1.
Europa e welfare:
incontro o scontro?
Quattro linee di conflitto
Lâedificazione del Welfare State a livello nazionale e lâintegrazione sempre piĂč stretta fra i Paesi del Vecchio Continente sono stati gli obiettivi politici e ideali piĂč salienti del secondo Novecento e insieme le sue ereditĂ piĂč preziose. Nellâultimo ventennio queste due costruzioni istituzionali sono tuttavia entrate in una crisi profonda e, quel che Ăš peggio, sembrano aver imboccato una rotta di reciproca collisione. Il Welfare State nazionale svolge funzioni economiche, sociali e politiche essenziali, ma pone oggi sfide di sostenibilitĂ finanziaria a lungo termine, soprattutto a causa del crescente invecchiamento demografico. Inoltre molti suoi programmi sono diventati rigidi e obsoleti: proteggono rischi che non generano piĂč bisogni e, viceversa, trascurano i nuovi rischi, connessi alle tumultuose trasformazioni che economia e societĂ hanno registrato nellâultimo ventennio: pensiamo alla precarietĂ lavorativa, allâerosione delle competenze professionali, alla conciliazione fra vita lavorativa e vita familiare, alla non autosufficienza, alle nuove forme di povertĂ ed esclusione.
LâUnione europea Ăš a sua volta essenziale per promuovere la crescita e assicurare stabilitĂ macroeconomica nel contesto globale. Ma le regole che si Ăš data per il governo del mercato unico e la moneta comune non sono allâaltezza del compito. Per certi aspetti, anzi, lo rendono piĂč difficile da perseguire. Inoltre lâintegrazione economica tende a minare le fondamenta istituzionali del welfare nazionale: ossia il diritto sovrano dello Stato di determinare i confini, le forme e lâestensione della solidarietĂ , compresi i livelli di tassazione e di spesa. Quali sono, esattamente, gli aspetti problematici del rapporto fra le due sfere istituzionali â welfare ed Europa (lâeuro, in particolare)? Quali le loro cause, la loro natura? E, soprattutto, Ăš possibile promuovere una riconciliazione, salvaguardando cosĂŹ i tratti essenziali del modello sociale europeo (alti livelli di protezione e inclusione sociale per tutti i cittadini) anche nel contesto di una «unione sempre piĂč stretta» fra Paesi?
Le tensioni tra welfare nazionale e integrazione europea sono andate progressivamente accumulandosi a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Con il completamento del mercato unico, dellâUnione economica e monetaria, e in particolare con la costituzione dellâEurozona, uno «spazio economico» sempre piĂč robusto ha incapsulato passo dopo passo le istituzioni di welfare nazionali, imponendo vincoli esogeni al loro funzionamento. Durante la crisi finanziaria, il contrasto fra le esigenze di protezione sociale e lâausteritĂ imposta dalla Uem Ăš rapidamente aumentato ed Ăš sconfinato nellâarena elettorale, dove ha generato una turbolenta giustapposizione fra i tradizionali partiti filoeuropei e le formazioni euroscettiche. La crisi ha inoltre attivato il latente conflitto distributivo tra gli Stati membri piĂč ricchi e piĂč forti (che sono anche i grandi contribuenti netti al bilancio Ue) e gli Stati membri piĂč poveri e deboli. La questione di una «Unione dei sussidi» (Transfer Union, unâespressione in prevalenza dispregiativa) ha acquisito sempre maggiore rilevanza politica e viene sempre piĂč spesso agitata come spauracchio da parte dellâeuroscetticismo di matrice germanica.
La tensione di carattere generale fra solidarietĂ su scala nazionale e integrazione economica su scala europea si articola in quattro sottotensioni distinte. La prima oppone la dimensione economica e quella sociale del processo dâintegrazione in quanto tale e riguarda la missione strategica della Ue e la sua governance, programmaticamente sbilanciata a favore delle misure pro mercato e a sfavore di quelle pro welfare. La seconda (e oggi forse piĂč visibile) linea di tensione riguarda il funzionamento dellâEurozona e oppone Nord e Sud, Paesi core (centrali, dal punto di vista economico) e Paesi periferici, «creditori» e «debitori». La terza linea corre da Ovest a Est, riguarda soprattutto la libera circolazione (dei lavoratori, delle imprese, dei servizi) nel mercato interno e oppone i Paesi con welfare consolidato (generoso e costoso) e Paesi con welfare relativamente limitato, con bassi costi del lavoro e bassa regolazione. Si tratta in altre parole di una concorrenza fra sistemi regolativi diversi, attivata soprattutto dagli allargamenti ad Est avvenuti fra il 2004 e il 2013. La quarta e ultima linea di tensione Ăš di natura verticale: Bruxelles (le istituzioni sovranazionali) contro Stati membri (i governi nazionali e la loro sovranitĂ in ambiti ritenuti cruciali come le pensioni o il mercato del lavoro). Sono queste quattro linee di tensione a destabilizzare oggi lâequilibrio sia del welfare sia dellâUnione europea, fino a minacciarne le storiche realizzazioni. Esaminiamole piĂč nel dettaglio una per una.
Europa economica contro Europa sociale
Le origini di questa tensione risalgono agli anni Ottanta. Per uscire dalla stagflazione e dalla cosiddetta «eurosclerosi», con lâAtto Unico Europeo del 1986 la Ue lanciĂČ un ambizioso programma di rilancio del mercato interno, essenzialmente basato sullâintegrazione «negativa», ossia il progressivo smantellamento delle barriere nazionali a ostacolo della libera circolazione e il parallelo rafforzamento delle norme a tutela della libera concorrenza. Il socialista Jacques Delors, allora presidente della Commissione, cercĂČ di incorporare allâinterno di quellâincisivo processo di mercatizzazione e liberalizzazione su scala continentale una dimensione sociale: il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali dei lavoratori, la fissazione di standard comuni di protezione, la valorizzazione del «dialogo sociale» anche a livello sovranazionale. Gli sforzi della Commissione Delors ebbero qualche effetto: ad esempio nel Trattato di Maastricht (1992) fu incluso un Protocollo ad hoc a difesa, appunto, della dimensione sociale della neoistituita Unione europea.
Tuttavia, per varie ragioni (inclusa la feroce opposizione del Regno Unito, allora governato dai conservatori) sin dâallora fu chiaro che la via dellâintegrazione «positiva» (adozione di misure sovranazionali di correzione del mercato, sfruttando le nuove disposizioni del Trattato) era destinata a restare subordinata agli obiettivi e alle norme pro mercato: lâEuropa sociale come semplice ancella dellâEuropa economica. La convinzione dominante era che il bilanciamento fra Stato e mercato sarebbe comunque potuto avvenire a livello nazionale; che in fin dei conti lâintegrazione economica avrebbe incentivato i governi a modernizzare il welfare, rendendolo piĂč efficiente ed efficace; e che le norme su concorrenza e liberalizzazione non avrebbero inciso direttamente sulla legislazione sociale dei Paesi membri. Molti commentatori denunciarono i rischi di questo approccio e preconizzarono una vera e propria «corsa al ribasso» fra Paesi: riduzione delle prestazioni al fine di restare o diventare piĂč competitivi allâinterno del nuovo grande mercato. Molte di quelle preoccupazioni si rivelarono eccessive. Resta perĂČ il fatto che lâAtto Unico e il Trattato di Maastricht (insieme alla successiva giurisprudenza della Corte di Giustizia) diedero il via ad una progressiva erosione della sovranitĂ sociale nazionale.
Un solo esempio puĂČ dare lâidea di questa erosione e dei suoi effetti destabilizzanti. Agli inizi degli anni Novanta, sulla scia della liberalizzazione dei mercati assicurativi, alcuni settori della societĂ francese (prevalentemente il lavoro autonomo) denunciarono come «illegale» nel nuovo ordinamento Ue il monopolio dello Stato sulla previdenza sociale. Sfidarono cosĂŹ di fronte alla Corte di Giustizia uno dei pilastri fondanti del Welfare State: lâassicurazione pubblica obbligatoria contro la vecchiaia e la malattia. Esaminando il caso, i giudici europei si accorsero che, in effetti, i Trattati non prevedevano una deroga specifica dalle norme su concorrenza e libera circolazione per i regimi previdenziali. Tutto il castello del welfare pubblico era in altre parole esposto al rischio di crollare: i cittadini avrebbero potuto sottrarsi allâobbligo di aderire agli schemi pubblici di assicurazione sociale (dunque, al pagamento dei contributi), e sottoscrivere invece polizze private o addirittura iscriversi a schemi previdenziali di altri Paesi.
Consapevole dellâenormitĂ di questo scenario, la Corte elaborĂČ una complessa dottrina volta a rimediare le lacune dei Trattati e diede torto ai ricorrenti (i signori Poucet e Pistre, due lavoratori autonomi francesi). Ma a tuttâoggi resta da definire sul piano costituzionale quali sono, esattamente, le norme legali che riguardano espressamente lo status dellâassicurazione sociale obbligatoria e che la isolano dalle pressioni della integrazione «negativa». Neppure i Trattati successivi a Maastricht (Amsterdam, Nizza e da ultimo il Trattato di Lisbona, nel 2009) hanno fatto chiarezza definitiva su questo punto. Ulteriori esempi si potrebbero fare in altri settori, soprattutto in riferimento ai limiti e alla validitĂ della contrattazione collettiva o al distacco dei lavoratori da un Paese allâaltro (su questo tema torneremo).
Il punto generale Ăš il seguente: non solo câĂš poca Europa nel sociale (ossia norme sovranazionali che tutelino e promuovano adeguati livelli di protezione, magari anche attraverso risorse finanziarie del bilancio Ue), ma lâEuropa economica puĂČ spingersi anche al di lĂ del suo ambito specifico, sfidando gli obiettivi e i margini dâazione delle politiche sociali nazionali e delle loro pratiche di governance. Ă da notare che questa constatazione prescinde da valutazioni di merito su quale sia il mix ottimale o piĂč desiderabile fra mercato e welfare. La posta in gioco Ăš piĂč generale e, per cosĂŹ dire, formale: in caso di conflitto fra valori o istituzioni quali norme prevalgono? Nellâordinamento Ue prevalgono quelle dellâEuropa economica, ossia tutela della concorrenza e della libertĂ di circolazione. Qui sta una delle principali fonti di tensione.
Ma vi Ăš una seconda fonte. Come Ăš noto, il Trattato di Maastricht spianĂČ la strada per lâistituzione di una vera e propria Unione economica a monetaria (Uem) fra i Paesi che avessero rispettato, entro il 1997, alcuni criteri relativi a deficit, debito, inflazione, stabilitĂ del cambio e cosĂŹ via. La terza e ultima fase della Uem entrĂČ in vigore a partire dal 1° gennaio 1998 e dal 2001 lâeuro Ăš diventato anche materialmente la moneta comune dei 19 Paesi (ad oggi) della cosiddetta Eurozona. Il governo dellâeuro Ăš stato affidato alla Banca centrale europea, il cui fondamentale obiettivo Ăš la stabilitĂ dei prezzi: inflazione entro il 2%. Siglando (giĂ nel 1997) un Patto di stabilitĂ e crescita, i Paesi Uem si sono impegnati a rispettare precisi vincoli di bilancio, sottoponendosi a un severo monitoraggio da parte della Commissione, con tanto di sanzioni economiche in caso di mancata ottemperanza. Come ebbe a dire Tommaso Padoa-Schioppa, anzichĂ© istituire un governo comune della moneta e dellâeconomia, la Uem scelse di inserire una sorta di «pilota automatico» basato su regole e procedure pre-stabilite valide per tutti i Paesi, sempre e comunque.
I vincoli del Patto di stabilitĂ e crescita sono stati ulteriormente irrigiditi durante la crisi. Il Fiscal Compact del 2012 ha introdotto tre importanti condizioni: il bilancio pubblico deve essere in pareggio (alcuni Paesi, fra cui lâItalia, hanno dovuto scriverlo in Costituzione); il deficit strutturale non puĂČ superare la soglia dello 0,5% del Pil (1% per i Paesi con debito pubblico inferiore al 60% del Pil); il rapporto fra debito pubblico e Pil deve essere ridotto ogni anno nella misura di un ventesimo della parte eccedente il 60% del Pil. La Banca centrale non puĂČ formalmente adottare politiche monetarie espansive (anche se Mario Draghi Ăš riuscito ad aggirare almeno in parte questo vincolo a partire dal 2012) e men che meno operare «salvataggi» dei Paesi indebitati (vedi il caso della Grecia). Al di lĂ dei preesistenti fondi strutturali (meno dellâ1% del bilancio complessivo Ue), non sono previsti trasferimenti diretti fra PaeÂsi, neppure in caso di shock asimmetrici, ossia di turbolenze economiche che colpiscono con particolare virulenza solo una sottoarea dellâUnione.
Sappiamo che i vari Paesi entrarono a suo tempo nella Uem con finanze pubbliche e con potenziali di crescita in condizioni molto diverse, soprattutto per quanto riguarda il debito pubblico: sin dallâinizio Italia e Grecia erano le prime in graduatoria per indebitamento. LâEurozona era lungi dallâessere, in altre parole, unâ«area monetaria ottimale», quella che per la teoria economica rende possibile e vantaggiosa lâintroduzione di una moneta comune. In che modo si pensava che i Paesi piĂč deboli potessero far quadrare i conti e stimolare crescita e occupazione? Non essendo piĂč possibile svalutare le monete nazionali, sostituite dallâeuro, gli aggiustamenti fiscali ed economici avrebbero dovuto per forza basarsi su quella che gli esperti chiamano «svalutazione interna»: riduzione del costo del lavoro e delle spese sociali, oltre a tutte le misure possibili per guadagnare efficienza e competitivitĂ in un quadro di finanze pubbliche in equilibrio. Ă da qui che sono nati lâagenda delle «riforme strutturali», la filosofia del «compiti a casa», il «consenso di Francoforte-Bruxelles», lâ«ortodossia di Maastricht»: insomma lâinsieme di idee, prescrizioni, regole generalmente conosciute come il «paradigma dellâausterità ».
Tale paradigma affonda le sue radici nella teoria monetarista, sposata nellâultimo ventennio da un ampio numero di economisti (il premio Nobel americano Paul Krugman, uno dei principali «eretici», li ha definiti austerians). Almeno fino allo scoppio della crisi il paradigma dellâausteritĂ era anche abbastanza in linea con gli orientamenti e gli interessi dei Paesi Uem, e soprattutto della Germania, terrorizzata dallâidea di essere chiamata a sussidiare direttamente o indirettamente i Paesi indebitati. La Grande Recessione ha messo perĂČ in luce tutti i limiti e le contraddizioni di questo paradigma. Non Ăš che le riforme strutturali, i «compiti a casa», la competitivitĂ , i conti in ordine non vadano bene: tuttâaltro. Il fatto Ăš che non sono bastati e non bastano per rilanciare stabilmente crescita e occupazione dopo lâenorme shock della recessione: senza questa crescita, i Paesi deboli non sono in grado di uscire dalla trappola del debito. LâausteritĂ , in altre parole, ha creato una sorta di circolo vizioso: vincoli di bilancio, svalutazioni interne, meno crescita, piĂč debito (questâultimo Ăš infatti misurato in rapporto al Pil). I mercati internazionali si sono accorti del circolo vizioso e ci Ăš voluta tutta la perizia e la determinazione di Mario Draghi per difendere lâeuro dalla speculazione ed evitare che lâEurozona si rompesse.
Ma il rigore fiscale ha avuto anche altre conseguenze: i costi dellâaggiustamento hanno colpito soprattutto le fasce piĂč vulnerabili della popolazione facendo aumentare diseguaglianze e povertĂ , in modo molto marcato nei Paesi del Sud Europa. Il paradigma dellâausteritĂ poggia su tre pilastri: stabilitĂ dei prezzi, finanze pubbliche in equilibrio, riforme strutturali sul versante dellâofferta (riduzione dei costi e piĂč efficienza). Non dice nulla sui risvolti distributivi di questi pilastri, Ăš praticamente muto sui temi delicati dellâequitĂ , dellâinclusione, della coesione.
Sarebbe scorretto affermare che le autoritĂ Ue (Commissione, Consiglio, Parlamento) e i leader nazionali abbiano interamente trascurato i risvolti distributivi delle politiche europee di austeritĂ . Le due strategie per la convergenza economica avviate a partire dal 2000 («Lisbona» e «Europa 2020») e lo stesso Trattato di Lisbona (2009) hanno previsto una serie di norme e misure volte appunto a promuovere lâoccupazione e lâinclusione e ad arricchire i sistemi nazionali di protezione con politiche di «investimento sociale» (politiche per lâinfanzia, per la conciliazione, per lâistruzione e la formazione, per lâimpiego e cosĂŹ via). Sono stati attivati diversi processi di «coordinamento aperto» per favorire lâindividuazione di buone pratiche e lâapprendimento fra Paesi, sono stati predisposti indicatori che facilitano la misurazione dei progressi. Nei loro Programmi nazionali di riforma i Paesi membri sono oggi tenuti a presentare ogni primavera le proprie strategie su questi fronti e la Co...