I comuni italiani
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I comuni italiani

Secoli XII-XIV

Giuliano Milani

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I comuni italiani

Secoli XII-XIV

Giuliano Milani

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Le vicende politiche e civili delle città dell'Italia centro-settentrionale dalla fine dell'XI all'inizio del XIV secolo: le loro relazioni con gli altri poteri, il papato, l'impero, le signorie; gli sviluppi istituzionali, le tensioni sociali e le evoluzioni amministrative in duecento anni cruciali nella storia italiana.

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Information

Year
2015
ISBN
9788858118559

1. La nascita dei comuni (1080-1190)

L’apparizione dei comuni fu parte di un processo più ampio: l’affermarsi dei poteri locali in seguito alla dissoluzione dello stato carolingio (1.1). Dalla fine del IX all’XI secolo i funzionari imperiali abbandonarono le città per sviluppare proprie signorie (1.2), lasciando i vescovi a supplire il potere pubblico e a rappresentare la cittadinanza (1.3).
Sulla base dei propri possedimenti, anche i vescovi tentarono di affermarsi come signori, raccogliendo attorno a sé una clientela e concedendole terre, ma innescarono, talvolta, reazioni da parte del resto della cittadinanza (1.4). Questo equilibrio precario fu scosso dagli interventi imperiali del primo secolo XI, che finirono per concedere privilegi alle clientele vescovili (1.5). Sia le tensioni interne alla cittadinanza, sia quelle tra cittadinanze e potere imperiale si intensificarono nel corso della lotta per le investiture (1.6).
Prima di allora l’assetto istituzionale urbano si era fondato sulla coesistenza tra funzionari pubblici o vescovili ed elementari organismi di consultazione della cittadinanza (1.7). Le associazioni giurate della fine del secolo XI dotarono la cittadinanza di un nuovo potere coercitivo (1.8), che aumentò con l’istituzione del consolato (1.9).
In principio il consolato costituì un’istituzione intermittente e coordinata con il vescovo (1.10), sorta per rispondere al bisogno di giustizia che nelle campagne e in città provocava la mobilità economica e la latitanza dei poteri di riferimento (1.11). A tale richiesta la città riuscì a rispondere (1.12) mediante la conduzione di arbitrati e processi (1.13), che spinsero i poteri delle campagne a riconoscerla, in forme diverse, come superiore (1.14).
La necessità di estendere la propria sfera di influenza commerciale portò le cittadinanze a intervenire più attivamente nel territorio mediante guerre, modifiche degli insediamenti e interventi di sottomissione (1.15). Queste azioni condussero a definire l’area di estensione del controllo cittadino, normalmente coincidente con la diocesi, con un termine che rimandava all’ordinamento pubblico: comitatus (1.16).
L’espansione delle città più potenti, in particolare Milano, denunciata dalle loro vicine più deboli costituì la causa per l’intervento di Federico I, che si presentò in Italia con un programma teso alla restaurazione dei diritti dell’impero (1.17). L’applicazione di tale programma scatenò la formazione di una struttura istituzionale intercittadina, la Lega lombarda (1.18), che riuscì a ottenere da Federico il riconoscimento ai comuni della possibilità di esercitare i diritti imperiali su città e territorio con la pace di Costanza (1.19).
La pace di Costanza catalizzò processi già avviati in precedenza: l’organizzazione del prelievo fiscale in città e nel territorio (1.20) e la riorganizzazione delle istituzioni (1.21), che rispondeva al bisogno di ordinare una società sempre più complessa (1.22), in cui la milizia urbana conservava un ruolo centrale (1.23).

1.1. La grande trasformazione: dall’impero ai poteri locali

A differenza di quanto si riteneva in passato, oggi la maggior parte degli storici è concorde nell’individuare nei secoli centrali del medioevo (X-XII) una delle grandi trasformazioni fautrici dell’assetto politico europeo. In questo periodo le diverse regioni su cui si era esteso il potere dell’impero fondato dai carolingi al principio del secolo IX parteciparono a un processo comune.
Fino all’inizio del secolo X circa, l’impero continuò ad amministrare per mezzo dei suoi funzionari le circoscrizioni in cui era suddiviso: i regni, i comitati e le marche. A partire da quell’epoca l’impero entrò in crisi. Tra la metà del secolo X e la metà del secolo XII, in questo vuoto, tutti i soggetti politici che avevano la forza di farlo cominciarono a costruire, dal basso, nuovi poli di potere. Signori laici ed ecclesiastici che possedevano un congruo patrimonio fondiario organizzarono attorno a sé clientele militari e si appropriarono, con strategie diverse, di diritti pubblici (amministrazione della giustizia, riscossione delle imposte, organizzazione della difesa militare) che un tempo erano stati prerogativa dell’impero e dei regni.
In questa lunga stagione – che un tempo era definita impropriamente «anarchia feudale» e che oggi si tende a qualificare come «ordine signorile» – la presenza dell’impero non scomparve. In alcuni momenti (fine secolo X, metà secolo XI, metà secolo XII) i successori degli imperatori si vollero presentare con maggiore forza e manifestarono più intensamente la volontà di restaurare la propria sovranità combattendo alcuni tra i nuovi poteri locali e stringendo relazioni di alleanza con altri. In altri momenti prevalse la debolezza e i sovrani si prodigarono in concessioni più generalizzate.
Verso la fine del secolo XII i poteri locali che si erano ampliati e, combattendo tra di loro, ridotti di numero erano riusciti in molti casi a ottenere riconoscimenti e a raggiungere una prima stabilizzazione nei propri domini territoriali. Solo allora la carta politica d’Europa cessò di avere l’aspetto di una multicolore superficie in ebollizione, composta da macchie irregolari tendenti a sfumare l’una nell’altra, e si presentò nuovamente come un mosaico formato da tessere chiaramente distinguibili nei loro confini, anche se molto diverse per dimensione e sostanza.
I comuni dell’Italia centro-settentrionale presero parte a questa evoluzione generale. Per quanto dotati di caratteristiche particolari rispetto al resto d’Europa, essi costituirono una forma di potere locale. Le loro particolarità appaiono bene nella celebre testimonianza di un contemporaneo. Scrivendo nel 1157, il tedesco Ottone, vescovo di Frisinga – allora al seguito di suo nipote, l’imperatore e re d’Italia Federico I detto Barbarossa –, nel suo viaggio in Italia annota, con qualche esagerazione, che gli abitanti di quella regione
amano a tal punto la libertà che per sottrarsi a un potere dispotico preferiscono farsi governare dal giudizio dei consoli che dall’arbitrio dei signori. […] E tutta la regione appare stabilmente divisa tra le singole città, che hanno costretto all’obbedienza tutti gli abitanti della diocesi, al punto che a stento si riuscirebbe a trovare, in un’area così vasta, qualche nobile o grande che non seguisse gli ordini della propria città. Hanno anzi la consuetudine di definire ciascun territorio sottoposto alla loro autorità comitatus della città.
Il governo collegiale dei cittadini sul territorio, l’essenza del comune italiano, era agli occhi di Ottone la prova che quello che stava visitando era un mondo alla rovescia: i nobili, che altrove costringevano all’obbedienza i sudditi di un’area definita, erano costretti a seguire gli ordini di città governate dai consoli.
Ma come risulta dallo stesso passo, nonostante queste cruciali differenze, i comuni erano percepiti come un potere locale. Per questa ragione, nelle pagine che seguono, per dar conto della loro apparizione, si proverà a rispondere a tre interrogativi: come, nel corso dei secoli precedenti alla nascita del comune, era entrata in crisi la struttura politica fondata sulla presenza del regno d’Italia inserito nell’impero; come l’iniziativa per la costruzione di poteri locali fu assunta dalle cittadinanze; e infine come tali cittadinanze entrarono in relazione con l’impero riuscendo infine a vedere riconosciuto il proprio potere.

1.2. La ruralizzazione dei funzionari pubblici cittadini

La parola comitatus, citata da Ottone di Frisinga, era piuttosto recente nel significato di territorio di pertinenza di un comune, ma aveva origini antiche. Con tale espressione era stata indicata la più diffusa tra le circoscrizioni pubbliche che i sovrani carolingi avevano disegnato nel regno d’Italia (regnum Ytalie) dopo aver conquistato quest’area sconfiggendo i longobardi (774). Oltre alle marche, ricavate nelle aree di frontiera (marca del Friuli, di Verona, di Tuscia, di Spoleto), dotate di una funzione militare strategica e sottoposte al potere di un marchese, i sovrani franchi, che avevano il titolo di re d’Italia, avevano creato, appunto, i comitati, circoscrizioni più o meno estese governate da un conte (comes) che quasi sempre risiedeva in una città (conte di Milano, Bergamo, Parma, Piacenza ecc.). I conti carolingi erano nominati dal re e spesso, come accadeva per molti funzionari di quell’impero, avevano con il re anche un rapporto di tipo feudale, ovvero vassallatico-beneficiario: giuravano fedeltà al sovrano dichiarandosi suoi vassalli e in cambio ricevevano un beneficio, costituito da risorse di vario genere, prima di tutto terra. In tal modo gli imperatori cercavano di assicurarsi più strettamente l’obbedienza dei loro ufficiali.
Come nel resto dell’impero, i conti convocavano gli uomini liberi tenuti alla prestazione del servizio militare; presiedevano l’assemblea del placito durante la quale decidevano in merito alle controversie su beni e diritti; giudicavano nelle cause di giustizia, in particolare quelle che riguardavano crimini maggiori, come l’omicidio e l’adulterio; riscuotevano le multe; guidavano l’esercito in guerra e, in qualità di capi, provvedevano a far pagare agli abitanti del comitato il fodro, una tassa che serviva al pagamento delle spese militari.
Il radicamento come funzionari di alcune famiglie franche fece sì che anche quando la dinastia carolingia si esaurì e in Italia si aprì una lotta tra gli aspiranti alla corona (fine secolo IX) il potere di conti e marchesi non venisse meno in maniera improvvisa. Scorrendo la documentazione si ricava per esempio che nel secondo quarto del X secolo una grave vertenza tra i cittadini veronesi e il loro vescovo fu giudicata dal conte. Uno studio condotto sui placiti mostra che fino al 950 circa la giustizia era esercitata quasi sempre dalle autorità pubbliche e sempre nei luoghi ufficiali del potere come il palazzo del conte. Ma in seguito le cause, prima quelle meno importanti, poi tutte, cominciarono a essere tenute nelle case della nobiltà urbana. Si trattava dell’effetto di un progressivo spostamento verso zone esterne alla città degli interessi politici dei conti, dei marchesi e delle loro dinastie, su cui il regno, indebolito dalle lotte, andava perdendo capacità di controllo.
Comune a tutta l’area ex carolingia fu la tendenza degli ufficiali a sganciarsi dall’autorità del regno in dissoluzione mediante la «dinastizzazione», cioè la trasmissione della carica e del titolo ai propri discendenti, l’accumulo di possessi fondiari e la costruzione di una rete clientelare fondata su vincoli feudali, cioè vassallatico-beneficiari, al fine di costituire signorie e farsele, eventualmente, riconoscere dai re. In alcune zone i nobili svilupparono signorie mantenendo la città come base del proprio potere. Fu il caso, fuori d’Italia, delle contee (per esempio la contea di Tolosa), che le dinastie dei conti costruirono a partire dagli antichi comitati senza interrompere il proprio ruolo di ufficiali pubblici e controllando la politica cittadina. Oppure ciò avvenne quando le dinastie trasformarono la circoscrizione (o le circoscrizioni) che controllavano in principati territoriali, sganciandosi dal proprio ruolo di ufficiali del regno, ma mantenendo la città come centro della dominazione.
In Italia queste vie furono tentate tra X e XI secolo, ma non ebbero quasi mai un successo duraturo. Stirpi come gli Arduinici, discendenti dei conti di Torino, e i Canossa, in origine vassalli regi, poi titolari di funzioni comitali (a Reggio, Modena, Mantova e Ferrara) e marchionali (in Toscana), provarono a realizzare grandi dominazioni estese su più comitati, ma per ragioni diverse non vi riuscirono. In questi e in altri insuccessi, oltre agli elementi di crisi interna tipici di ogni dominio dinastico (l’estinzione della famiglia, le suddivisioni tra i vari rami dei discendenti), pesò la difficoltà a conservare il potere su società urbane più difficili da egemonizzare di quanto non lo fossero quelle rurali, perché più ricche, organizzate e tendenti nei loro strati superiori a raccordarsi attorno non a uno ma a più signori feudali. Fu in questo modo che stirpi comitali e marchionali concentrarono i loro interessi e i loro progetti nelle campagne, lasciando le città prive di un rappresentante del potere pubblico.

1.3. Il potere dei vescovi e i suoi limiti fino alla fine del X secolo

Forse per le società urbane la ruralizzazione dei conti, che faceva sparire un fondamentale strumento di relazione con il regno, costituì, almeno in una prima fase, un elemento di crisi più che un successo; lo testimoniano gli sforzi fatti da quelle stesse società per trovare altri canali di comunicazione con il potere pubblico del re. Da questi sforzi, in una prima fase, uscì rafforzato il potere dei vescovi.
Nel tardo impero romano l’ordinamento territoriale cristiano aveva imitato quello municipale romano. Le comunità di fedeli erano state affidate a vescovi, residenti in città e responsabili di una circoscrizione, la diocesi, che si estendeva nel territorio circostante il centro urbano. Il potere dei vescovi consisteva originariamente nella salvaguardia della comunità dei fedeli e dunque comprendeva il controllo del culto, il reclutamento del clero diocesano e l’esercizio di alcune funzioni connesse con i fondamenti della missione cristiana, come la protezione dei deboli e il mantenimento della pace. Sin dalle origini, tuttavia, in momenti di particolare crisi del potere pubblico, queste funzioni erano andate precisandosi in poteri di natura civile come il controllo sui rifornimenti alimentari della città, l’organizzazione di lavori pubblici, in particolare il consolidamento delle mura cittadine, l’assistenza alle vedove e agli orfani, l’esercizio della giurisdizione d’appello. Con lo spegnersi e poi la scomparsa della presenza imperiale in Italia, tra la metà del IX e la metà del X secolo, i vescovi continuarono a esercitare tutti questi poteri, ma nel quadro di una nuova relazione con il regno, poiché i sovrani carolingi e soprattutto i primi re d’Italia concessero ai vescovi diplomi che li dotavano di cospicue basi di potere.
Sin dal tempo di Carlo Magno i sovrani franchi avevano cercato di inquadrare i vescovi nell’ordinamento pubblico. Tale scelta si spiega considerando due fattori. In primo luogo, il nuovo impero, nato dalla legittimazione del pontefice, volle rendere obbligatorio il rispetto delle norme religiose oltre a quello delle leggi civili e incaricò i vescovi di vigilare a questo scopo. Rispetto al periodo longobardo, in cui i vescovi avevano anche supplito alla relativa assenza dei funzionari pubblici, questa decisione non intendeva ampliare, ma semmai precisare i poteri che i vescovi esercitavano in ambito civile. In secondo luogo, i carolingi, che si trovavano a governare un territorio vastissimo che tendeva a sfuggire di mano, dotarono i vescovi della funzione di missi dominici, cioè di supervisori e controllori, per conto dell’imperatore, dell’esercizio del potere dei conti. A leggere le disposizioni carolinge, la scelta dei vescovi come missi fu legata alla volontà di scegliere controllori già di per sé ricchi e potenti, onde evitare la loro corruzione per opera di funzionari pubblici inaffidabili. Per la stessa ragione i carolingi concessero ad alcuni vescovi diplomi, cioè documenti, di immunità, con cui l’episcopio veniva dichiarato «immune», cioè non tenuto a rispondere al potere d...

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