La nascita della regia teatrale
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La nascita della regia teatrale

Mirella Schino

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La nascita della regia teatrale

Mirella Schino

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La nascita della regia, snodo essenziale della storia del teatro, fa del Novecento una delle età d'oro delle arti sceniche. Questo libro ricostruisce il percorso tecnico ed esistenziale che ha rivoluzionato il teatro e lo ha reso una delle grandi avventure dell'età contemporanea.

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Capitolo terzo.
Il teatro al lavoro

Il teatro «normale» procedeva intanto secondo i suoi ritmi e le sue consuetudini: la «prima» della Salomé di Oscar Wilde e il debutto sulle scene del Lorenzaccio di Alfred de Musset nel 1896. La «prima» del Vaso di Pandora di Frank Wedekind nel 1905; la «prima» dei Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello nel 1921... Ma qui e lì, nel corso di trent’anni gli spettatori si radunavano per vedere esplodere il nuovo teatro, in episodi circoscritti, che spesso prendevano immediatamente la forma di episodi mitici. Una costellazione gloriosa: così la vissero, per lo più, artisti e spettatori.
Quella che segue è una mappa di base di questa costellazione: spettacoli e libri. Anche se ordinate cronologicamente, non vanno considerate tappe di un percorso lineare. Sono un’altra cosa: grovigli particolarmente vistosi di indizi da dipanare. Sono episodi che furono subito avvolti in un’aura mitica, ma viverli, per i protagonisti, fu a volte molto duro e difficile.
Vanno a completare gli esempi già affrontati: le fondamentali sperimentazioni di Mejerchol’d sullo spazio; Il gabbiano del Teatro d’Arte di Mosca; l’Hamlet di Craig; la Principessa Turandot di Vachtangov e i libri di Appia.
Spettacoli e libri vanno considerati come parti di un tessuto unitario. La riformulazione complessiva del teatro, che era lo scopo della regia in stato nascente, fu portata avanti attraverso una complessa forma di complementarietà tra ricerca sulla carta e costruzione di opere. Fu un po’ come se nel nuovo teatro che accennava a nascere libri e spettacoli mettessero in luce ed esplorassero gli uni la faccia segreta degli altri. Gli scritti, che possono sembrare opere di pura teoria, furono invece per lo più strumenti di battaglia, o indagini concrete su mezzi e tecniche per operare cambiamenti. Gli spettacoli, da parte loro, parlavano di teatro, di quello che poteva essere e il loro argomento, al di là della storia narrata o dei problemi che esploravano, furono soprattutto discorsi sull’essenza stessa del teatro, sulla vita scenica. È così che dobbiamo leggere gli uni e gli altri. Anzi dobbiamo saltare continuamente dagli uni agli altri, per meglio osservare il lavoro sulla autonomia organica della scena1, cioè quello che abbiamo identificato come minimo comun denominatore di una ricerca vasta e frammentata, dalle facce molteplici e persino disparate.
Per noi, i libri, da soli, rischiano di diventare una fonte parziale, tendenziosa, insufficiente e fuorviante, che spesso tace l’essenziale. Anche gli spettacoli, però, sono una fonte insicura, visto che la loro ricostruzione è fatta sulla base di testimonianze di spettatori ingenui, abituati a un modo di far teatro diverso. Oppure di spettatori «di parte», che vedono in questi spettacoli riprove delle loro personali teorie. Però montati insieme sia i libri che gli spettacoli rivelano numerosi indizi concomitanti e inquietanti. Bisogna saper cercare tra quello che resta.
Per i primi registi ogni spettacolo fu una meditazione sulla natura del teatro, una presa di posizione. Ma anche per gli spettatori fu così: ogni spettacolo, più che un’opera d’arte, era un modo per far sperimentare quello che i libri non sapevano dire.

Isadora Duncan

La mappa della rivoluzione teatrale di quegli anni non è completa senza la danza. Bisogna tenerne conto soprattutto in vista di un modo di lavorare, nel teatro, che utilizzava musica, ritmo e danza in maniera continuata e meditata, come elementi capaci di animare la materia inerte, di opporsi al peso dei corpi. L’equivalente di un soffio vitale, che permette di passare dall’inerzia alla vita.
Da questo punto di vista, cioè di una influenza che va al di là dei confini del genere, gli spettacoli di danza più celebri furono quelli dei Balletti Russi, i più importanti quelli dei teatri asiatici e di Isadora Duncan.
Nata negli Stati Uniti nel 1878, la Duncan fu una di quelle personalità che hanno cambiato gli occhi degli spettatori, al di là delle frontiere dei generi o delle specie. Scrisse: «Io non sono interessata alla danza di per sé. La mia danza è un’espressione di vita, non semplicemente una serie di trucchi ginnici o di movimenti graziosi. Questa è la ragione per cui non apprezzo la comune danza del balletto»2.
Per capire il rapporto tra la Duncan e il teatro del suo tempo basta tener conto di testimonianze come questa: una lettera di Konstantin Stanislavskij a Isadora Duncan, Mosca, gennaio 1908.
Per quanto grandi siano stati i successi del nostro teatro, e per quanto numerosi siano i nostri ammiratori, sono sempre stato solo (con l’eccezione di mia moglie, che mi ha sostenuto nei momenti di dubbio e di smarrimento). Siete stata la prima a dirmi in poche, semplici e convincenti parole quello che è importante, e fondamentale, circa l’arte che io voglio creare. Ne ho ricavato una carica fresca di energie proprio quando ero sul punto di rinunciare alla mia carriera artistica. Vi ringrazio, vi ringrazio veramente, e dal profondo del mio cuore3.
È una bella lettera, una lettura per molti versi straordinaria, che mette in luce, oltre alla nota ammirazione di Stanislavskij per l’arte della Duncan, anche la profondità del suo rispetto e la sensazione della forte affinità tra le loro ricerche4.
E ora, Edward Gordon Craig: «In ogni paese che io abbia visitato ho trovato uomini e donne notevoli, con idee originali e brillanti, che mettevano in pratica in piccoli o in grandi teatri [...]. Due di loro li considero un caso a parte – Isadora Duncan ed Appia»5.
Isadora Duncan e Adolphe Appia, posti soli sulla cima di un immaginario Olimpo del teatro vivente, mostrano come meglio non si potrebbe il mutuo soccorso tra spettacoli e libri.
Benché i primi trent’anni del Novecento siano stati un periodo di riflessioni fondamentali per la danza6, il caso della Duncan fu particolare. Mostrò l’efficacia e la potenza di un tipo di movimento diverso, che non aveva le sue radici in nessuna tradizione, un movimento pieno di risonanze che comprendeva un’immobilità vibrante e usciva dal teatro ricollegandosi all’energia della natura stessa.
Era la scoperta del movimento come flusso continuo. Quello che la Duncan mostrò fu una rete di proporzioni e relazioni impreviste (qualcosa di paradossalmente simile alle richieste di Appia) che collegavano i suoi movimenti in scena, con tutti i loro aneddoti – piedi nudi, braccia scoperte, veli svolazzanti, pianista, Chopin, le tendine azzurre che amava usare come sommaria scenografia per i suoi spettacoli – con qualcosa di veramente grande e misterioso. Niente nelle descrizioni degli spettacoli della Duncan prepara alla profondità delle emozioni che i testimoni ci hanno trasmesso: la percezione dell’armonia complessiva dell’universo.
Attraverso danze e scritti, la Duncan stabilì l’esistenza di una possibile relazione tra i movimenti del corpo umano in scena e il movimento continuo e invisibile della natura. Scrisse:
In natura esiste l’armonia musicale, così come esiste l’armonia dei movimenti.
L’armonia musicale non è un’invenzione dell’uomo, si è imposta da sola. Anche l’armonia dei movimenti non può essere inventata, la sua concezione deve scaturire in natura, il ritmo va cercato nel grande ritmo delle acque, dei venti e nella loro azione sulla materia, nei movimenti della terra, nella vita degli animali: pesci, uccelli, rettili, quadrupedi [...]7.
Molti degli elementi che componevano il suo modo di fare spettacolo e di guardare allo spettacolo sono riscontrabili – spesso dissimulati e annacquati – nel lavoro dei primi registi. Ma la somiglianza con il lavoro di Appia, nonostante le diversità di superficie, è innegabile e impressionante. Giustamente Craig li colloca, insieme, su una vetta che spicca isolata.
Le fotografie e spesso persino le descrizioni delle danze di Isadora Duncan non possono restituire la sorpresa di chi si trovò di fronte a un tipo di movimento così radicalmente nuovo. La cosa migliore è riportare, per farsi un’idea di lei in scena, due immagini fatte di parole. La prima è di Gordon Craig:
Non posso dimenticare la prima volta che l’ho vista arrivare su un nudo palco e ballare. Era a Berlino, nel 1904 – per favore notate questo, qualcuno dice 1905 – il mese di dicembre. La rappresentazione non si svolgeva in un teatro, ma in una sala da concerto, e sapete bene come erano nel 1904 i palchi delle sale da concerto.
Passò attraverso delle piccole tende, non molto più alte di lei; le attraversò avanzando verso un musicista che, la schiena girata verso di noi, sedeva a un grande pianoforte; aveva appena finito di suonare un breve preludio di Chopin quando lei entrò, e con cinque o sei passi si fermò dritta accanto al piano, immobile, com’era, ascoltando il mormorio delle ultime note [...]. Avreste potuto contare fino a cinque, o anche fino ad otto, e allora nuovamente la voce di Chopin riprese, con un secondo preludio o uno studio; suonato con grazia fino in fondo, fino alla fine, e lei ancora non si era mossa. Poi un passo avanti o di lato, e la musica ricomincia, lei prende a muoversi precedendo o seguendola. Solo a muoversi – senza piroette, senza alcuna di quelle figure che ci aspetteremmo di vedere, che certo avrebbero eseguito una Taglioni o una Fanny Essler. Stava parlando un suo linguaggio proprio, che non echeggiava alcun maestro di ballo, e così prese a muoversi come non si era mai visto prima. La danza terminò, di nuovo rimase dritta e ferma. Niente inchini, niente sorrisi – niente di niente. Poi è di nuovo musica, lei corre via – la musica la rincorre allora, perché lei è già avanti.
Come facciamo a sapere che sta parlando un suo linguaggio? Lo sappiamo, poiché vediamo dolcemente attivi la sua testa, le mani, così come i piedi, tutta la sua persona. E se sta parlando, cosa dice? Nessuno sarebbe in grado di riportarlo con certezza, eppure nessuno dei presenti ha avuto un attimo di dubbio. Solo questo possiamo dire – che stava contando all’aria proprio quelle cose che sopra a tutto desideravamo ascoltare e che prima di lei non avremmo mai sognato di udire; adesso potevamo ascoltarle, e questo ci metteva in uno stato inusuale di gioia. Io sedevo immobile senza dire parola8.
Queste righe non spiegano perché Craig metta la danzatrice, insieme ad Appia, al di sopra di tutti gli altri innovatori – di Stanislavskij e di Mejerchol’d, e anche al di sopra di se stesso –, ma danno qualche spunto per capire almeno parte di quello che le esibizioni della Duncan mostravano. La forza dell’immobilità, per esempio. La complessità di un movimento che diventa lingua. L’uso dell’intero corpo all’interno di un flusso organico. Aiutano a capire come e perché Craig fosse arrivato a cantare l’importanza del movimento a teatro: per quello che lui aveva visto attraverso la danza della Duncan.
La seconda testimonianza sulla danzatrice è più tarda, è...

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