X. Nuovi conservatorismi, vecchi eccezionalismi
La crisi dellâegemonia statunitense rifletteva il piĂč generale smarrimento politico e culturale che attraversava gli Stati Uniti e che metteva in discussione certezze antiche e veritĂ fino ad allora non scalfibili. Quella attraversata dagli Stati Uniti era anche, se non primariamente, una crisi dâidentitĂ che obbligava a ripensare il ruolo del paese in un sistema internazionale cangiante e imprevedibile, a riadattare la strumentazione della sua politica estera e a rimodulare il discorso attraverso cui presentare tale politica. Vitale, in particolare, era costruire un rinnovato consenso interno capace di sostituire quello, ormai sempre piĂč contestato e screditato, del ventennio precedente. Tramontata lâera del liberalismo della Guerra Fredda, appariva necessario aggiornare e se necessario trasformare lâarmamentario strategico, culturale e discorsivo dellâinternazionalismo statunitense, per garantirgli il necessario appoggio dellâopinione pubblica interna. Le scelte delle amministrazioni che seguirono quelle di Kennedy e Johnson furono tutte contraddistinte da questo sforzo: dal tentativo di modificare il discorso, le categorie e le pratiche dellâazione internazionale degli Stati Uniti e dallâimpegno ad aggiornare codici, dottrine, analisi e prescrizioni della politica estera americana.
1. Potenza senza moralitĂ : Kissinger, Nixon e la distensione
Richard Nixon vinse le elezioni presidenziali del 1968 approfittando delle divisioni interne al Partito democratico e promettendo una via dâuscita dallâintrattabile conflitto vietnamita. In realtĂ , il nuovo presidente â e il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Henry Kissinger â non avevano un piano preciso per porre termine al coinvolgimento statunitense in Vietnam nĂ© disponevano inizialmente di una strategia coerente e precisa attraverso cui fronteggiare le difficoltĂ che gli Stati Uniti incontravano sulla scena internazionale. I problemi da affrontare erano immensi, ancorchĂ© strettamente interdipendenti: il riarmo sovietico; la contestazione â interna e internazionale â degli Usa, della loro leadership e del loro modello di sviluppo; le difficoltĂ economiche, che imponevano di ripensare Bretton Woods e rendevano sempre meno praticabile il costoso globalismo della prima fase della Guerra Fredda; lâascesa di soggetti nuovi, allâinterno dello stesso mondo occidentale e capitalistico, capaci di competere in almeno alcune delle categorie su cui era stato fondato il primato americano1.
Il problema principale era evitare che la crisi dâegemonia di cui soffrivano gli Usa fosse acuita da un atteggiamento «limitazionista», come ebbe a definirlo uno dei consiglieri di Kissinger, lo scienziato politico Robert Osgood. Che il paese scegliesse non tanto la strada dellâisolazionismo, impraticabile nellâera dellâinterdipendenza e comunque screditato politicamente e culturalmente, quanto quella di un graduale ripiegamento dai propri obblighi globali. Se ciĂČ fosse avvenuto, si argomentava, gli Usa sarebbero stati incapaci di affrontare per tempo le nuove sfide che emergevano in diversi teatri della Guerra Fredda. Avrebbero assistito passivamente a unâulteriore alterazione a vantaggio dellâUrss dellâequilibrio di potenza. Soprattutto, si sarebbero trovati costretti a fronteggiare una situazione inattesa e pericolosa: lâerosione di un ordine bipolare che ora entrambe le potenze ritenevano conveniente preservare e consolidare2.
Il modo in cui Nixon e Kissinger si confrontarono col rischio di una deriva «limitazionista» definĂŹ un primo tentativo di ripensare forme, strumenti e retorica della politica estera americana. Gradualmente questo sforzo sâindirizzĂČ in tre direzioni fondamentali: la ricostruzione di un ampio consenso interno sulle scelte internazionali del paese; il coinvolgimento dellâUrss in una gestione sempre piĂč negoziata e consensuale del bipolarismo, in particolare in Europa; la riduzione degli oneri di un interventismo globale, che non era piĂč sopportabile nĂ© economicamente nĂ© politicamente.
Il primo obiettivo fu quello di ridare allâamministrazione e alla sua politica estera una base di sostegno solida e vasta negli Stati Uniti. Il disincanto nei confronti del contenimento e la manifestazione dei suoi costi, in particolare in Vietnam, aveva catalizzato forme plurime e competitive di contestazione del cold war liberalism. Kissinger e Nixon inserirono la loro proposta entro questo serrato dibattito tra idee antagonistiche sul futuro dellâazione internazionale degli Stati Uniti. Lo fecero facendo propria una retorica antitetica allâottimistico universalismo del ventennio precedente, rappresentato in forme diverse sia dallâNsc-68 sia dal modernismo kennediano. A unâopinione pubblica disorientata, disillusa e preoccupata dalla possibilitĂ di un graduale declino del primato statunitense, Nixon e ancor piĂč Kissinger offrirono una risposta che si rivelĂČ inizialmente molto popolare: gli Stati Uniti non disponevano di mezzi illimitati; non potevano promuovere indistinte crociate globali in nome del contenimento del comunismo o, ancor peggio, di impraticabili utopie modernizzatrici; avevano un preciso interesse a preservare lo status quo, abbandonando lâillusione finalistica che la Guerra Fredda potesse terminare con una vittoria definitiva degli Stati Uniti. Per Kissinger si era giunti alla fine «dellâera postbellica» e ciĂČ rendeva necessario, invero vitale, elaborare nuove concezioni strategiche «appropriate alla realtĂ degli anni Settanta»3.
Si assisteva cosĂŹ al passaggio da un discorso della possibilitĂ a uno dei limiti. Il secondo strideva con alcuni elementi basilari dellâinternazionalismo statunitense, in particolare lâenfasi sul destino e la missione degli Stati Uniti e sulle responsabilitĂ globali che ne conseguivano. Questo messianismo universalistico era stato spesso contestato in passato. Solo a cavallo tra anni Sessanta e Settanta esso fu perĂČ pubblicamente rigettato da unâamministrazione in carica a favore di un approccio cauto e pragmatico, che invitava gli Stati Uniti a guardare fuori dai propri confini e dalla propria storia per trovare modelli e indicazioni su come condurre una politica estera coerente ed efficace. Lâesempio da studiare, conoscere e imitare diventava paradossalmente lâEuropa; proprio quellâEuropa antitesi, alter ego e passato da cui emanciparsi che aveva rappresentato spesso il termine, in negativo, con il quale gli Usa si erano confrontati e nel quale si erano continuamente specchiati. A dare voce a ciĂČ provvide proprio Henry Kissinger, lo studioso europeo prestato allâAmerica, che da subito sâimpegnĂČ in unâintensa attivitĂ pedagogica per insegnare al paese le leggi, aspre ed eterne, della politica di potenza cui troppo spesso gli Usa avevano creduto possibile sottrarsi. La disponibilitĂ degli americani a sostenere una politica estera attiva era sempre stata, secondo Kissinger, legata alla tendenza a trasformare tale politica in una «crociata morale». Lâidealismo degli Stati Uniti aveva quindi contribuito a rendere il loro pensiero di politica estera particolarmente «inospitale a un approccio basato sul calcolo dellâinteresse nazionale e sulle relazioni di potenza». Era perĂČ venuto il momento di «affrontare la dura realtà » e «imparare a condurre la politica estera come le altre nazioni» avevano «dovuto fare per molti secoli, senza fuga nĂ© tregua»4.
I limiti, ora acclarati, con cui doveva fare i conti anche la superpotenza statunitense imponevano un cambiamento di condotta, operativo, strategico e concettuale. Soprattutto, obbligavano ad adottare modelli di Realpolitik tipicamente europei, capaci di calibrare attentamente la definizione degli obiettivi della politica estera ai mezzi â ora finiti â di cui essa disponeva. Questa retorica â simil-realista e non sempre coerente â soffuse gradualmente il discorso di politica estera dellâamministrazione Nixon. Coerente con le riflessioni scientifiche e storiche del Kissinger studioso, in un primo momento essa si rivelĂČ politicamente conveniente e funzionale alla coagulazione di un nuovo, ampio consenso interno sulle scelte di politica estera del paese. A un paese incerto, spaventato e â spesso â arrabbiato, Kissinger e Nixon sembravano offrire una via dâuscita rassicurante. Promettevano stabilitĂ , ordine e disimpegno al posto di interventismo, trasformazione e sacrifici. Accoglievano (e contenevano) le pulsioni limitazioniste, conferendovi legittimitĂ storica e strategica. Ponevano le premesse per una riduzione delle spese e degli impegni militari senza che ciĂČ apparisse â fuori e dentro gli Usa â come una ritirata nella competizione per lâegemonia con Mosca. Una competizione, questa, da gestire con regole e pratiche nuove, disciplinandola, regolamentandola e impegnandosi a cooptare lâUrss in un controllo ordinato e consensuale del sistema internazionale5.
Questa enfasi sui limiti imponeva una diplomazia particolarmente attiva e intraprendente e richiedeva uno sforzo di «concettualizzazione» degli equilibri «geopolitici», per usare termini e categorie cari a Kissinger. Lâarchitrave di questa svolta della politica estera statunitense doveva essere rappresentata dallâavvio di un vero processo di distensione con lâUnione Sovietica. A dispetto dei proclami sullâevoluzione in senso multipolare degli assetti internazionali, quella di Nixon e Kissinger rimaneva una visione e una strategia «maniacalmente bipolare». In termini di potenza e di raggio globale della propria capacitĂ dâazione, un solo Stato poteva competere con gli Stati Uniti ed esso era ovviamente lâUnione Sovietica6.
Diversi fattori inducevano a cercare un dialogo e degli accordi con Mosca. A monte agiva un potente fattore strutturale: lâineludibile interdipendenza strategica prodotta dalle armi nucleari, che univa le due superpotenze in un abbraccio al quale non si potevano sottrarre. Il Test Ban Treaty del 1963 e il trattato di non proliferazione del 1968 erano serviti per ridurre il pericolo di unâincontrollata diffusione degli ordigni atomici e per consolidare il duopolio nucleare di Usa e Urss. Negoziati diretti tra le due superpotenze avrebbero permesso di regolare la corsa agli armamenti e di consolidare il principio della deterrenza, sul quale entrambe le potenze avevano accettato di edificare la propria politica di sicurezza, limitando il rischio di un conflitto nucleare. Soprattutto, sarebbero serviti come comune denominatore di uno sforzo volto a recuperare lâUrss alla politica internazionale, facendole accettare la legittimitĂ del sistema della Guerra Fredda e depotenziandone la natura eversiva e rivoluzionaria. Come gli Usa dovevano rinunciare al proprio finalismo idealista, cosĂŹ lâUrss doveva essere messa nelle condizioni di abbandonare in modo definitivo il proprio finalismo rivoluzionario. NĂ© Washington nĂ© Mosca â asseriva Kissinger â potevano ambire a una vittoria finale; a porre termine alla Guerra Fredda. Attraverso la distensione sarebbe perĂČ stato possibile per gli Usa controllare e gestire la potenza sovietica, garantendone «lâaccettazione de facto dellâordine mondiale esistente»7.
Si trattava di un disegno che ben rivelava il suo volto geopoliticamente conservatore in Europa, dove Usa e Urss sembravano convergere in uno sforzo di stabilizzazione degli equilibri bipolari, che erano soggetti a tensioni diverse in entrambi i blocchi. Per le due superpotenze, tali equilibri andavano invece salvaguardati e puntell...