentazioni, illusioni, della sua opposizione alle gerarchie (alto/basso) e alle polarità (forma/contenuto, intelletto/sentimento). Che scriva dello "stile" come centro di gravità dell'espressione artistica o disegni una mappa dettagliata e ormai classica delle forme della sensibilità "Camp", che parli degli happening in cui l'azione evade dai teatri o si sposti dal diario di Pavese ai Taccuini di Camus, dalla libertà di Genet alla coscienza disgustata di Sartre, il filo delle parole di Susan Sontag non perde il suo obiettivo: evitare che il vaso di Pandora dell'interpretazione-superfetazione si rovesci sull'esperienza dell'opera d'arte, deformandola e saturandola di "significati" a proprio uso e consumo.

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Parte IV

Lo stile spirituale dei film di Robert Bresson

1

Se un certo tipo di arte mira direttamente a suscitare emozioni, un altro si rivolge alle emozioni attraverso la strada dell’intelligenza. C’è un’arte che coinvolge, che crea empatia. C’è un’arte che distanzia, che induce alla riflessione.
La grande arte riflessiva non è algida. Può entusiasmare lo spettatore, offrirgli immagini che lo sconcertano, farlo piangere. Ma la sua forza emotiva è mediata. La spinta verso il coinvolgimento emotivo è controbilanciata da elementi dell’opera che favoriscono il distacco, l’impassibilità, l’imparzialità. Il coinvolgimento emotivo è sempre, in maggiore o minor misura, posticipato.
È possibile spiegare questo contrasto in termini di tecniche o di mezzi espressivi – e perfino di idee. Non c’è dubbio, però, che la sensibilità dell’artista risulta, in ultima analisi, decisiva. Quando parla di “effetto di straniamento”, Brecht propugna un’arte riflessiva, un’arte distaccata. Gli scopi didattici che rivendica per il suo teatro sono, in realtà, il mezzo attraverso cui si esprime il temperamento imperturbabile che ha creato quelle opere.

2

Nel cinema, il maestro del procedimento riflessivo è Robert Bresson.
Benché sia nato nel 1901, la sua produzione cinematografica giunta fino a noi è stata realizzata negli ultimi vent’anni e consiste di sei lungometraggi. (Nel 1934 girò un cortometraggio intitolato Les Affaires publiques, a quanto pare una commedia nello stile di René Clair, le cui copie sono andate tutte perdute; intorno alla metà degli anni ’30 collaborò alla sceneggiatura di due oscuri film commerciali; e nel 1940 fu aiuto regista di Clair per un film mai portato a termine). Cominciò a lavorare al suo primo lungometraggio nel 1941, quando, tornato a Parigi dopo aver trascorso diciotto mesi in un campo di prigionia tedesco, conobbe padre Bruckberger, frate domenicano e scrittore, che gli propose di collaborare a un film sulle domenicane di Betania, una congregazione francese dedita all’assistenza e al recupero delle ex detenute. I due scrissero la sceneggiatura, i dialoghi furono affidati a Jean Giraudoux, e il film – inizialmente intitolato Béthanie, e poi, su insistenza dei produttori, Les Anges du péché [La conversa di Belfort] – uscì nel 1943. Fu accolto con entusiasmo dai critici e ottenne anche un certo successo di pubblico.
Il soggetto del suo secondo film, girato nel 1944 e distribuito nel 1945, è una versione moderna di una delle narrazioni interpolate nel grande antiromanzo di Diderot, Jacques il fatalista; Bresson ne scrisse la sceneggiatura e Jean Cocteau i dialoghi, ma non ebbe il successo del primo film. Les Dames du Bois de Boulogne [Perfidia] fu stroncato dalla critica e fu un fiasco anche al botteghino.
Il terzo film, Le Journal d’un curé de campagne [Il diario di un curato di campagna], è uscito soltanto nel 1951; il quarto, Un Condamné à Mort s’est échappé [Un condannato a morte è fuggito], nel 1956; il quinto, Pickpocket [Diario di un ladro], nel 1959; e il sesto, Procès de Jeanne d’Arc [Processo a Giovanna d’Arco], nel 1962. Hanno tutti ottenuto un discreto successo di critica, ma non di pubblico – tranne l’ultimo, bocciato anche dalla maggior parte dei recensori. Un tempo salutato come la nuova speranza del cinema francese, Bresson è oggi invariabilmente etichettato come un regista esoterico. Non ha mai attirato l’attenzione del pubblico dei cinema d’essai che accorre a vedere Buñuel, Bergman o Fellini – benché sia un regista molto più grande di loro; perfino Antonioni, al suo confronto, ha quasi un pubblico di massa. E, al di là di una ristretta cerchia, ha ricevuto scarsissima attenzione da parte della critica.
C’è una ragione per cui Bresson non è, in genere, apprezzato come meriterebbe: i suoi film, soprattutto in Inghilterra e in America, sono spesso definiti freddi, compassati, intellettualistici, geometrici. Ma definire “fredda” un’opera d’arte non vuol dire altro che paragonarla (spesso inconsapevolmente) a opere considerate “calde”. E non tutta l’arte è – o potrebbe essere – calda, così come non tutti gli individui hanno lo stesso temperamento. Nell’arte, però, la varietà temperamentale è generalmente giudicata con criteri provinciali. Certo, Bresson è freddo rispetto a Pabst o a Fellini. (Come lo è Vivaldi rispetto a Brahms, o Keaton rispetto a Chaplin). È necessario, tuttavia, comprendere l’estetica – vale a dire, scoprire la bellezza – di tale freddezza. E per tentarne un abbozzo, l’esempio offerto da Bresson è particolarmente utile proprio in virtù della sua varietà. Esplorando le possibilità di un’arte riflessiva, contrapposta a un’arte di emozioni non mediate, Bresson è infatti passato dalla perfezione diagrammatica di Les Dames du Bois de Boulogne al calore quasi lirico, quasi “umanistico” di Un Condamné à mort s’est échappé. E nel suo ultimo film, Procès de Jeanne d’Arc, ci ha mostrato – e anche questo è istruttivo – come un’arte di questo tipo possa diventare troppo rarefatta.

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Nell’arte riflessiva l’accento è posto sulla forma dell’opera.
La consapevolezza della forma diluisce o ritarda le emozioni dello spettatore. Nella misura in cui siamo consapevoli della forma di un’opera d’arte, infatti, acquisiamo un certo distacco; le nostre reazioni emotive non hanno nulla a che fare con quelle suscitate dalla vita reale. La consapevolezza della forma produce due effetti simultanei: ci offre un piacere sensoriale indipendente dal “contenuto”, e ci invita a fare uso dell’intelligenza. La riflessione a cui siamo indotti può essere di un livello molto elementare come, per esempio, quella ispirata dalla particolare forma narrativa (l’intreccio di quattro vicende diverse) di Intolerance di Griffith. Ma resta pur sempre una riflessione.
Il tipico modo in cui, in un’opera d’arte, la “forma” plasma il “contenuto” è quello del raddoppiamento, della duplicazione. La simmetria e la ripetizione di motivi nella pittura, la trama doppia del teatro elisabettiano, gli schemi rimici della poesia sono alcuni degli esempi più lampanti.
L’evoluzione delle forme artistiche è, almeno in parte, indipendente dall’evoluzione dei contenuti. (La storia delle forme è dialettica. Così come certi tipi di sensibilità diventano banali, noiosi, e sono spodestati dai loro opposti, le forme artistiche periodicamente si esauriscono. Diventano scontate, poco stimolanti, e vengono sostituite da forme nuove che sono, al tempo stesso, anti-forme). Talvolta gli effetti più belli si ottengono quando contenuto e forma sono posti in contrasto. Brecht lo fa spesso: racchiude un tema caldo all’interno di una cornice fredda. Altre volte ad appagarci è la perfetta adeguatezza della forma alla tematica, come nel caso di Bresson, che è un regista non solo molto più grande, ma anche più interessante, di Buñuel (per fare solo un esempio), proprio perché ha elaborato una forma che esprime e asseconda alla perfezione ciò che vuole dire. Anzi, è ciò che vuole dire.
Occorre, però, distinguere attentamente tra forma e maniera. Se Welles, il primo René Clair, Sternberg e Ophüls sono esempi di registi caratterizzati da un’inconfondibile inventività stilistica, tuttavia non hanno mai creato una forma narrativa rigorosa come, al pari di Ozu, ha fatto Bresson. E la forma dei suoi film (come quella dei film di Ozu) è concepita in modo tale da disciplinare le emozioni nel momento stesso in cui le suscita, e indurre nello spettatore una certa tranquillità, quella condizione di equilibrio spirituale che è esattamente il tema del suo cinema.
L’arte riflessiva è un’arte che, di fatto, impone al pubblico una certa disciplina – posticipando ogni facile gratificazione. Perfino la noia può essere un mezzo accettabile per imporla. Un altro è l’accentuazione dell’artificiosità di un’opera d’arte. Si pensi, per esempio, alla concezione brechtiana del teatro: Brecht propugnava strategie registiche – l’utilizzazione di un narratore, la presenza in scena di musicisti, l’interposizione di scene filmate – e tecniche recitative per distanziare il pubblico ed evitare che fosse “coinvolto” acriticamente dalle vicende e dalla sorte dei personaggi. Anche Bresson mira a creare una distanza. Ma il suo scopo, mi pare, non è quello di raffreddare il calore delle emozioni, affinché prevalga l’intelligenza. Il distacco emotivo caratteristico dei suoi film sembra rispondere a una ragione del tutto diversa: per Bresson ogni identificazione con i personaggi è, a ben riflettere, un’insolenza, un affronto al mistero del cuore, e dell’agire, umano.
Ma – a prescindere da qualsiasi esigenza di distacco intellettuale o di rispetto per il mistero dei comportamenti umani – Brecht di certo sapeva, come deve saperlo Bresson, che tale distanziamento è fonte di grande forza emotiva. Il difetto del teatro e del cinema naturalistici sta proprio nel fatto che, concedendosi con troppa immediatezza, consumano ed esauriscono facilmente i propri effetti. In ultima analisi, la fonte maggiore di forza emotiva di cui un’opera d’arte dispone non è il suo specifico contenuto, per quanto appassionante o universale possa essere. È la forma. Il distanziamento e il rallentamento delle emozioni, ottenuti attraverso la consapevolezza della forma, finiscono per rendere le emozioni molto più forti e intense.

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A dispetto dell’antico cliché critico che considera il cinema un mezzo d’espressione essenzialmente visivo, e nonostante il fatto che, prima di diventare cineasta, Bresson si sia dedicato alla pittura, la forma per lui non è principalmente visiva. È, soprattutto, una peculiare modalità di narrazione. Per Bresson il cinema è un’esperienza narrativa, non plastica.
La forma del suo cinema accoglie alla perfezione gli auspici formulati da Alexandre Astruc in un celebre saggio, “La Caméra-stylo”, pubblicato alla fine degli anni ’40. Secondo Astruc, il cinema ideale è destinato a diventare un linguaggio:
Un linguaggio, cioè una forma nella quale e per mezzo della quale un artista può esprimere il proprio pensiero, per quanto astratto, o tradurre le proprie ossessioni, esattamente come avviene oggi per il saggio e il romanzo. […] Il cinema si sottrarrà gradualmente alla tirannia del visivo, dell’immagine per l’immagine, dell’aneddoto immediato, del concreto, per diventare uno strumento di scrittura altrettanto plastico e sottile quanto quello del linguaggio scritto. […] Quel che oggi ci interessa nel cinema è la creazione di questo linguaggio.
Il cinema-come-linguaggio implica una rottura con il tradizionale metodo teatrale e visivo di narrare una storia in un film. Nell’opera di Bresson, la creazione di un linguaggio per il cinema comporta un forte risalto della parola. Nei primi due film, in cui l’azione è ancora relativamente teatrale e la trama racconta le vicende di un gruppo di personaggi11, il linguaggio (nel senso letterale del termine) appare in forma di dialogo. E tale dialogo attira decisamente l’attenzione su se stesso. È molto teatrale, conciso, aforistico, ponderato, letterario. È l’opposto del dialogo apparentemente improvvisato, prediletto dai nuovi registi francesi – compreso il Godard di Vivre sa vie [Questa è la mia vita] e Une Femme mariée [Una donna sposata], i film più bressoniani della Nouvelle Vague.
Ma negli ultimi quattro film, in cui l’azione si contrae e non concerne più ciò che accade a un gruppo, bensì il destino di un io solitario, il dialogo è spesso sostituito dalla narrazione in prima persona. Se a volte questa narrazione è giustificata dalla necessità di creare raccordi tra le scene, più spesso, e in modo ancor più interessante, non ci dice nulla che non sappiamo già o che non siamo in procinto di scoprire. La narrazione “duplica” l’azione. In questi casi, le parole di solito precedono la scena. In Pickpocket, per esempio, prima vediamo il protagonista che scrive (e sentiamo la sua voce che legge) le proprie memorie e, in seguito, l’avvenimento che ci ha brevemente descritto.
Altre volte, invece, l’azione precede la spiegazione, la descrizione di ciò che è appena accaduto. In Le Journal d’un curé de campagne, per esempio, c’è una scena in cui l’ansioso protagonista fa visita al curato di Torcy. Vediamo il prete che spinge la bicicletta fino alla porta del curato, poi la domestica che apre la porta (il curato evidentemente non è in casa, ma non udiamo le parole della domestica), quindi la porta che si chiude e il prete che vi si appoggia. A quel punto sentiamo: “Ero talmente deluso. Dovetti appoggiarmi alla porta”. Un altro esempio: in Un Condamné à mort s’est échappé vediamo Fontaine che, dopo aver lacerato la federa del cuscino, ne attorciglia un lembo attorno al filo di ferro che ha strappato dalla rete del letto. Poi udiamo la sua voce: “La attorcigliai con forza”.
L’effetto di questa narrazione “superflua” è quello di punteggiare la scena con degli intervalli e di tenere a freno la diretta partecipazione immaginativa dello spettatore all’azione. Che si passi dal commento alla scena o dalla scena al commento, il risultato è lo stesso: tali duplicazioni arrestano e, al tempo stesso, intensificano l’abituale sequenza emotiva.
Va notato, peraltro, che nel primo tipo di duplicazione – in cui udiamo ciò che sta per accadere prima di vederlo – c’è un intenzionale ripudio di una delle tecniche tradizionali del coinvolgimento narrativo: la suspense. Viene da pensare, ancora una volta, a Brecht. Per eliminare la suspense, all’inizio di una scena Brecht annuncia, tramite un cartello o un narratore, ciò che sta per accadere. (Godard adotta questa tecnica in Vivre sa vie). Bresson fa la stessa cosa, anteponendo la narrazione all’azione. Sotto molti aspetti, il soggetto perfetto per Bresson è quello del suo film più recente, Procès de Jeanne d’Arc – poiché la sua trama è del tutto nota, predeterminata; anziché inventate, le parole che gli attori pronunciano sono tratte dai verbali del processo realmente subito da Giovanna d’Arco. Idealmente, in un film di Bresson non c’è alcuna suspense. E nel suo unico film in cui dovrebbe, in teoria, svolgere una funzione importante, Un Condamné à mort s’est échappé, il titolo intenzionalmente – e perfino con una certa goffaggine – svela il finale: sappiamo che Fontaine ce la farà12. Da questo punto di vista, il “film di fuga” girato da Bresson si differenzia dall’ultima opera di Jacques Becker, Le Trou [Il buco], benché, per altri versi, l’eccellente film di Becker debba moltissimo a Un Condamné à mort s’est échappé. (Va riconosciuto a Becker di essere stato l’unica personalità del cinema francese a difendere Les Dames du Bois de Boulogne quando il film fu distribuito).
La forma dei film di Bresson, perciò, benché nettamente lineare, è anti-teatrale. Le scene sono troncate in modo brusco e accostate l’una all’altra senza nessun’ovvia enfasi. Se nel Journal d’un curé de campagne, per esempio, le scene di questo genere sono una trentina, tale metodo di costruzione narrativa è rispettato con il massimo rigore nel Procès de Jeanne d’Arc. Il film è composto di campi medi statici in cui sono inquadrati personaggi che parlano; le scene sono quelle dell’inesorabile sequenza degli interrogatori di Giovanna d’Arco. Il principio dell’elisione del materiale aneddotico – in Un Condamné à mort s’est échappé, per esempio, sappiamo poco perfino delle ragioni per cui Fontaine è in prigione – qui è portato agli estremi. Non c’è alcun tipo di diversivo: un interrogatorio finisce; la porta sbatte alle spalle di Giovanna d’Arco; la scena si chiude in dissolvenza. La chiave sferraglia nella serratura; un altro interrogatorio; di nuovo la porta che sbatte rumorosamente; dissolvenza. È una costruzione estremamente impassibile, che frena in maniera risoluta ogni coinvolgimento emotivo.
Bresson è giunto anche a rifiutare quella forma di coinvolgimento che il cinema sollecita attraverso l’espressività della recitazione. Ancora una volta, il modo particolare in cui Bresson utilizza gli attori, che lo ha indotto ad affidare i ruoli più importanti a non professionisti, fa pensare a Brecht, il quale voleva che l’attore “riferisse” un ruolo, più che “impersonarlo”. Cercava cioè di distoglierlo dall’identificazione con il ruolo, così come voleva distogliere gli spettatori dall’identificazione con gli avvenimenti che vedevano “riferiti” in scena. “L’attore”, sottolinea Brecht, “deve restare un dimostratore, deve rendere il personaggio rappresentato come una persona a lui estranea, la sua dimostrazione non deve nascondere che ‘fu lui a fare questo, fu lui a dire così’”. Lavorando negli ultimi quattro film con attori non professionisti (i professionisti sono stati usati soltanto in Les Anges du péché e in Les Dames du Bois de Boulogne), anche Bresson sembra perseguire lo stesso effetto di straniamento. La sua idea è che gli attori non recitino le battute, ma si limitino a pronunciarle con il minimo di espressività possibile, affinché anche i picchi emotivi siano resi in modo molto ellittico. (Per ottenere quest’effetto, l’inizio delle riprese è preceduto da mesi di prove con gli attori).
Nei due casi, tuttavia, le ragioni di una...

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