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Lo Stato e le sue metamorfosi
1.1. Tramonto o riassestamento dello Stato?
La geografia politica nasce con Friedrich Ratzel come geografia dello Stato, ovvero dalla coincidenza della sfera politica con la statualitĂ . Ratzel, tuttavia, parlava di Stato in unâaccezione piĂš ampia rispetto a quanto siamo soliti fare oggi, quindi ne allargava la definizione anche a tutte le forme di organizzazione politica dominanti allâinterno di una comunitĂ . Era Stato, allora, anche il sistema tribale o clanico.
Le chiavi di interpretazione ratzeliane dei fenomeni politici erano molto piĂš varie di quanto lascerebbe intendere lâuso ripetuto dellâespressione ÂŤStatoÂť. Di questo aspetto fondamentale non ebbero piena consapevolezza epigoni e allievi, che â ridotto il carattere polisemantico della sua opera â limitarono di conseguenza lâesperienza del politico allo Stato moderno, irrigidendo lâimpostazione ratzeliana alle equazioni del modello statuale vestfaliano. Il fatto che la geografia politica nasca, di fatto, come geografia dello Stato, porta con sĂŠ delle conseguenze che oggigiorno stentiamo ancora a riconoscere non solo per la comprensione della disciplina, ma piĂš in generale per la corretta interpretazione della storia politica e delle idee tra Ottocento e Novecento.
A distanza di molti anni la geografia politica ha ritrovato lo spirito critico di Ratzel, grazie alla globalizzazione, al crollo del Muro di Berlino, al diffondersi delle organizzazioni internazionali e in generale a una cultura fortemente critica nei confronti degli eccessi dello Stato moderno.
I passi in avanti hanno portato il discorso scientifico a precisare che la geopolitica e la geografia politica hanno a che fare con il potere in forme molteplici. A differenza della tradizione di pensiero post-ratzeliana, validata tanto in geografia che nelle relazioni internazionali, non è piĂš possibile sostenere che il potere sia unicamente concentrato nello Stato e nelle sue articolazioni. La visione monocratica è stata per secoli lâessenza dello Stato moderno, che ha preteso di assorbire allâinterno delle sue funzioni e delle sue dinamiche ogni forma di coercizione e di autoritĂ . Ciò è stato a tal punto vero che siamo ancora oggi abituati , nel discorso pubblico, a parlare di potere e di politica come riferiti allâambito delle funzioni statuali e di governo. I manuali classici di geografia politica erano soliti, di conseguenza a queste premesse, fare la geografia dello Stato, ossia ridurre la disciplina allâanalisi del rapporto di questo con il territorio. Il potere non-statuale era identificato esclusivamente come forza centrifuga: quei fenomeni, tanto di natura etnica, religiosa o locale, che mettevano in discussione lâunitĂ dello Stato. Molto spesso, era sottinteso che si trattasse di movimenti di rivendicazione sovranitaria, ossia che lottavano per formare un altro Stato. La formula del potere rimaneva dunque invariata.
Il potere è un fenomeno piÚ ampio di quanto la tradizione geografica ci ha insegnato e oggi siamo in grado di vederlo a una scala di colori maggiormente diversificata grazie alla crisi di rappresentanza, effettività e legittimità dello Stato moderno. Se la geopolitica e la geografia politica sono sempre state attente alla molteplicità di fenomeni che interagiscono con il potere, ora sono anche in grado di guardare il potere stesso come fenomeno molteplice.
Ciò significa che in questa parte del testo non ci limiteremo ad analizzare lo Stato come forma esclusiva del potere, ma allargheremo la nostra visuale a fenomeni contigui, come le etnie e le minoranze, e ad altri ben diversificati, come i clan e le tribĂš. A questo si aggiungeranno le analisi sulle organizzazioni regionali e internazionali, le reti del terrorismo e qualche spunto di riflessione sulla finanza globale nonchĂŠ, ovviamente, sui media e la rete. SarĂ costante il riferimento alternato ai meccanismi di funzionamento dello Stato moderno e alla loro messa in discussione nellâepoca della globalizzazione, definibile come postmodernitĂ . Nel postmoderno non solo il potere interessa piĂš attori, ma cambia anche le sue forme.
Viviamo unâepoca di passaggi, di crisi di certezze secolari: naturale che anche la scienza debba procedere con cautela, individuando i molteplici modelli di potere, a volte in contrasto, altre volte in continuitĂ , con quanto la tradizione ci ha consegnato.
Allâinizio dellâavventura moderna della geografia politica è stato detto che lo Stato nasce per difendere la comunitĂ dai pericoli esterni e assicurarne il sostentamento, ossia accentra il potere e la forza per salvaguardare gli associati (Ratzel, 1903). Tuttavia, dal secondo dopoguerra, una serie di avvenimenti, nella politica interna degli Stati e nella politica internazionale, sembra avere messo in dubbio la soliditĂ delle forme dello Stato moderno per assicurare i fini fondamentali della vita collettiva.
La caduta del Muro di Berlino ha scoperchiato il vaso di Pandora e ravvivato conflittualitĂ sopite, ma non cancellate, dallo scontro ideologico tra le due superpotenze. Stati Uniti e Unione Sovietica, infatti, avevano il controllo su ogni livello della conflittualitĂ internazionale, sia a scala locale che globale. Ciò perchĂŠ il mondo era divenuto un organismo politico unitario in cui la contiguitĂ tra gli Stati aveva reso inevitabile la trasmissione degli scompensi interni ai vicini; dunque le superpotenze ideologiche non potevano accettare che la conflittualitĂ uscisse fuori dalla logica bipolare determinando la rottura dellâequilibrio politico.
Ne è sorto un fraintendimento, che ha fatto credere che il (relativo) accentramento del potere in due poli abbia comportato la vittoria definitiva del modello statuale moderno.
La caduta del Muro e la dissoluzione di uno dei due contendenti, il campo comunista, ha aperto la strada a un ginepraio di conflitti a marca non piÚ ideologica. Il sommovimento era già evidente con quanto avveniva in Iran con la rivoluzione khomeinista del 1979: la religione tornava prepotentemente alla ribalta come fattore aggregativo comunitario, proprio mentre le religioni secolari del liberismo e del comunismo mostravano un declino irresistibile.
Successivamente, il tentativo residuale dellâamministrazione americana, implicito sotto la presidenza Clinton, esplicito con George W. Bush e non abbandonato neanche da Barack Obama, di dare al mondo una configurazione unipolare con gli Stati Uniti a rappresentare lâunica potenza egemone si è dimostrato irrealizzabile. PiĂš che di rifiuto degli Stati Uniti dovremmo però parlare di fine dellâaccettazione forzata della supremazia delle superpotenze. Ciò che aveva mosso molti attori locali e regionali a schierarsi con lâuna o con lâaltra, in passato, era stato un comportamento opportunistico condizionato dalle necessitĂ del momento. Venuta meno la logica bipolare, anche la superpotenza rimasta si è vista privare di quel sostegno locale di cui prima godeva in funzione tattica.
La crisi della statualitĂ moderna si è poi manifestata attraverso un uso parossistico e inflattivo dei suoi istituti, come il diritto allâautodeterminazione dei popoli. Se ogni popolo può scegliere sotto quale Stato vivere, si apre una quantitĂ incalcolabile di conflitti di ogni genere, tutti basati su questo punto. Il problema è che le rappresentazioni nazionali di ciascun gruppo confliggono con quelle di qualcun altro riguardo al territorio di stanziamento prevalente della propria comunitĂ (DellâAgnese, 2005, p. 76). I dati sulla conseguente frammentazione politica sono eloquenti: se nel 1946 gli Stati erano 76, appena cinquantâanni dopo sono arrivati a 192 e trascorsi ancora venti anni hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 206, di cui piĂš della metĂ con una popolazione inferiore a sei milioni di persone (Lizza, 2001, p. 108).
Partendo dal presupposto che ogni rappresentanza politica debba coincidere con un luogo e un popolo, sono praticamente infinite le quantitĂ di divisioni successive a cui il principio di autodeterminazione può portare. Ă da escludere che lâordinamento internazionale possa insegnarci qualcosa in merito, in quanto è impossibile stabilire il buon diritto di un popolo a separarsi da un altro su basi oggettive. Si tratta di questioni di potenza, che vedranno un popolo emanciparsi se capace di far valere la propria volontĂ (Lizza, 2001, p. 109).
Questo fenomeno si è accompagnato, in parte spiegandolo, allâincapacitĂ della dimensione statuale di farsi carico delle aspettative identitarie e politiche dei cittadini. Sono cosĂŹ riaffiorati gli antichi sentimenti di contrasto tra popoli, facendo ricredere molti sullâesito stesso della modernitĂ . Ciononostante, ancora viene dato ampio credito a certa tradizione geografica classica, secondo cui solo la nazione (o il luogo) sarebbe in grado di rappresentare le istanze identitarie degli individui e quindi legittimare lo Stato come ente che realizza concretamente la vita nazionale. Tutto questo nonostante la geografia ÂŤcriticaÂť abbia messo in luce che la stabilitĂ politica non dipende dal collegamento esclusivo tra Stato e nazione (DellâAgnese, 2005, p. 82). FinchĂŠ il paradigma classico non (si) sarĂ offuscato, sembra difficile mettere in pratica soluzioni differenti.
Lâinevitabile contraltare del localismo, dal punto di vista geopolitico, è lâimpero. La massa eurasiatica ha conosciuto, fino al termine della prima guerra mondiale, tre imperi di grande tradizione â ottomano, russo e austro-ungarico â che tenevano le redini del Vicino Oriente, della Russia e dellâarea balcanica e centroeuropea. Successivamente, la stessa funzione è stata svolta dagli imperi americano e sovietico. Ciò significa che le tendenze centrifughe sono sempre state cauterizzate da strutture imperiali in grado di controllare aree di grandi dimensioni. Ă lecito domandarsi se oggi, con lâaccentuazione dellâerosione della sovranitĂ statuale, questo ruolo possa essere svolto dagli organismi internazionali. Lâipotesi è avvalorata dallâampliamento del numero delle competenze delle organizzazioni regionali e internazionali a scapito degli Stati membri.
PiĂš in generale, è opinione comune che i flussi economici, migratori, culturali e dellâinformazione di cui si compone la globalizzazione si muovano con una flessibilitĂ , unâintensitĂ e unâampiezza di rango completamente diverso rispetto al passato. La scala di questi fenomeni tende a non coincidere piĂš con i confini nazionali, con esiti negativi sulla capacitĂ degli Stati di farvi fronte.
Se da una parte la tecnologia e la richiesta di competitivitĂ tendono a omologare la vita economica nazionale al contesto globale, dallâaltra si segnalano gli effetti destabilizzanti dei flussi migratori nel Mediterraneo, dove avviene il passaggio di masse di uomini verso il sogno di una vita migliore e alla ricerca di quei modelli occidentali che rappresentano, per attrazione, unâulteriore paradossale forma di colonialismo. Il laboratorio geopolitico dellâimmigrazione in Europa prende tratti innovativi, perchĂŠ gli Stati europei, a differenza degli Stati Uniti dâAmerica, sono sorti sulla base di un sostrato nazionale di lunga sedimentazione che ha successivamente generato un sentimento esclusivo dal punto di vista identitario. Gli Stati europei soffrono culturalmente il fenomeno dellâimmigrazione perchĂŠ si riconoscono ancora, prevalentemente, nelle strutture monoidentitarie dello Stato-nazione.
Non è poi da sottovalutare il potenziale sovranazionale dei movimenti sociali globali, soprattutto per le spinte ecologiche, la migliore riprova del nuovo pensiero-mondo che attraversa la coscienza planetaria: su nessunâaltra questione come lâinquinamento è palese come tutte le parti del globo siano tra loro interrelate e come lâazione inquinante di una sortisca un effetto deleterio su tutte le altre.
La diminuzione dei costi dei trasporti, la crescente omologazione tecnica planetaria e la maggiore facilità di trasferimento dei capitali hanno incentivato un altro fenomeno tipico della globalizzazione, ossia la delocalizzazione industriale. Sono molti i gruppi industriali, sia di grande che di medio livello, che trasferiscono la propria produzione lÏ dove la manodopera è piÚ a buon mercato. Gli effetti sociali di questo fenomeno, per quanto riguarda i paesi occidentali, sono facilmente imma...