Spazi e poteri
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Spazi e poteri

Geografia politica, geografia economica, geopolitica

Paolo Sellari, Claudio Cerreti, Matteo Marconi

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Spazi e poteri

Geografia politica, geografia economica, geopolitica

Paolo Sellari, Claudio Cerreti, Matteo Marconi

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Un manuale di geografia finalmente all'altezza dei tempi in cui viviamo. Un testo che si propone di superare le impostazioni ottocentesche di una disciplina che è tornata a essere di grande attualità nell'epoca delle paure e delle incertezze globali.

Negli ultimi trenta anni il nostro pianeta ha attraversato un vorticoso processo di trasformazione che ha modificato radicalmente i tradizionali rapporti di forza tra i continenti. In tutto questo, la geografia, ovvero la disciplina che studia il rapporto tra l'uomo e lo spazio che lo circonda, è tornata ad avere un ruolo centrale. Da umile ancella al servizio dello Stato moderno e delle sue vocazioni imperiali, forse per prima ha cercato di interpretare i mutamenti epocali che stiamo vivendo. Grazie ai suoi metodi e ai suoi strumenti, ha compreso che il potere, ovvero il rapporto tra società e spazio, ha assunto un carattere frastagliato e molteplice. Dunque, a differenza di altri strumenti didattici che hanno scelto un approccio più tradizionale, questo manuale ha scelto di compiere una scelta innovativa. Ovvero di trattare assieme aspetti politici e geopolitici, economici e demografici proprio per dare meglio conto di questa nuova fase. Migrazioni, cambiamenti climatici, sostenibilità ambientale, guerre: temi e concetti fino a ora poco affrontati dalla geografia, vengono presentati in forma originale e didatticamente efficace.

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1.
Lo Stato e le sue metamorfosi

1.1. Tramonto o riassestamento dello Stato?1

La geografia politica nasce con Friedrich Ratzel come geografia dello Stato, ovvero dalla coincidenza della sfera politica con la statualità. Ratzel, tuttavia, parlava di Stato in un’accezione più ampia rispetto a quanto siamo soliti fare oggi, quindi ne allargava la definizione anche a tutte le forme di organizzazione politica dominanti all’interno di una comunità. Era Stato, allora, anche il sistema tribale o clanico.
Le chiavi di interpretazione ratzeliane dei fenomeni politici erano molto più varie di quanto lascerebbe intendere l’uso ripetuto dell’espressione «Stato». Di questo aspetto fondamentale non ebbero piena consapevolezza epigoni e allievi, che – ridotto il carattere polisemantico della sua opera – limitarono di conseguenza l’esperienza del politico allo Stato moderno, irrigidendo l’impostazione ratzeliana alle equazioni del modello statuale vestfaliano. Il fatto che la geografia politica nasca, di fatto, come geografia dello Stato, porta con sé delle conseguenze che oggigiorno stentiamo ancora a riconoscere non solo per la comprensione della disciplina, ma più in generale per la corretta interpretazione della storia politica e delle idee tra Ottocento e Novecento.
A distanza di molti anni la geografia politica ha ritrovato lo spirito critico di Ratzel, grazie alla globalizzazione, al crollo del Muro di Berlino, al diffondersi delle organizzazioni internazionali e in generale a una cultura fortemente critica nei confronti degli eccessi dello Stato moderno.
I passi in avanti hanno portato il discorso scientifico a precisare che la geopolitica e la geografia politica hanno a che fare con il potere in forme molteplici. A differenza della tradizione di pensiero post-ratzeliana, validata tanto in geografia che nelle relazioni internazionali, non è più possibile sostenere che il potere sia unicamente concentrato nello Stato e nelle sue articolazioni. La visione monocratica è stata per secoli l’essenza dello Stato moderno, che ha preteso di assorbire all’interno delle sue funzioni e delle sue dinamiche ogni forma di coercizione e di autorità. Ciò è stato a tal punto vero che siamo ancora oggi abituati , nel discorso pubblico, a parlare di potere e di politica come riferiti all’ambito delle funzioni statuali e di governo. I manuali classici di geografia politica erano soliti, di conseguenza a queste premesse, fare la geografia dello Stato, ossia ridurre la disciplina all’analisi del rapporto di questo con il territorio2. Il potere non-statuale era identificato esclusivamente come forza centrifuga: quei fenomeni, tanto di natura etnica, religiosa o locale, che mettevano in discussione l’unità dello Stato. Molto spesso, era sottinteso che si trattasse di movimenti di rivendicazione sovranitaria, ossia che lottavano per formare un altro Stato. La formula del potere rimaneva dunque invariata.
Il potere è un fenomeno più ampio di quanto la tradizione geografica ci ha insegnato e oggi siamo in grado di vederlo a una scala di colori maggiormente diversificata grazie alla crisi di rappresentanza, effettività e legittimità dello Stato moderno. Se la geopolitica e la geografia politica sono sempre state attente alla molteplicità di fenomeni che interagiscono con il potere, ora sono anche in grado di guardare il potere stesso come fenomeno molteplice.
Ciò significa che in questa parte del testo non ci limiteremo ad analizzare lo Stato come forma esclusiva del potere, ma allargheremo la nostra visuale a fenomeni contigui, come le etnie e le minoranze, e ad altri ben diversificati, come i clan e le tribù. A questo si aggiungeranno le analisi sulle organizzazioni regionali e internazionali, le reti del terrorismo e qualche spunto di riflessione sulla finanza globale nonché, ovviamente, sui media e la rete. Sarà costante il riferimento alternato ai meccanismi di funzionamento dello Stato moderno e alla loro messa in discussione nell’epoca della globalizzazione, definibile come postmodernità. Nel postmoderno non solo il potere interessa più attori, ma cambia anche le sue forme.
Viviamo un’epoca di passaggi, di crisi di certezze secolari: naturale che anche la scienza debba procedere con cautela, individuando i molteplici modelli di potere, a volte in contrasto, altre volte in continuità, con quanto la tradizione ci ha consegnato.
All’inizio dell’avventura moderna della geografia politica è stato detto che lo Stato nasce per difendere la comunità dai pericoli esterni e assicurarne il sostentamento, ossia accentra il potere e la forza per salvaguardare gli associati (Ratzel, 1903). Tuttavia, dal secondo dopoguerra, una serie di avvenimenti, nella politica interna degli Stati e nella politica internazionale, sembra avere messo in dubbio la solidità delle forme dello Stato moderno per assicurare i fini fondamentali della vita collettiva.
La caduta del Muro di Berlino ha scoperchiato il vaso di Pandora e ravvivato conflittualità sopite, ma non cancellate, dallo scontro ideologico tra le due superpotenze. Stati Uniti e Unione Sovietica, infatti, avevano il controllo su ogni livello della conflittualità internazionale, sia a scala locale che globale. Ciò perché il mondo era divenuto un organismo politico unitario in cui la contiguità tra gli Stati aveva reso inevitabile la trasmissione degli scompensi interni ai vicini; dunque le superpotenze ideologiche non potevano accettare che la conflittualità uscisse fuori dalla logica bipolare determinando la rottura dell’equilibrio politico.
Ne è sorto un fraintendimento, che ha fatto credere che il (relativo) accentramento del potere in due poli abbia comportato la vittoria definitiva del modello statuale moderno.
La caduta del Muro e la dissoluzione di uno dei due contendenti, il campo comunista, ha aperto la strada a un ginepraio di conflitti a marca non più ideologica. Il sommovimento era già evidente con quanto avveniva in Iran con la rivoluzione khomeinista del 1979: la religione tornava prepotentemente alla ribalta come fattore aggregativo comunitario, proprio mentre le «religioni secolari»» del liberismo e del comunismo mostravano un declino irresistibile.
Successivamente, il tentativo residuale dell’amministrazione americana, implicito sotto la presidenza Clinton, esplicito con George W. Bush e non abbandonato neanche da Barack Obama, di dare al mondo una configurazione unipolare con gli Stati Uniti a rappresentare l’unica potenza egemone si è dimostrato irrealizzabile. Più che di rifiuto degli Stati Uniti dovremmo però parlare di fine dell’accettazione forzata della supremazia delle superpotenze. Ciò che aveva mosso molti attori locali e regionali a schierarsi con l’una o con l’altra, in passato, era stato un comportamento opportunistico condizionato dalle necessità del momento. Venuta meno la logica bipolare, anche la superpotenza rimasta si è vista privare di quel sostegno locale di cui prima godeva in funzione tattica.
La crisi della statualità moderna si è poi manifestata attraverso un uso parossistico e inflattivo dei suoi istituti, come il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Se ogni popolo può scegliere sotto quale Stato vivere, si apre una quantità incalcolabile di conflitti di ogni genere, tutti basati su questo punto. Il problema è che le rappresentazioni nazionali di ciascun gruppo confliggono con quelle di qualcun altro riguardo al territorio di stanziamento prevalente della propria comunità (Dell’Agnese, 2005, p. 76). I dati sulla conseguente frammentazione politica sono eloquenti: se nel 1946 gli Stati erano 76, appena cinquant’anni dopo sono arrivati a 192 e trascorsi ancora venti anni hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 206, di cui più della metà con una popolazione inferiore a sei milioni di persone (Lizza, 2001, p. 108).
Partendo dal presupposto che ogni rappresentanza politica debba coincidere con un luogo e un popolo, sono praticamente infinite le quantità di divisioni successive a cui il principio di autodeterminazione può portare. È da escludere che l’ordinamento internazionale possa insegnarci qualcosa in merito, in quanto è impossibile stabilire il buon diritto di un popolo a separarsi da un altro su basi oggettive. Si tratta di questioni di potenza, che vedranno un popolo emanciparsi se capace di far valere la propria volontà (Lizza, 2001, p. 109).
Questo fenomeno si è accompagnato, in parte spiegandolo, all’incapacità della dimensione statuale di farsi carico delle aspettative identitarie e politiche dei cittadini. Sono così riaffiorati gli antichi sentimenti di contrasto tra popoli, facendo ricredere molti sull’esito stesso della modernità. Ciononostante, ancora viene dato ampio credito a certa tradizione geografica classica, secondo cui solo la nazione (o il luogo) sarebbe in grado di rappresentare le istanze identitarie degli individui e quindi legittimare lo Stato come ente che realizza concretamente la vita nazionale. Tutto questo nonostante la geografia «critica» abbia messo in luce che la stabilità politica non dipende dal collegamento esclusivo tra Stato e nazione (Dell’Agnese, 2005, p. 82). Finché il paradigma classico non (si) sarà offuscato, sembra difficile mettere in pratica soluzioni differenti.
L’inevitabile contraltare del localismo, dal punto di vista geopolitico, è l’impero. La massa eurasiatica ha conosciuto, fino al termine della prima guerra mondiale, tre imperi di grande tradizione – ottomano, russo e austro-ungarico – che tenevano le redini del Vicino Oriente, della Russia e dell’area balcanica e centroeuropea. Successivamente, la stessa funzione è stata svolta dagli imperi americano e sovietico. Ciò significa che le tendenze centrifughe sono sempre state cauterizzate da strutture imperiali in grado di controllare aree di grandi dimensioni. È lecito domandarsi se oggi, con l’accentuazione dell’erosione della sovranità statuale, questo ruolo possa essere svolto dagli organismi internazionali. L’ipotesi è avvalorata dall’ampliamento del numero delle competenze delle organizzazioni regionali e internazionali a scapito degli Stati membri.
Più in generale, è opinione comune che i flussi economici, migratori, culturali e dell’informazione di cui si compone la globalizzazione si muovano con una flessibilità, un’intensità e un’ampiezza di rango completamente diverso rispetto al passato. La scala di questi fenomeni tende a non coincidere più con i confini nazionali, con esiti negativi sulla capacità degli Stati di farvi fronte.
Se da una parte la tecnologia e la richiesta di competitività tendono a omologare la vita economica nazionale al contesto globale, dall’altra si segnalano gli effetti destabilizzanti dei flussi migratori nel Mediterraneo, dove avviene il passaggio di masse di uomini verso il sogno di una vita migliore e alla ricerca di quei modelli occidentali che rappresentano, per attrazione, un’ulteriore paradossale forma di colonialismo. Il laboratorio geopolitico dell’immigrazione in Europa prende tratti innovativi, perché gli Stati europei, a differenza degli Stati Uniti d’America, sono sorti sulla base di un sostrato nazionale di lunga sedimentazione che ha successivamente generato un sentimento esclusivo dal punto di vista identitario. Gli Stati europei soffrono culturalmente il fenomeno dell’immigrazione perché si riconoscono ancora, prevalentemente, nelle strutture monoidentitarie dello Stato-nazione.
Non è poi da sottovalutare il potenziale sovranazionale dei movimenti sociali globali, soprattutto per le spinte ecologiche, la migliore riprova del nuovo pensiero-mondo che attraversa la coscienza planetaria: su nessun’altra questione come l’inquinamento è palese come tutte le parti del globo siano tra loro interrelate e come l’azione inquinante di una sortisca un effetto deleterio su tutte le altre.
La diminuzione dei costi dei trasporti, la crescente omologazione tecnica planetaria e la maggiore facilità di trasferimento dei capitali hanno incentivato un altro fenomeno tipico della globalizzazione, ossia la delocalizzazione industriale. Sono molti i gruppi industriali, sia di grande che di medio livello, che trasferiscono la propria produzione lì dove la manodopera è più a buon mercato. Gli effetti sociali di questo fenomeno, per quanto riguarda i paesi occidentali, sono facilmente imma...

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