Rotta di collisione
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Rotta di collisione

Euro contro welfare?

Maurizio Ferrera

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Rotta di collisione

Euro contro welfare?

Maurizio Ferrera

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L'Europa dei vincoli e delle sanzioni ha superato il limite. Servono nuove formule per riconciliare integrazione economica e modello sociale europeo.

La Ue sta indebolendo lo stato sociale dei suoi Paesi membri? Perché è così difficile far convivere solidarietà nazionale e integrazione economica europea?Sono interrogativi dettati dalle scelte fatte negli ultimi anni dalle autorità sovranazionali dell'Unione, che hanno colpito soprattutto i giovani e le fasce vulnerabili della popolazione. La riconciliazione tra welfare ed Europa non è una missione impossibile. Essa richiede però un ambizioso lavoro intellettuale e politico. Occorre elaborare un modello di Unione che consenta alla democrazia e al welfare di funzionare anche in un'economia integrata. E intorno a questo modello bisogna costruire il necessario consenso, fra paesi e fra cittadini.Maurizio Ferrera formula proposte concrete per muovere in questa direzione e sollecita le élites nazionali e le autorità di Bruxelles a impegnarsi in un serio investimento politico per rafforzare la Ue e accrescere la sua capacità di garantire protezione sociale e sicurezza esterna. Solo così il progetto europeo potrà produrre benefici diffusi ed equamente distribuiti e dunque riconquistare la legittimità perduta.

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Information

Year
2016
ISBN
9788858124758

1.
Europa e welfare:
incontro o scontro?

Quattro linee di conflitto

L’edificazione del Welfare State a livello nazionale e l’integrazione sempre più stretta fra i Paesi del Vecchio Continente sono stati gli obiettivi politici e ideali più salienti del secondo Novecento e insieme le sue eredità più preziose. Nell’ultimo ventennio queste due costruzioni istituzionali sono tuttavia entrate in una crisi profonda e, quel che è peggio, sembrano aver imboccato una rotta di reciproca collisione. Il Welfare State nazionale svolge funzioni economiche, sociali e politiche essenziali, ma pone oggi sfide di sostenibilità finanziaria a lungo termine, soprattutto a causa del crescente invecchiamento demografico. Inoltre molti suoi programmi sono diventati rigidi e obsoleti: proteggono rischi che non generano più bisogni e, viceversa, trascurano i nuovi rischi, connessi alle tumultuose trasformazioni che economia e società hanno registrato nell’ultimo ventennio: pensiamo alla precarietà lavorativa, all’erosione delle competenze professionali, alla conciliazione fra vita lavorativa e vita familiare, alla non autosufficienza, alle nuove forme di povertà ed esclusione.
L’Unione europea è a sua volta essenziale per promuovere la crescita e assicurare stabilità macroeconomica nel contesto globale. Ma le regole che si è data per il governo del mercato unico e la moneta comune non sono all’altezza del compito2. Per certi aspetti, anzi, lo rendono più difficile da perseguire. Inoltre l’integrazione economica tende a minare le fondamenta istituzionali del welfare nazionale: ossia il diritto sovrano dello Stato di determinare i confini, le forme e l’estensione della solidarietà, compresi i livelli di tassazione e di spesa. Quali sono, esattamente, gli aspetti problematici del rapporto fra le due sfere istituzionali – welfare ed Europa (l’euro, in particolare)? Quali le loro cause, la loro natura? E, soprattutto, è possibile promuovere una riconciliazione, salvaguardando così i tratti essenziali del modello sociale europeo (alti livelli di protezione e inclusione sociale per tutti i cittadini) anche nel contesto di una «unione sempre più stretta» fra Paesi?
Le tensioni tra welfare nazionale e integrazione europea sono andate progressivamente accumulandosi a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Con il completamento del mercato unico, dell’Unione economica e monetaria, e in particolare con la costituzione dell’Eurozona, uno «spazio economico» sempre più robusto ha incapsulato passo dopo passo le istituzioni di welfare nazionali, imponendo vincoli esogeni al loro funzionamento. Durante la crisi finanziaria, il contrasto fra le esigenze di protezione sociale e l’austerità imposta dalla Uem è rapidamente aumentato ed è sconfinato nell’arena elettorale, dove ha generato una turbolenta giustapposizione fra i tradizionali partiti filoeuropei e le formazioni euroscettiche. La crisi ha inoltre attivato il latente conflitto distributivo tra gli Stati membri più ricchi e più forti (che sono anche i grandi contribuenti netti al bilancio Ue) e gli Stati membri più poveri e deboli. La questione di una «Unione dei sussidi» (Transfer Union, un’espressione in prevalenza dispregiativa) ha acquisito sempre maggiore rilevanza politica e viene sempre più spesso agitata come spauracchio da parte dell’euroscetticismo di matrice germanica.
La tensione di carattere generale fra solidarietà su scala nazionale e integrazione economica su scala europea si articola in quattro sottotensioni distinte. La prima oppone la dimensione economica e quella sociale del processo d’integrazione in quanto tale e riguarda la missione strategica della Ue e la sua governance, programmaticamente sbilanciata a favore delle misure pro mercato e a sfavore di quelle pro welfare. La seconda (e oggi forse più visibile) linea di tensione riguarda il funzionamento dell’Eurozona e oppone Nord e Sud, Paesi core (centrali, dal punto di vista economico) e Paesi periferici, «creditori» e «debitori». La terza linea corre da Ovest a Est, riguarda soprattutto la libera circolazione (dei lavoratori, delle imprese, dei servizi) nel mercato interno e oppone i Paesi con welfare consolidato (generoso e costoso) e Paesi con welfare relativamente limitato, con bassi costi del lavoro e bassa regolazione. Si tratta in altre parole di una concorrenza fra sistemi regolativi diversi, attivata soprattutto dagli allargamenti ad Est avvenuti fra il 2004 e il 2013. La quarta e ultima linea di tensione è di natura verticale: Bruxelles (le istituzioni sovranazionali) contro Stati membri (i governi nazionali e la loro sovranità in ambiti ritenuti cruciali come le pensioni o il mercato del lavoro). Sono queste quattro linee di tensione a destabilizzare oggi l’equilibrio sia del welfare sia dell’Unione europea, fino a minacciarne le storiche realizzazioni. Esaminiamole più nel dettaglio una per una.

Europa economica contro Europa sociale

Le origini di questa tensione risalgono agli anni Ottanta. Per uscire dalla stagflazione e dalla cosiddetta «eurosclerosi», con l’Atto Unico Europeo del 1986 la Ue lanciò un ambizioso programma di rilancio del mercato interno, essenzialmente basato sull’integrazione «negativa», ossia il progressivo smantellamento delle barriere nazionali a ostacolo della libera circolazione e il parallelo rafforzamento delle norme a tutela della libera concorrenza. Il socialista Jacques Delors, allora presidente della Commissione, cercò di incorporare all’interno di quell’incisivo processo di mercatizzazione e liberalizzazione su scala continentale una dimensione sociale: il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali dei lavoratori, la fissazione di standard comuni di protezione, la valorizzazione del «dialogo sociale» anche a livello sovranazionale. Gli sforzi della Commissione Delors ebbero qualche effetto: ad esempio nel Trattato di Maastricht (1992) fu incluso un Protocollo ad hoc a difesa, appunto, della dimensione sociale della neoistituita Unione europea.
Tuttavia, per varie ragioni (inclusa la feroce opposizione del Regno Unito, allora governato dai conservatori) sin d’allora fu chiaro che la via dell’integrazione «positiva» (adozione di misure sovranazionali di correzione del mercato, sfruttando le nuove disposizioni del Trattato) era destinata a restare subordinata agli obiettivi e alle norme pro mercato: l’Europa sociale come semplice ancella dell’Europa economica. La convinzione dominante era che il bilanciamento fra Stato e mercato sarebbe comunque potuto avvenire a livello nazionale; che in fin dei conti l’integrazione economica avrebbe incentivato i governi a modernizzare il welfare, rendendolo più efficiente ed efficace; e che le norme su concorrenza e liberalizzazione non avrebbero inciso direttamente sulla legislazione sociale dei Paesi membri. Molti commentatori denunciarono i rischi di questo approccio e preconizzarono una vera e propria «corsa al ribasso» fra Paesi: riduzione delle prestazioni al fine di restare o diventare più competitivi all’interno del nuovo grande mercato. Molte di quelle preoccupazioni si rivelarono eccessive. Resta però il fatto che l’Atto Unico e il Trattato di Maastricht (insieme alla successiva giurisprudenza della Corte di Giustizia) diedero il via ad una progressiva erosione della sovranità sociale nazionale3.
Un solo esempio può dare l’idea di questa erosione e dei suoi effetti destabilizzanti. Agli inizi degli anni Novanta, sulla scia della liberalizzazione dei mercati assicurativi, alcuni settori della società francese (prevalentemente il lavoro autonomo) denunciarono come «illegale» nel nuovo ordinamento Ue il monopolio dello Stato sulla previdenza sociale. Sfidarono così di fronte alla Corte di Giustizia uno dei pilastri fondanti del Welfare State: l’assicurazione pubblica obbligatoria contro la vecchiaia e la malattia. Esaminando il caso, i giudici europei si accorsero che, in effetti, i Trattati non prevedevano una deroga specifica dalle norme su concorrenza e libera circolazione per i regimi previdenziali. Tutto il castello del welfare pubblico era in altre parole esposto al rischio di crollare: i cittadini avrebbero potuto sottrarsi all’obbligo di aderire agli schemi pubblici di assicurazione sociale (dunque, al pagamento dei contributi), e sottoscrivere invece polizze private o addirittura iscriversi a schemi previdenziali di altri Paesi.
Consapevole dell’enormità di questo scenario, la Corte elaborò una complessa dottrina volta a rimediare le lacune dei Trattati e diede torto ai ricorrenti (i signori Poucet e Pistre, due lavoratori autonomi francesi). Ma a tutt’oggi resta da definire sul piano costituzionale quali sono, esattamente, le norme legali che riguardano espressamente lo status dell’assicurazione sociale obbligatoria e che la isolano dalle pressioni della integrazione «negativa». Neppure i Trattati successivi a Maastricht (Amsterdam, Nizza e da ultimo il Trattato di Lisbona, nel 2009) hanno fatto chiarezza definitiva su questo punto. Ulteriori esempi si potrebbero fare in altri settori, soprattutto in riferimento ai limiti e alla validità della contrattazione collettiva o al distacco dei lavoratori da un Paese all’altro (su questo tema torneremo).
Il punto generale è il seguente: non solo c’è poca Europa nel sociale (ossia norme sovranazionali che tutelino e promuovano adeguati livelli di protezione, magari anche attraverso risorse finanziarie del bilancio Ue), ma l’Europa economica può spingersi anche al di là del suo ambito specifico, sfidando gli obiettivi e i margini d’azione delle politiche sociali nazionali e delle loro pratiche di governance. È da notare che questa constatazione prescinde da valutazioni di merito su quale sia il mix ottimale o più desiderabile fra mercato e welfare. La posta in gioco è più generale e, per così dire, formale: in caso di conflitto fra valori o istituzioni quali norme prevalgono? Nell’ordinamento Ue prevalgono quelle dell’Europa economica, ossia tutela della concorrenza e della libertà di circolazione. Qui sta una delle principali fonti di tensione.
Ma vi è una seconda fonte. Come è noto, il Trattato di Maastricht spianò la strada per l’istituzione di una vera e propria Unione economica a monetaria (Uem) fra i Paesi che avessero rispettato, entro il 1997, alcuni criteri relativi a deficit, debito, inflazione, stabilità del cambio e così via. La terza e ultima fase della Uem entrò in vigore a partire dal 1° gennaio 1998 e dal 2001 l’euro è diventato anche materialmente la moneta comune dei 19 Paesi (ad oggi) della cosiddetta Eurozona. Il governo dell’euro è stato affidato alla Banca centrale europea, il cui fondamentale obiettivo è la stabilità dei prezzi: inflazione entro il 2%. Siglando (già nel 1997) un Patto di stabilità e crescita, i Paesi Uem si sono impegnati a rispettare precisi vincoli di bilancio, sottoponendosi a un severo monitoraggio da parte della Commissione, con tanto di sanzioni economiche in caso di mancata ottemperanza. Come ebbe a dire Tommaso Padoa-Schioppa, anziché istituire un governo comune della moneta e dell’economia, la Uem scelse di inserire una sorta di «pilota automatico» basato su regole e procedure pre-stabilite valide per tutti i Paesi, sempre e comunque4.
I vincoli del Patto di stabilità e crescita sono stati ulteriormente irrigiditi durante la crisi. Il Fiscal Compact del 2012 ha introdotto tre importanti condizioni: il bilancio pubblico deve essere in pareggio (alcuni Paesi, fra cui l’Italia, hanno dovuto scriverlo in Costituzione); il deficit strutturale non può superare la soglia dello 0,5% del Pil (1% per i Paesi con debito pubblico inferiore al 60% del Pil); il rapporto fra debito pubblico e Pil deve essere ridotto ogni anno nella misura di un ventesimo della parte eccedente il 60% del Pil. La Banca centrale non può formalmente adottare politiche monetarie espansive (anche se Mario Draghi è riuscito ad aggirare almeno in parte questo vincolo a partire dal 2012) e men che meno operare «salvataggi» dei Paesi indebitati (vedi il caso della Grecia). Al di là dei preesistenti fondi strutturali (meno dell’1% del bilancio complessivo Ue), non sono previsti trasferimenti diretti fra Pae­si, neppure in caso di shock asimmetrici, ossia di turbolenze economiche che colpiscono con particolare virulenza solo una sottoarea dell’Unione.
Sappiamo che i vari Paesi entrarono a suo tempo nella Uem con finanze pubbliche e con potenziali di crescita in condizioni molto diverse, soprattutto per quanto riguarda il debito pubblico: sin dall’inizio Italia e Grecia erano le prime in graduatoria per indebitamento. L’Eurozona era lungi dall’essere, in altre parole, un’«area monetaria ottimale», quella che per la teoria economica rende possibile e vantaggiosa l’introduzione di una moneta comune. In che modo si pensava che i Paesi più deboli potessero far quadrare i conti e stimolare crescita e occupazione? Non essendo più possibile svalutare le monete nazionali, sostituite dall’euro, gli aggiustamenti fiscali ed economici avrebbero dovuto per forza basarsi su quella che gli esperti chiamano «svalutazione interna»: riduzione del costo del lavoro e delle spese sociali, oltre a tutte le misure possibili per guadagnare efficienza e competitività in un quadro di finanze pubbliche in equilibrio. È da qui che sono nati l’agenda delle «riforme strutturali», la filosofia del «compiti a casa», il «consenso di Francoforte-Bruxelles», l’«ortodossia di Maastricht»: insomma l’insieme di idee, prescrizioni, regole generalmente conosciute come il «paradigma dell’austerità»5.
Tale paradigma affonda le sue radici nella teoria monetarista, sposata nell’ultimo ventennio da un ampio numero di economisti (il premio Nobel americano Paul Krugman, uno dei principali «eretici», li ha definiti austerians). Almeno fino allo scoppio della crisi il paradigma dell’austerità era anche abbastanza in linea con gli orientamenti e gli interessi dei Paesi Uem, e soprattutto della Germania, terrorizzata dall’idea di essere chiamata a sussidiare direttamente o indirettamente i Paesi indebitati. La Grande Recessione ha messo però in luce tutti i limiti e le contraddizioni di questo paradigma. Non è che le riforme strutturali, i «compiti a casa», la competitività, i conti in ordine non vadano bene: tutt’altro. Il fatto è che non sono bastati e non bastano per rilanciare stabilmente crescita e occupazione dopo l’enorme shock della recessione: senza questa crescita, i Paesi deboli non sono in grado di uscire dalla trappola del debito. L’austerità, in altre parole, ha creato una sorta di circolo vizioso: vincoli di bilancio, svalutazioni interne, meno crescita, più debito (quest’ultimo è infatti misurato in rapporto al Pil). I mercati internazionali si sono accorti del circolo vizioso e ci è voluta tutta la perizia e la determinazione di Mario Draghi per difendere l’euro dalla speculazione ed evitare che l’Eurozona si rompesse.
Ma il rigore fiscale ha avuto anche altre conseguenze: i costi dell’aggiustamento hanno colpito soprattutto le fasce più vulnerabili della popolazione facendo aumentare diseguaglianze e povertà, in modo molto marcato nei Paesi del Sud Europa. Il paradigma dell’austerità poggia su tre pilastri: stabilità dei prezzi, finanze pubbliche in equilibrio, riforme strutturali sul versante dell’offerta (riduzione dei costi e più efficienza). Non dice nulla sui risvolti distributivi di questi pilastri, è praticamente muto sui temi delicati dell’equità, dell’inclusione, della coesione.
Sarebbe scorretto affermare che le autorità Ue (Commissione, Consiglio, Parlamento) e i leader nazionali abbiano interamente trascurato i risvolti distributivi delle politiche europee di austerità. Le due strategie per la convergenza economica avviate a partire dal 2000 («Lisbona» e «Europa 2020») e lo stesso Trattato di Lisbona (2009) hanno previsto una serie di norme e misure volte appunto a promuovere l’occupazione e l’inclusione e ad arricchire i sistemi nazionali di protezione con politiche di «investimento sociale» (politiche per l’infanzia, per la conciliazione, per l’istruzione e la formazione, per l’impiego e così via). Sono stati attivati diversi processi di «coordinamento aperto» per favorire l’individuazione di buone pratiche e l’apprendimento fra Paesi, sono stati predisposti indicatori che facilitano la misurazione dei progressi. Nei loro Programmi nazionali di riforma i Paesi membri sono oggi tenuti a presentare ogni primavera le proprie strategie su questi fronti e la Co...

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