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I comuni italiani
Secoli XII-XIV
Giuliano Milani
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I comuni italiani
Secoli XII-XIV
Giuliano Milani
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Le vicende politiche e civili delle cittĂ dell'Italia centro-settentrionale dalla fine dell'XI all'inizio del XIV secolo: le loro relazioni con gli altri poteri, il papato, l'impero, le signorie; gli sviluppi istituzionali, le tensioni sociali e le evoluzioni amministrative in duecento anni cruciali nella storia italiana.
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Thema
History1. La nascita dei comuni (1080-1190)
Lâapparizione dei comuni fu parte di un processo piĂč ampio: lâaffermarsi dei poteri locali in seguito alla dissoluzione dello stato carolingio (1.1). Dalla fine del IX allâXI secolo i funzionari imperiali abbandonarono le cittĂ per sviluppare proprie signorie (1.2), lasciando i vescovi a supplire il potere pubblico e a rappresentare la cittadinanza (1.3).
Sulla base dei propri possedimenti, anche i vescovi tentarono di affermarsi come signori, raccogliendo attorno a sé una clientela e concedendole terre, ma innescarono, talvolta, reazioni da parte del resto della cittadinanza (1.4). Questo equilibrio precario fu scosso dagli interventi imperiali del primo secolo XI, che finirono per concedere privilegi alle clientele vescovili (1.5). Sia le tensioni interne alla cittadinanza, sia quelle tra cittadinanze e potere imperiale si intensificarono nel corso della lotta per le investiture (1.6).
Prima di allora lâassetto istituzionale urbano si era fondato sulla coesistenza tra funzionari pubblici o vescovili ed elementari organismi di consultazione della cittadinanza (1.7). Le associazioni giurate della fine del secolo XI dotarono la cittadinanza di un nuovo potere coercitivo (1.8), che aumentĂČ con lâistituzione del consolato (1.9).
In principio il consolato costituĂŹ unâistituzione intermittente e coordinata con il vescovo (1.10), sorta per rispondere al bisogno di giustizia che nelle campagne e in cittĂ provocava la mobilitĂ economica e la latitanza dei poteri di riferimento (1.11). A tale richiesta la cittĂ riuscĂŹ a rispondere (1.12) mediante la conduzione di arbitrati e processi (1.13), che spinsero i poteri delle campagne a riconoscerla, in forme diverse, come superiore (1.14).
La necessitĂ di estendere la propria sfera di influenza commerciale portĂČ le cittadinanze a intervenire piĂč attivamente nel territorio mediante guerre, modifiche degli insediamenti e interventi di sottomissione (1.15). Queste azioni condussero a definire lâarea di estensione del controllo cittadino, normalmente coincidente con la diocesi, con un termine che rimandava allâordinamento pubblico: comitatus (1.16).
Lâespansione delle cittĂ piĂč potenti, in particolare Milano, denunciata dalle loro vicine piĂč deboli costituĂŹ la causa per lâintervento di Federico I, che si presentĂČ in Italia con un programma teso alla restaurazione dei diritti dellâimpero (1.17). Lâapplicazione di tale programma scatenĂČ la formazione di una struttura istituzionale intercittadina, la Lega lombarda (1.18), che riuscĂŹ a ottenere da Federico il riconoscimento ai comuni della possibilitĂ di esercitare i diritti imperiali su cittĂ e territorio con la pace di Costanza (1.19).
La pace di Costanza catalizzĂČ processi giĂ avviati in precedenza: lâorganizzazione del prelievo fiscale in cittĂ e nel territorio (1.20) e la riorganizzazione delle istituzioni (1.21), che rispondeva al bisogno di ordinare una societĂ sempre piĂč complessa (1.22), in cui la milizia urbana conservava un ruolo centrale (1.23).
1.1. La grande trasformazione: dallâimpero ai poteri locali
A differenza di quanto si riteneva in passato, oggi la maggior parte degli storici Ăš concorde nellâindividuare nei secoli centrali del medioevo (X-XII) una delle grandi trasformazioni fautrici dellâassetto politico europeo. In questo periodo le diverse regioni su cui si era esteso il potere dellâimpero fondato dai carolingi al principio del secolo IX parteciparono a un processo comune.
Fino allâinizio del secolo X circa, lâimpero continuĂČ ad amministrare per mezzo dei suoi funzionari le circoscrizioni in cui era suddiviso: i regni, i comitati e le marche. A partire da quellâepoca lâimpero entrĂČ in crisi. Tra la metĂ del secolo X e la metĂ del secolo XII, in questo vuoto, tutti i soggetti politici che avevano la forza di farlo cominciarono a costruire, dal basso, nuovi poli di potere. Signori laici ed ecclesiastici che possedevano un congruo patrimonio fondiario organizzarono attorno a sĂ© clientele militari e si appropriarono, con strategie diverse, di diritti pubblici (amministrazione della giustizia, riscossione delle imposte, organizzazione della difesa militare) che un tempo erano stati prerogativa dellâimpero e dei regni.
In questa lunga stagione â che un tempo era definita impropriamente «anarchia feudale» e che oggi si tende a qualificare come «ordine signorile» â la presenza dellâimpero non scomparve. In alcuni momenti (fine secolo X, metĂ secolo XI, metĂ secolo XII) i successori degli imperatori si vollero presentare con maggiore forza e manifestarono piĂč intensamente la volontĂ di restaurare la propria sovranitĂ combattendo alcuni tra i nuovi poteri locali e stringendo relazioni di alleanza con altri. In altri momenti prevalse la debolezza e i sovrani si prodigarono in concessioni piĂč generalizzate.
Verso la fine del secolo XII i poteri locali che si erano ampliati e, combattendo tra di loro, ridotti di numero erano riusciti in molti casi a ottenere riconoscimenti e a raggiungere una prima stabilizzazione nei propri domini territoriali. Solo allora la carta politica dâEuropa cessĂČ di avere lâaspetto di una multicolore superficie in ebollizione, composta da macchie irregolari tendenti a sfumare lâuna nellâaltra, e si presentĂČ nuovamente come un mosaico formato da tessere chiaramente distinguibili nei loro confini, anche se molto diverse per dimensione e sostanza.
I comuni dellâItalia centro-settentrionale presero parte a questa evoluzione generale. Per quanto dotati di caratteristiche particolari rispetto al resto dâEuropa, essi costituirono una forma di potere locale. Le loro particolaritĂ appaiono bene nella celebre testimonianza di un contemporaneo. Scrivendo nel 1157, il tedesco Ottone, vescovo di Frisinga â allora al seguito di suo nipote, lâimperatore e re dâItalia Federico I detto Barbarossa â, nel suo viaggio in Italia annota, con qualche esagerazione, che gli abitanti di quella regione
amano a tal punto la libertĂ che per sottrarsi a un potere dispotico preferiscono farsi governare dal giudizio dei consoli che dallâarbitrio dei signori. [âŠ] E tutta la regione appare stabilmente divisa tra le singole cittĂ , che hanno costretto allâobbedienza tutti gli abitanti della diocesi, al punto che a stento si riuscirebbe a trovare, in unâarea cosĂŹ vasta, qualche nobile o grande che non seguisse gli ordini della propria cittĂ . Hanno anzi la consuetudine di definire ciascun territorio sottoposto alla loro autoritĂ comitatus della cittĂ .
Il governo collegiale dei cittadini sul territorio, lâessenza del comune italiano, era agli occhi di Ottone la prova che quello che stava visitando era un mondo alla rovescia: i nobili, che altrove costringevano allâobbedienza i sudditi di unâarea definita, erano costretti a seguire gli ordini di cittĂ governate dai consoli.
Ma come risulta dallo stesso passo, nonostante queste cruciali differenze, i comuni erano percepiti come un potere locale. Per questa ragione, nelle pagine che seguono, per dar conto della loro apparizione, si proverĂ a rispondere a tre interrogativi: come, nel corso dei secoli precedenti alla nascita del comune, era entrata in crisi la struttura politica fondata sulla presenza del regno dâItalia inserito nellâimpero; come lâiniziativa per la costruzione di poteri locali fu assunta dalle cittadinanze; e infine come tali cittadinanze entrarono in relazione con lâimpero riuscendo infine a vedere riconosciuto il proprio potere.
1.2. La ruralizzazione dei funzionari pubblici cittadini
La parola comitatus, citata da Ottone di Frisinga, era piuttosto recente nel significato di territorio di pertinenza di un comune, ma aveva origini antiche. Con tale espressione era stata indicata la piĂč diffusa tra le circoscrizioni pubbliche che i sovrani carolingi avevano disegnato nel regno dâItalia (regnum Ytalie) dopo aver conquistato questâarea sconfiggendo i longobardi (774). Oltre alle marche, ricavate nelle aree di frontiera (marca del Friuli, di Verona, di Tuscia, di Spoleto), dotate di una funzione militare strategica e sottoposte al potere di un marchese, i sovrani franchi, che avevano il titolo di re dâItalia, avevano creato, appunto, i comitati, circoscrizioni piĂč o meno estese governate da un conte (comes) che quasi sempre risiedeva in una cittĂ (conte di Milano, Bergamo, Parma, Piacenza ecc.). I conti carolingi erano nominati dal re e spesso, come accadeva per molti funzionari di quellâimpero, avevano con il re anche un rapporto di tipo feudale, ovvero vassallatico-beneficiario: giuravano fedeltĂ al sovrano dichiarandosi suoi vassalli e in cambio ricevevano un beneficio, costituito da risorse di vario genere, prima di tutto terra. In tal modo gli imperatori cercavano di assicurarsi piĂč strettamente lâobbedienza dei loro ufficiali.
Come nel resto dellâimpero, i conti convocavano gli uomini liberi tenuti alla prestazione del servizio militare; presiedevano lâassemblea del placito durante la quale decidevano in merito alle controversie su beni e diritti; giudicavano nelle cause di giustizia, in particolare quelle che riguardavano crimini maggiori, come lâomicidio e lâadulterio; riscuotevano le multe; guidavano lâesercito in guerra e, in qualitĂ di capi, provvedevano a far pagare agli abitanti del comitato il fodro, una tassa che serviva al pagamento delle spese militari.
Il radicamento come funzionari di alcune famiglie franche fece sĂŹ che anche quando la dinastia carolingia si esaurĂŹ e in Italia si aprĂŹ una lotta tra gli aspiranti alla corona (fine secolo IX) il potere di conti e marchesi non venisse meno in maniera improvvisa. Scorrendo la documentazione si ricava per esempio che nel secondo quarto del X secolo una grave vertenza tra i cittadini veronesi e il loro vescovo fu giudicata dal conte. Uno studio condotto sui placiti mostra che fino al 950 circa la giustizia era esercitata quasi sempre dalle autoritĂ pubbliche e sempre nei luoghi ufficiali del potere come il palazzo del conte. Ma in seguito le cause, prima quelle meno importanti, poi tutte, cominciarono a essere tenute nelle case della nobiltĂ urbana. Si trattava dellâeffetto di un progressivo spostamento verso zone esterne alla cittĂ degli interessi politici dei conti, dei marchesi e delle loro dinastie, su cui il regno, indebolito dalle lotte, andava perdendo capacitĂ di controllo.
Comune a tutta lâarea ex carolingia fu la tendenza degli ufficiali a sganciarsi dallâautoritĂ del regno in dissoluzione mediante la «dinastizzazione», cioĂš la trasmissione della carica e del titolo ai propri discendenti, lâaccumulo di possessi fondiari e la costruzione di una rete clientelare fondata su vincoli feudali, cioĂš vassallatico-beneficiari, al fine di costituire signorie e farsele, eventualmente, riconoscere dai re. In alcune zone i nobili svilupparono signorie mantenendo la cittĂ come base del proprio potere. Fu il caso, fuori dâItalia, delle contee (per esempio la contea di Tolosa), che le dinastie dei conti costruirono a partire dagli antichi comitati senza interrompere il proprio ruolo di ufficiali pubblici e controllando la politica cittadina. Oppure ciĂČ avvenne quando le dinastie trasformarono la circoscrizione (o le circoscrizioni) che controllavano in principati territoriali, sganciandosi dal proprio ruolo di ufficiali del regno, ma mantenendo la cittĂ come centro della dominazione.
In Italia queste vie furono tentate tra X e XI secolo, ma non ebbero quasi mai un successo duraturo. Stirpi come gli Arduinici, discendenti dei conti di Torino, e i Canossa, in origine vassalli regi, poi titolari di funzioni comitali (a Reggio, Modena, Mantova e Ferrara) e marchionali (in Toscana), provarono a realizzare grandi dominazioni estese su piĂč comitati, ma per ragioni diverse non vi riuscirono. In questi e in altri insuccessi, oltre agli elementi di crisi interna tipici di ogni dominio dinastico (lâestinzione della famiglia, le suddivisioni tra i vari rami dei discendenti), pesĂČ la difficoltĂ a conservare il potere su societĂ urbane piĂč difficili da egemonizzare di quanto non lo fossero quelle rurali, perchĂ© piĂč ricche, organizzate e tendenti nei loro strati superiori a raccordarsi attorno non a uno ma a piĂč signori feudali. Fu in questo modo che stirpi comitali e marchionali concentrarono i loro interessi e i loro progetti nelle campagne, lasciando le cittĂ prive di un rappresentante del potere pubblico.
1.3. Il potere dei vescovi e i suoi limiti fino alla fine del X secolo
Forse per le societĂ urbane la ruralizzazione dei conti, che faceva sparire un fondamentale strumento di relazione con il regno, costituĂŹ, almeno in una prima fase, un elemento di crisi piĂč che un successo; lo testimoniano gli sforzi fatti da quelle stesse societĂ per trovare altri canali di comunicazione con il potere pubblico del re. Da questi sforzi, in una prima fase, uscĂŹ rafforzato il potere dei vescovi.
Nel tardo impero romano lâordinamento territoriale cristiano aveva imitato quello municipale romano. Le comunitĂ di fedeli erano state affidate a vescovi, residenti in cittĂ e responsabili di una circoscrizione, la diocesi, che si estendeva nel territorio circostante il centro urbano. Il potere dei vescovi consisteva originariamente nella salvaguardia della comunitĂ dei fedeli e dunque comprendeva il controllo del culto, il reclutamento del clero diocesano e lâesercizio di alcune funzioni connesse con i fondamenti della missione cristiana, come la protezione dei deboli e il mantenimento della pace. Sin dalle origini, tuttavia, in momenti di particolare crisi del potere pubblico, queste funzioni erano andate precisandosi in poteri di natura civile come il controllo sui rifornimenti alimentari della cittĂ , lâorganizzazione di lavori pubblici, in particolare il consolidamento delle mura cittadine, lâassistenza alle vedove e agli orfani, lâesercizio della giurisdizione dâappello. Con lo spegnersi e poi la scomparsa della presenza imperiale in Italia, tra la metĂ del IX e la metĂ del X secolo, i vescovi continuarono a esercitare tutti questi poteri, ma nel quadro di una nuova relazione con il regno, poichĂ© i sovrani carolingi e soprattutto i primi re dâItalia concessero ai vescovi diplomi che li dotavano di cospicue basi di potere.
Sin dal tempo di Carlo Magno i sovrani franchi avevano cercato di inquadrare i vescovi nellâordinamento pubblico. Tale scelta si spiega considerando due fattori. In primo luogo, il nuovo impero, nato dalla legittimazione del pontefice, volle rendere obbligatorio il rispetto delle norme religiose oltre a quello delle leggi civili e incaricĂČ i vescovi di vigilare a questo scopo. Rispetto al periodo longobardo, in cui i vescovi avevano anche supplito alla relativa assenza dei funzionari pubblici, questa decisione non intendeva ampliare, ma semmai precisare i poteri che i vescovi esercitavano in ambito civile. In secondo luogo, i carolingi, che si trovavano a governare un territorio vastissimo che tendeva a sfuggire di mano, dotarono i vescovi della funzione di missi dominici, cioĂš di supervisori e controllori, per conto dellâimperatore, dellâesercizio del potere dei conti. A leggere le disposizioni carolinge, la scelta dei vescovi come missi fu legata alla volontĂ di scegliere controllori giĂ di per sĂ© ricchi e potenti, onde evitare la loro corruzione per opera di funzionari pubblici inaffidabili. Per la stessa ragione i carolingi concessero ad alcuni vescovi diplomi, cioĂš documenti, di immunitĂ , con cui lâepiscopio veniva dichiarato «immune», cioĂš non tenuto a rispondere al potere d...