Parte IV Lo stile spirituale dei film di Robert Bresson
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Se un certo tipo di arte mira direttamente a suscitare emozioni, un altro si rivolge alle emozioni attraverso la strada dellâintelligenza. Câè unâarte che coinvolge, che crea empatia. Câè unâarte che distanzia, che induce alla riflessione.
La grande arte riflessiva non è algida. Può entusiasmare lo spettatore, offrirgli immagini che lo sconcertano, farlo piangere. Ma la sua forza emotiva è mediata. La spinta verso il coinvolgimento emotivo è controbilanciata da elementi dellâopera che favoriscono il distacco, lâimpassibilitĂ , lâimparzialitĂ . Il coinvolgimento emotivo è sempre, in maggiore o minor misura, posticipato.
Ă possibile spiegare questo contrasto in termini di tecniche o di mezzi espressivi â e perfino di idee. Non câè dubbio, però, che la sensibilitĂ dellâartista risulta, in ultima analisi, decisiva. Quando parla di âeffetto di straniamentoâ, Brecht propugna unâarte riflessiva, unâarte distaccata. Gli scopi didattici che rivendica per il suo teatro sono, in realtĂ , il mezzo attraverso cui si esprime il temperamento imperturbabile che ha creato quelle opere.
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Nel cinema, il maestro del procedimento riflessivo è Robert Bresson.
BenchĂŠ sia nato nel 1901, la sua produzione cinematografica giunta fino a noi è stata realizzata negli ultimi ventâanni e consiste di sei lungometraggi. (Nel 1934 girò un cortometraggio intitolato Les Affaires publiques, a quanto pare una commedia nello stile di RenĂŠ Clair, le cui copie sono andate tutte perdute; intorno alla metĂ degli anni â30 collaborò alla sceneggiatura di due oscuri film commerciali; e nel 1940 fu aiuto regista di Clair per un film mai portato a termine). Cominciò a lavorare al suo primo lungometraggio nel 1941, quando, tornato a Parigi dopo aver trascorso diciotto mesi in un campo di prigionia tedesco, conobbe padre Bruckberger, frate domenicano e scrittore, che gli propose di collaborare a un film sulle domenicane di Betania, una congregazione francese dedita allâassistenza e al recupero delle ex detenute. I due scrissero la sceneggiatura, i dialoghi furono affidati a Jean Giraudoux, e il film â inizialmente intitolato BĂŠthanie, e poi, su insistenza dei produttori, Les Anges du pĂŠchĂŠ [La conversa di Belfort] â uscĂŹ nel 1943. Fu accolto con entusiasmo dai critici e ottenne anche un certo successo di pubblico.
Il soggetto del suo secondo film, girato nel 1944 e distribuito nel 1945, è una versione moderna di una delle narrazioni interpolate nel grande antiromanzo di Diderot, Jacques il fatalista; Bresson ne scrisse la sceneggiatura e Jean Cocteau i dialoghi, ma non ebbe il successo del primo film. Les Dames du Bois de Boulogne [Perfidia] fu stroncato dalla critica e fu un fiasco anche al botteghino.
Il terzo film, Le Journal dâun curĂŠ de campagne [Il diario di un curato di campagna], è uscito soltanto nel 1951; il quarto, Un CondamnĂŠ Ă Mort sâest ĂŠchappĂŠ [Un condannato a morte è fuggito], nel 1956; il quinto, Pickpocket [Diario di un ladro], nel 1959; e il sesto, Procès de Jeanne dâArc [Processo a Giovanna dâArco], nel 1962. Hanno tutti ottenuto un discreto successo di critica, ma non di pubblico â tranne lâultimo, bocciato anche dalla maggior parte dei recensori. Un tempo salutato come la nuova speranza del cinema francese, Bresson è oggi invariabilmente etichettato come un regista esoterico. Non ha mai attirato lâattenzione del pubblico dei cinema dâessai che accorre a vedere BuĂąuel, Bergman o Fellini â benchĂŠ sia un regista molto piĂš grande di loro; perfino Antonioni, al suo confronto, ha quasi un pubblico di massa. E, al di lĂ di una ristretta cerchia, ha ricevuto scarsissima attenzione da parte della critica.
Câè una ragione per cui Bresson non è, in genere, apprezzato come meriterebbe: i suoi film, soprattutto in Inghilterra e in America, sono spesso definiti freddi, compassati, intellettualistici, geometrici. Ma definire âfreddaâ unâopera dâarte non vuol dire altro che paragonarla (spesso inconsapevolmente) a opere considerate âcaldeâ. E non tutta lâarte è â o potrebbe essere â calda, cosĂŹ come non tutti gli individui hanno lo stesso temperamento. Nellâarte, però, la varietĂ temperamentale è generalmente giudicata con criteri provinciali. Certo, Bresson è freddo rispetto a Pabst o a Fellini. (Come lo è Vivaldi rispetto a Brahms, o Keaton rispetto a Chaplin). Ă necessario, tuttavia, comprendere lâestetica â vale a dire, scoprire la bellezza â di tale freddezza. E per tentarne un abbozzo, lâesempio offerto da Bresson è particolarmente utile proprio in virtĂš della sua varietĂ . Esplorando le possibilitĂ di unâarte riflessiva, contrapposta a unâarte di emozioni non mediate, Bresson è infatti passato dalla perfezione diagrammatica di Les Dames du Bois de Boulogne al calore quasi lirico, quasi âumanisticoâ di Un CondamnĂŠ Ă mort sâest ĂŠchappĂŠ. E nel suo ultimo film, Procès de Jeanne dâArc, ci ha mostrato â e anche questo è istruttivo â come unâarte di questo tipo possa diventare troppo rarefatta.
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Nellâarte riflessiva lâaccento è posto sulla forma dellâopera.
La consapevolezza della forma diluisce o ritarda le emozioni dello spettatore. Nella misura in cui siamo consapevoli della forma di unâopera dâarte, infatti, acquisiamo un certo distacco; le nostre reazioni emotive non hanno nulla a che fare con quelle suscitate dalla vita reale. La consapevolezza della forma produce due effetti simultanei: ci offre un piacere sensoriale indipendente dal âcontenutoâ, e ci invita a fare uso dellâintelligenza. La riflessione a cui siamo indotti può essere di un livello molto elementare come, per esempio, quella ispirata dalla particolare forma narrativa (lâintreccio di quattro vicende diverse) di Intolerance di Griffith. Ma resta pur sempre una riflessione.
Il tipico modo in cui, in unâopera dâarte, la âformaâ plasma il âcontenutoâ è quello del raddoppiamento, della duplicazione. La simmetria e la ripetizione di motivi nella pittura, la trama doppia del teatro elisabettiano, gli schemi rimici della poesia sono alcuni degli esempi piĂš lampanti.
Lâevoluzione delle forme artistiche è, almeno in parte, indipendente dallâevoluzione dei contenuti. (La storia delle forme è dialettica. CosĂŹ come certi tipi di sensibilitĂ diventano banali, noiosi, e sono spodestati dai loro opposti, le forme artistiche periodicamente si esauriscono. Diventano scontate, poco stimolanti, e vengono sostituite da forme nuove che sono, al tempo stesso, anti-forme). Talvolta gli effetti piĂš belli si ottengono quando contenuto e forma sono posti in contrasto. Brecht lo fa spesso: racchiude un tema caldo allâinterno di una cornice fredda. Altre volte ad appagarci è la perfetta adeguatezza della forma alla tematica, come nel caso di Bresson, che è un regista non solo molto piĂš grande, ma anche piĂš interessante, di BuĂąuel (per fare solo un esempio), proprio perchĂŠ ha elaborato una forma che esprime e asseconda alla perfezione ciò che vuole dire. Anzi, è ciò che vuole dire.
Occorre, però, distinguere attentamente tra forma e maniera. Se Welles, il primo RenĂŠ Clair, Sternberg e OphĂźls sono esempi di registi caratterizzati da unâinconfondibile inventivitĂ stilistica, tuttavia non hanno mai creato una forma narrativa rigorosa come, al pari di Ozu, ha fatto Bresson. E la forma dei suoi film (come quella dei film di Ozu) è concepita in modo tale da disciplinare le emozioni nel momento stesso in cui le suscita, e indurre nello spettatore una certa tranquillitĂ , quella condizione di equilibrio spirituale che è esattamente il tema del suo cinema.
Lâarte riflessiva è unâarte che, di fatto, impone al pubblico una certa disciplina â posticipando ogni facile gratificazione. Perfino la noia può essere un mezzo accettabile per imporla. Un altro è lâaccentuazione dellâartificiositĂ di unâopera dâarte. Si pensi, per esempio, alla concezione brechtiana del teatro: Brecht propugnava strategie registiche â lâutilizzazione di un narratore, la presenza in scena di musicisti, lâinterposizione di scene filmate â e tecniche recitative per distanziare il pubblico ed evitare che fosse âcoinvoltoâ acriticamente dalle vicende e dalla sorte dei personaggi. Anche Bresson mira a creare una distanza. Ma il suo scopo, mi pare, non è quello di raffreddare il calore delle emozioni, affinchĂŠ prevalga lâintelligenza. Il distacco emotivo caratteristico dei suoi film sembra rispondere a una ragione del tutto diversa: per Bresson ogni identificazione con i personaggi è, a ben riflettere, unâinsolenza, un affronto al mistero del cuore, e dellâagire, umano.
Ma â a prescindere da qualsiasi esigenza di distacco intellettuale o di rispetto per il mistero dei comportamenti umani â Brecht di certo sapeva, come deve saperlo Bresson, che tale distanziamento è fonte di grande forza emotiva. Il difetto del teatro e del cinema naturalistici sta proprio nel fatto che, concedendosi con troppa immediatezza, consumano ed esauriscono facilmente i propri effetti. In ultima analisi, la fonte maggiore di forza emotiva di cui unâopera dâarte dispone non è il suo specifico contenuto, per quanto appassionante o universale possa essere. Ă la forma. Il distanziamento e il rallentamento delle emozioni, ottenuti attraverso la consapevolezza della forma, finiscono per rendere le emozioni molto piĂš forti e intense.
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A dispetto dellâantico clichĂŠ critico che considera il cinema un mezzo dâespressione essenzialmente visivo, e nonostante il fatto che, prima di diventare cineasta, Bresson si sia dedicato alla pittura, la forma per lui non è principalmente visiva. Ă, soprattutto, una peculiare modalitĂ di narrazione. Per Bresson il cinema è unâesperienza narrativa, non plastica.
La forma del suo cinema accoglie alla perfezione gli auspici formulati da Alexandre Astruc in un celebre saggio, âLa CamĂŠra-styloâ, pubblicato alla fine degli anni â40. Secondo Astruc, il cinema ideale è destinato a diventare un linguaggio:
Un linguaggio, cioè una forma nella quale e per mezzo della quale un artista può esprimere il proprio pensiero, per quanto astratto, o tradurre le proprie ossessioni, esattamente come avviene oggi per il saggio e il romanzo. [âŚ] Il cinema si sottrarrĂ gradualmente alla tirannia del visivo, dellâimmagine per lâimmagine, dellâaneddoto immediato, del concreto, per diventare uno strumento di scrittura altrettanto plastico e sottile quanto quello del linguaggio scritto. [âŚ] Quel che oggi ci interessa nel cinema è la creazione di questo linguaggio.
Il cinema-come-linguaggio implica una rottura con il tradizionale metodo teatrale e visivo di narrare una storia in un film. Nellâopera di Bresson, la creazione di un linguaggio per il cinema comporta un forte risalto della parola. Nei primi due film, in cui lâazione è ancora relativamente teatrale e la trama racconta le vicende di un gruppo di personaggi11, il linguaggio (nel senso letterale del termine) appare in forma di dialogo. E tale dialogo attira decisamente lâattenzione su se stesso. Ă molto teatrale, conciso, aforistico, ponderato, letterario. Ă lâopposto del dialogo apparentemente improvvisato, prediletto dai nuovi registi francesi â compreso il Godard di Vivre sa vie [Questa è la mia vita] e Une Femme mariĂŠe [Una donna sposata], i film piĂš bressoniani della Nouvelle Vague.
Ma negli ultimi quattro film, in cui lâazione si contrae e non concerne piĂš ciò che accade a un gruppo, bensĂŹ il destino di un io solitario, il dialogo è spesso sostituito dalla narrazione in prima persona. Se a volte questa narrazione è giustificata dalla necessitĂ di creare raccordi tra le scene, piĂš spesso, e in modo ancor piĂš interessante, non ci dice nulla che non sappiamo giĂ o che non siamo in procinto di scoprire. La narrazione âduplicaâ lâazione. In questi casi, le parole di solito precedono la scena. In Pickpocket, per esempio, prima vediamo il protagonista che scrive (e sentiamo la sua voce che legge) le proprie memorie e, in seguito, lâavvenimento che ci ha brevemente descritto.
Altre volte, invece, lâazione precede la spiegazione, la descrizione di ciò che è appena accaduto. In Le Journal dâun curĂŠ de campagne, per esempio, câè una scena in cui lâansioso protagonista fa visita al curato di Torcy. Vediamo il prete che spinge la bicicletta fino alla porta del curato, poi la domestica che apre la porta (il curato evidentemente non è in casa, ma non udiamo le parole della domestica), quindi la porta che si chiude e il prete che vi si appoggia. A quel punto sentiamo: âEro talmente deluso. Dovetti appoggiarmi alla portaâ. Un altro esempio: in Un CondamnĂŠ Ă mort sâest ĂŠchappĂŠ vediamo Fontaine che, dopo aver lacerato la federa del cuscino, ne attorciglia un lembo attorno al filo di ferro che ha strappato dalla rete del letto. Poi udiamo la sua voce: âLa attorcigliai con forzaâ.
Lâeffetto di questa narrazione âsuperfluaâ è quello di punteggiare la scena con degli intervalli e di tenere a freno la diretta partecipazione immaginativa dello spettatore allâazione. Che si passi dal commento alla scena o dalla scena al commento, il risultato è lo stesso: tali duplicazioni arrestano e, al tempo stesso, intensificano lâabituale sequenza emotiva.
Va notato, peraltro, che nel primo tipo di duplicazione â in cui udiamo ciò che sta per accadere prima di vederlo â câè un intenzionale ripudio di una delle tecniche tradizionali del coinvolgimento narrativo: la suspense. Viene da pensare, ancora una volta, a Brecht. Per eliminare la suspense, allâinizio di una scena Brecht annuncia, tramite un cartello o un narratore, ciò che sta per accadere. (Godard adotta questa tecnica in Vivre sa vie). Bresson fa la stessa cosa, anteponendo la narrazione allâazione. Sotto molti aspetti, il soggetto perfetto per Bresson è quello del suo film piĂš recente, Procès de Jeanne dâArc â poichĂŠ la sua trama è del tutto nota, predeterminata; anzichĂŠ inventate, le parole che gli attori pronunciano sono tratte dai verbali del processo realmente subito da Giovanna dâArco. Idealmente, in un film di Bresson non câè alcuna suspense. E nel suo unico film in cui dovrebbe, in teoria, svolgere una funzione importante, Un CondamnĂŠ Ă mort sâest ĂŠchappĂŠ, il titolo intenzionalmente â e perfino con una certa goffaggine â svela il finale: sappiamo che Fontaine ce la farĂ 12. Da questo punto di vista, il âfilm di fugaâ girato da Bresson si differenzia dallâultima opera di Jacques Becker, Le Trou [Il buco], benchĂŠ, per altri versi, lâeccellente film di Becker debba moltissimo a Un CondamnĂŠ Ă mort sâest ĂŠchappĂŠ. (Va riconosciuto a Becker di essere stato lâunica personalitĂ del cinema francese a difendere Les Dames du Bois de Boulogne quando il film fu distribuito).
La forma dei film di Bresson, perciò, benchĂŠ nettamente lineare, è anti-teatrale. Le scene sono troncate in modo brusco e accostate lâuna allâaltra senza nessunâovvia enfasi. Se nel Journal dâun curĂŠ de campagne, per esempio, le scene di questo genere sono una trentina, tale metodo di costruzione narrativa è rispettato con il massimo rigore nel Procès de Jeanne dâArc. Il film è composto di campi medi statici in cui sono inquadrati personaggi che parlano; le scene sono quelle dellâinesorabile sequenza degli interrogatori di Giovanna dâArco. Il principio dellâelisione del materiale aneddotico â in Un CondamnĂŠ Ă mort sâest ĂŠchappĂŠ, per esempio, sappiamo poco perfino delle ragioni per cui Fontaine è in prigione â qui è portato agli estremi. Non câè alcun tipo di diversivo: un interrogatorio finisce; la porta sbatte alle spalle di Giovanna dâArco; la scena si chiude in dissolvenza. La chiave sferraglia nella serratura; un altro interrogatorio; di nuovo la porta che sbatte rumorosamente; dissolvenza. Ă una costruzione estremamente impassibile, che frena in maniera risoluta ogni coinvolgimento emotivo.
Bresson è giunto anche a rifiutare quella forma di coinvolgimento che il cinema sollecita attraverso lâespressivitĂ della recitazione. Ancora una volta, il modo particolare in cui Bresson utilizza gli attori, che lo ha indotto ad affidare i ruoli piĂš importanti a non professionisti, fa pensare a Brecht, il quale voleva che lâattore âriferisseâ un ruolo, piĂš che âimpersonarloâ. Cercava cioè di distoglierlo dallâidentificazione con il ruolo, cosĂŹ come voleva distogliere gli spettatori dallâidentificazione con gli avvenimenti che vedevano âriferitiâ in scena. âLâattoreâ, sottolinea Brecht, âdeve restare un dimostratore, deve rendere il personaggio rappresentato come una persona a lui estranea, la sua dimostrazione non deve nascondere che âfu lui a fare questo, fu lui a dire cosĂŹââ. Lavorando negli ultimi quattro film con attori non professionisti (i professionisti sono stati usati soltanto in Les Anges du pĂŠchĂŠ e in Les Dames du Bois de Boulogne), anche Bresson sembra perseguire lo stesso effetto di straniamento. La sua idea è che gli attori non recitino le battute, ma si limitino a pronunciarle con il minimo di espressivitĂ possibile, affinchĂŠ anche i picchi emotivi siano resi in modo molto ellittico. (Per ottenere questâeffetto, lâinizio delle riprese è preceduto da mesi di prove con gli attori).
Nei due casi, tuttavia, le ragioni di una...