Controstoria del liberalismo
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Controstoria del liberalismo

Domenico Losurdo

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Controstoria del liberalismo

Domenico Losurdo

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Come spiegare che nell'ambito della tradizione liberale la celebrazione della libertà va spesso di pari passo con l'assimilazione dei lavoratori salariati a strumenti di lavoro e con la teorizzazione del dispotismo e persino della schiavitù a carico dei popoli coloniali? In questo volume Losurdo indaga le contraddizioni e le zone d'ombra da sempre trascurate dagli studiosi, siglando una controstoria che evidenzia la difficoltà di conciliare la difesa teorica delle libertà individuali con la realtà dei rapporti politici e sociali.

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Information

Year
2015
ISBN
9788858118344

Capitolo ottavo. Autocoscienza, falsa coscienza, conflitti della comunità dei liberi

1. Ritorno alla domanda: che cos’è il liberalismo? I ben nati, i liberi, i liberali

Dopo aver sommariamente ricostruito secoli di storia del liberalismo e dei concreti rapporti politico-sociali sviluppatisi in suo nome, conviene ritornare alla domanda dalla quale abbiamo preso le mosse. Si fa in genere risalire l’uso del termine «liberale» alle lotte politiche che si sviluppano in Spagna sull’onda della rivoluzione del 1812 e alla contrapposizione che si verifica tra i «liberali», impegnati nella difesa della Costituzione, e gli avversari bollati come «servili» dai primi. È solo a partire da quel momento che l’aggettivo si sarebbe trasformato in sostantivo. In realtà, già nell’America rivoluzionaria l’autore di un articolo contrario all’istituto della schiavitù si firma «A Liberal» (supra, cap. II, § 10). Ma non è questo il punto essenziale. Allorché ci imbattiamo in un testo del 1818, in cui Constant espone e sottoscrive il programma del «partito liberale», possiamo ben dire che siamo in presenza di un aggettivo1; chiaro è però il significato politico dell’espressione, e in essa è implicito il passaggio al sostantivo, chiamato a definire i membri del partito in questione. D’altro canto, non c’è grande differenza tra questa presa di posizione a favore del «partito liberale» e la presa di posizione a favore del «sistema politico liberale», che abbiamo visto fare la sua apparizione in un testo di Washington già nel 1783. E, dunque, il problema reale è di individuare il momento a partire dal quale, in parte ereditando in parte trasformando il significato consegnato da una lunga tradizione, il termine «liberale» comincia ad assumere il significato politico moderno: è questo il presupposto per il passaggio dall’aggettivo al sostantivo.
È una vicenda semantica che non può essere disgiunta dalla storia reale del movimento e delle rivoluzioni liberali. Possiamo prendere le mosse dalla Gloriosa Rivoluzione. Polemizzando contro Robert Filmer, sostenitore della tesi secondo la quale l’Onnipotente avrebbe conferito la proprietà e il dominio esclusivo della terra ad Adamo, primo monarca assoluto, Locke obietta che Dio ha invece concesso i suoi beni «con mano generosa» (with a liberal hand): l’ipotetico proprietario o monarca assoluto, il quale, piuttosto che dar prova di «liberale disponibilità» (liberal allowance), volesse approfittare della situazione di bisogno di tutti gli altri uomini per ridurli «a un duro servizio» (to hard service) o addirittura alla condizione propria del «vassallo» (Vassal), non agirebbe diversamente dal bandito che minaccia di morte un uomo per ridurlo in «schiavitù» (slavery: TT, I, 41-43). Chiaramente liberal è qui sinonimo di generoso; epperò, la liberale generosità di Dio è in contraddizione con la schiavitù politica che Filmer vorrebbe imporre a tutti gli uomini; il Dio costituzionale e liberale, qui in qualche modo presupposto, confuta le pretese del monarca assoluto. D’altro canto, la condizione «vile e miserabile» del «vassallo», dell’individuo sottoposto «a duro servizio», del servo ovvero dello «schiavo», è incompatibile col modo di essere e di sentire in primo luogo di un inglese e di un «gentiluomo», il quale respinge con sdegno da sé la visione servile in base alla quale «tutti nasciamo schiavi» (TT, I, 1, 4).
Hume, a sua volta, da un lato usa il termine liberal come sinonimo di disinteressato, generoso (disinterested, generous), dall’altro critica in quanto «illiberal» le agitazioni popolari e i tumulti plebei che caratterizzano la prima rivoluzione inglese2. In modo analogo Smith distingue, in campo morale, la visione «liberale» (liberal), propria delle classi agiate e insofferenti a divieti troppo rigidi per quanto riguarda il «lusso» e gli altri piaceri della vita, dalla visione «rigorosa o austera», propria delle classi più povere, le quali per forza di cose non possono indulgere alla «dissipazione» o alla «spensieratezza»3.
Nell’ambito della contrapposizione fra «liberali» e «servili», che si va delineando, l’atteggiamento «liberale» è definito per antitesi sia rispetto al potere assoluto del monarca che alla condizione servile o anche solo plebea. La dicotomia liberale/illiberale fa riferimento al divario e al conflitto sì tra due visioni del mondo, ma anche tra due condizioni sociali. Nel corso della rivoluzione americana, nel prendere posizione a favore della conciliazione coi coloni ribelli, Burke deplora le restrizioni apportate in Inghilterra, a causa della guerra, alla libertà individuale e si rammarica del fatto che «il governo liberale di questa libera nazione è appoggiato dalla spada mercenaria di contadini e vassalli [boors and vassals] tedeschi»4. E di nuovo la professione di fede liberale per un verso critica la dilatazione indebita del potere della Corona, per un altro verso prende le distanze dalle classi subalterne, assoggettate al lavoro e dunque servili. Si comprende allora lo sdegno del whig inglese nei confronti di coloro che, in nome di una sedicente e «indiscriminata» libertà, vorrebbero fare appello alle «braccia servili» di schiavi o di schiavi emancipati, al fine di stroncare la rivolta di coloni che, proprio in quanto proprietari di schiavi, maturano in modo particolarmente sentito quell’amore della libertà che deve albergare in ogni animo che non sia servile. E si comprende altresì che già nel 1790, a causa del ridimensionamento del peso politico della nobiltà, la «libertà» dei francesi appare allo statista inglese contaminata da «rozzezza e volgarità»: essa «non è liberale» (is not liberal)5. Contrapponendosi a tutto ciò che è volgare e plebeo, «liberale» tende a essere sinonimo di aristocratico; e, infatti, nei proprietari di schiavi della Virginia l’«alto spirito aristocratico» risulta strettamente intrecciato con uno «spirito di libertà», che si distingue per il suo carattere «più nobile e più liberale»6. Mentre rende omaggio al «governo liberale di questa libera nazione», Burke si dichiara membro del «partito aristocratico», il partito «connesso con la proprietà solida, permanente e di lunga data», e si sente impegnato a lottare con tutte le sue energie per «questi princìpi aristocratici e gli interessi ad essi connessi»7.
Nel corso della rivoluzione americana, assieme alla celebrazione che già conosciamo del «sistema politico liberale», in Washington si può leggere la celebrazione dei cultori delle «arti liberali», in contrapposizione ai «meccanici», agli immigrati di modesta condizione sociale provenienti dall’Europa8. Ma è soprattutto illuminante il discorso di John Adams. Perché si possa realizzare una libertà ordinata, a esercitare il potere non possono essere i «meccanici» e la gente comune «priva di qualsiasi cognizione nell’ambito delle scienze e delle arti liberali»; no, devono essere «coloro che hanno ricevuto un’educazione liberale, il consueto grado di erudizione nelle arti e nelle scienze liberali»; e costoro sono «i ben nati e i ricchi»9.
Anche in Francia il partito liberale, che si va costituendo, si definisce nel corso della polemica sì contro la monarchia assoluta ma anche, e forse soprattutto, contro le masse popolari e la loro volgarità. L’attenzione è rivolta al Terzo stato, a quegli ambienti dove «una sorta di agiatezza consente agli uomini di ricevere un’educazione liberale»10. A esprimersi così è Sieyès, che poi svolge un ruolo importante in occasione del 18 brumaio 1799. A suggellare il colpo di Stato è la «Proclamation du général en chef Bonaparte», che annuncia la «dispersione dei faziosi», cioè dell’agitazione popolare e plebea, e il trionfo delle «idee conservatrici, liberali, tutelari» (idées conservatrices, tutélaires, libérales). Il linguaggio nel quale ci imbattiamo non è l’invenzione di un generale, sia pure geniale. In questo momento egli gode dell’appoggio degli ambienti liberali del tempo. È ad essi che rinvia l’aggettivazione appena vista. Constant, che più tardi, come sappiamo, si dichiarerà membro del «partito liberale», già nel 1797 era stato raccomandato da Talleyrand a Napoleone quale uomo «appassionato per la libertà» e «repubblicano incrollabile e liberale»11. L’anno dopo Constant aveva sottolineato il merito del Direttorio per aver «proclamato i...

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