Libertà e impero
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Libertà e impero

Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2016

Mario Del Pero

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Libertà e impero

Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2016

Mario Del Pero

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«L'ascesa degli Stati Uniti a grande e unica potenza del sistema internazionale è avvenuta sfruttando (e consolidando) una rete d'interdipendenze, create anche e soprattutto dagli Usa, che hanno poi finito per costringere gli stessi Stati Uniti, limitandone la libertà d'azione e riducendone in una qualche misura la sovranità»: ma cosa ha portato le tredici colonie nord-americane della Gran Bretagna a trasformarsi col tempo nella potenza egemone che conosciamo oggi?

Mario Del Pero racconta questa storia attraverso tre grandi fasi: la costruzione di un impero continentale mossa dall'ambizione di realizzare un unico Stato dalla costa atlantica a quella pacifica; l'affermazione, a cavallo tra Otto e Novecento, di un impero tra gli imperi; infine l'irresistibile ascesa dell'impero globale, interprete di una politica di potenza che dal secondo dopoguerra in avanti proietta nel mondo l'egemonia statunitense e fa degli Usa il garante degli equilibri geopolitici mondiali. Una iperpotenza unica per la sua superiorità assoluta e relativa, ma anche vulnerabile e spesso isolata. Capace, con l'elezione di Barack Obama – come sottolinea questa nuova edizione – di risollevarsi e rilanciare una volta ancora la propria immagine, ma non più in grado di imporre le proprie posizioni al resto del mondo.

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Information

Year
2017
ISBN
9788858129098

X. Nuovi conservatorismi, vecchi eccezionalismi

La crisi dell’egemonia statunitense rifletteva il più generale smarrimento politico e culturale che attraversava gli Stati Uniti e che metteva in discussione certezze antiche e verità fino ad allora non scalfibili. Quella attraversata dagli Stati Uniti era anche, se non primariamente, una crisi d’identità che obbligava a ripensare il ruolo del paese in un sistema internazionale cangiante e imprevedibile, a riadattare la strumentazione della sua politica estera e a rimodulare il discorso attraverso cui presentare tale politica. Vitale, in particolare, era costruire un rinnovato consenso interno capace di sostituire quello, ormai sempre più contestato e screditato, del ventennio precedente. Tramontata l’era del liberalismo della Guerra Fredda, appariva necessario aggiornare e se necessario trasformare l’armamentario strategico, culturale e discorsivo dell’internazionalismo statunitense, per garantirgli il necessario appoggio dell’opinione pubblica interna. Le scelte delle amministrazioni che seguirono quelle di Kennedy e Johnson furono tutte contraddistinte da questo sforzo: dal tentativo di modificare il discorso, le categorie e le pratiche dell’azione internazionale degli Stati Uniti e dall’impegno ad aggiornare codici, dottrine, analisi e prescrizioni della politica estera americana.

1. Potenza senza moralità: Kissinger, Nixon e la distensione

Richard Nixon vinse le elezioni presidenziali del 1968 approfittando delle divisioni interne al Partito democratico e promettendo una via d’uscita dall’intrattabile conflitto vietnamita. In realtà, il nuovo presidente – e il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Henry Kissinger – non avevano un piano preciso per porre termine al coinvolgimento statunitense in Vietnam né disponevano inizialmente di una strategia coerente e precisa attraverso cui fronteggiare le difficoltà che gli Stati Uniti incontravano sulla scena internazionale. I problemi da affrontare erano immensi, ancorché strettamente interdipendenti: il riarmo sovietico; la contestazione – interna e internazionale – degli Usa, della loro leadership e del loro modello di sviluppo; le difficoltà economiche, che imponevano di ripensare Bretton Woods e rendevano sempre meno praticabile il costoso globalismo della prima fase della Guerra Fredda; l’ascesa di soggetti nuovi, all’interno dello stesso mondo occidentale e capitalistico, capaci di competere in almeno alcune delle categorie su cui era stato fondato il primato americano1.
Il problema principale era evitare che la crisi d’egemonia di cui soffrivano gli Usa fosse acuita da un atteggiamento «limitazionista», come ebbe a definirlo uno dei consiglieri di Kissinger, lo scienziato politico Robert Osgood. Che il paese scegliesse non tanto la strada dell’isolazionismo, impraticabile nell’era dell’interdipendenza e comunque screditato politicamente e culturalmente, quanto quella di un graduale ripiegamento dai propri obblighi globali. Se ciò fosse avvenuto, si argomentava, gli Usa sarebbero stati incapaci di affrontare per tempo le nuove sfide che emergevano in diversi teatri della Guerra Fredda. Avrebbero assistito passivamente a un’ulteriore alterazione a vantaggio dell’Urss dell’equilibrio di potenza. Soprattutto, si sarebbero trovati costretti a fronteggiare una situazione inattesa e pericolosa: l’erosione di un ordine bipolare che ora entrambe le potenze ritenevano conveniente preservare e consolidare2.
Il modo in cui Nixon e Kissinger si confrontarono col rischio di una deriva «limitazionista» definì un primo tentativo di ripensare forme, strumenti e retorica della politica estera americana. Gradualmente questo sforzo s’indirizzò in tre direzioni fondamentali: la ricostruzione di un ampio consenso interno sulle scelte internazionali del paese; il coinvolgimento dell’Urss in una gestione sempre più negoziata e consensuale del bipolarismo, in particolare in Europa; la riduzione degli oneri di un interventismo globale, che non era più sopportabile né economicamente né politicamente.
Il primo obiettivo fu quello di ridare all’amministrazione e alla sua politica estera una base di sostegno solida e vasta negli Stati Uniti. Il disincanto nei confronti del contenimento e la manifestazione dei suoi costi, in particolare in Vietnam, aveva catalizzato forme plurime e competitive di contestazione del cold war liberalism. Kissinger e Nixon inserirono la loro proposta entro questo serrato dibattito tra idee antagonistiche sul futuro dell’azione internazionale degli Stati Uniti. Lo fecero facendo propria una retorica antitetica all’ottimistico universalismo del ventennio precedente, rappresentato in forme diverse sia dall’Nsc-68 sia dal modernismo kennediano. A un’opinione pubblica disorientata, disillusa e preoccupata dalla possibilità di un graduale declino del primato statunitense, Nixon e ancor più Kissinger offrirono una risposta che si rivelò inizialmente molto popolare: gli Stati Uniti non disponevano di mezzi illimitati; non potevano promuovere indistinte crociate globali in nome del contenimento del comunismo o, ancor peggio, di impraticabili utopie modernizzatrici; avevano un preciso interesse a preservare lo status quo, abbandonando l’illusione finalistica che la Guerra Fredda potesse terminare con una vittoria definitiva degli Stati Uniti. Per Kissinger si era giunti alla fine «dell’era postbellica» e ciò rendeva necessario, invero vitale, elaborare nuove concezioni strategiche «appropriate alla realtà degli anni Settanta»3.
Si assisteva così al passaggio da un discorso della possibilità a uno dei limiti. Il secondo strideva con alcuni elementi basilari dell’internazionalismo statunitense, in particolare l’enfasi sul destino e la missione degli Stati Uniti e sulle responsabilità globali che ne conseguivano. Questo messianismo universalistico era stato spesso contestato in passato. Solo a cavallo tra anni Sessanta e Settanta esso fu però pubblicamente rigettato da un’amministrazione in carica a favore di un approccio cauto e pragmatico, che invitava gli Stati Uniti a guardare fuori dai propri confini e dalla propria storia per trovare modelli e indicazioni su come condurre una politica estera coerente ed efficace. L’esempio da studiare, conoscere e imitare diventava paradossalmente l’Europa; proprio quell’Europa antitesi, alter ego e passato da cui emanciparsi che aveva rappresentato spesso il termine, in negativo, con il quale gli Usa si erano confrontati e nel quale si erano continuamente specchiati. A dare voce a ciò provvide proprio Henry Kissinger, lo studioso europeo prestato all’America, che da subito s’impegnò in un’intensa attività pedagogica per insegnare al paese le leggi, aspre ed eterne, della politica di potenza cui troppo spesso gli Usa avevano creduto possibile sottrarsi. La disponibilità degli americani a sostenere una politica estera attiva era sempre stata, secondo Kissinger, legata alla tendenza a trasformare tale politica in una «crociata morale». L’idealismo degli Stati Uniti aveva quindi contribuito a rendere il loro pensiero di politica estera particolarmente «inospitale a un approccio basato sul calcolo dell’interesse nazionale e sulle relazioni di potenza». Era però venuto il momento di «affrontare la dura realtà» e «imparare a condurre la politica estera come le altre nazioni» avevano «dovuto fare per molti secoli, senza fuga né tregua»4.
I limiti, ora acclarati, con cui doveva fare i conti anche la superpotenza statunitense imponevano un cambiamento di condotta, operativo, strategico e concettuale. Soprattutto, obbligavano ad adottare modelli di Realpolitik tipicamente europei, capaci di calibrare attentamente la definizione degli obiettivi della politica estera ai mezzi – ora finiti – di cui essa disponeva. Questa retorica – simil-realista e non sempre coerente – soffuse gradualmente il discorso di politica estera dell’amministrazione Nixon. Coerente con le riflessioni scientifiche e storiche del Kissinger studioso, in un primo momento essa si rivelò politicamente conveniente e funzionale alla coagulazione di un nuovo, ampio consenso interno sulle scelte di politica estera del paese. A un paese incerto, spaventato e – spesso – arrabbiato, Kissinger e Nixon sembravano offrire una via d’uscita rassicurante. Promettevano stabilità, ordine e disimpegno al posto di interventismo, trasformazione e sacrifici. Accoglievano (e contenevano) le pulsioni limitazioniste, conferendovi legittimità storica e strategica. Ponevano le premesse per una riduzione delle spese e degli impegni militari senza che ciò apparisse – fuori e dentro gli Usa – come una ritirata nella competizione per l’egemonia con Mosca. Una competizione, questa, da gestire con regole e pratiche nuove, disciplinandola, regolamentandola e impegnandosi a cooptare l’Urss in un controllo ordinato e consensuale del sistema internazionale5.
Questa enfasi sui limiti imponeva una diplomazia particolarmente attiva e intraprendente e richiedeva uno sforzo di «concettualizzazione» degli equilibri «geopolitici», per usare termini e categorie cari a Kissinger. L’architrave di questa svolta della politica estera statunitense doveva essere rappresentata dall’avvio di un vero processo di distensione con l’Unione Sovietica. A dispetto dei proclami sull’evoluzione in senso multipolare degli assetti internazionali, quella di Nixon e Kissinger rimaneva una visione e una strategia «maniacalmente bipolare». In termini di potenza e di raggio globale della propria capacità d’azione, un solo Stato poteva competere con gli Stati Uniti ed esso era ovviamente l’Unione Sovietica6.
Diversi fattori inducevano a cercare un dialogo e degli accordi con Mosca. A monte agiva un potente fattore strutturale: l’ineludibile interdipendenza strategica prodotta dalle armi nucleari, che univa le due superpotenze in un abbraccio al quale non si potevano sottrarre. Il Test Ban Treaty del 1963 e il trattato di non proliferazione del 1968 erano serviti per ridurre il pericolo di un’incontrollata diffusione degli ordigni atomici e per consolidare il duopolio nucleare di Usa e Urss. Negoziati diretti tra le due superpotenze avrebbero permesso di regolare la corsa agli armamenti e di consolidare il principio della deterrenza, sul quale entrambe le potenze avevano accettato di edificare la propria politica di sicurezza, limitando il rischio di un conflitto nucleare. Soprattutto, sarebbero serviti come comune denominatore di uno sforzo volto a recuperare l’Urss alla politica internazionale, facendole accettare la legittimità del sistema della Guerra Fredda e depotenziandone la natura eversiva e rivoluzionaria. Come gli Usa dovevano rinunciare al proprio finalismo idealista, così l’Urss doveva essere messa nelle condizioni di abbandonare in modo definitivo il proprio finalismo rivoluzionario. Né Washington né Mosca – asseriva Kissinger – potevano ambire a una vittoria finale; a porre termine alla Guerra Fredda. Attraverso la distensione sarebbe però stato possibile per gli Usa controllare e gestire la potenza sovietica, garantendone «l’accettazione de facto dell’ordine mondiale esistente»7.
Si trattava di un disegno che ben rivelava il suo volto geopoliticamente conservatore in Europa, dove Usa e Urss sembravano convergere in uno sforzo di stabilizzazione degli equilibri bipolari, che erano soggetti a tensioni diverse in entrambi i blocchi. Per le due superpotenze, tali equilibri andavano invece salvaguardati e puntell...

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