Storia del pensiero politico antico
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Silvia Gastaldi

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Storia del pensiero politico antico

Silvia Gastaldi

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«Questa Storia del pensiero politico antico, per organicità e originalità di trattazione, è un'opera che non ha paralleli nella storiografia recente, ed è per questo benvenuta sia nel campo degli studi classici, sia in quello della storia delle dottrine politiche. Per argomenti e metodi, il libro di Silvia Gastaldi è complementare alla mia Etica degli antichi, della quale costituisce un'utile integrazione» (Mario Vegetti).

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Information

Year
2015
ISBN
9788858121573

Capitolo quinto.
Platone: alla ricerca della giustizia

1. La vocazione politica

Così Platone apre la sua autobiografia nella Lettera VII: «Quando ero giovane, io ebbi un’esperienza simile a quella di molti altri: pensavo di dedicarmi alla vita politica, non appena fossi divenuto padrone di me stesso» (324 b). A questo ruolo pubblico egli è d’altronde naturalmente destinato, essendo membro di una delle grandi casate ateniesi, che vanta, nel suo passato come nel suo presente, personaggi illustri. La famiglia del padre, Aristone, rivendica la sua discendenza dall’ultimo re di Atene, Codro, che, secondo il mito, avrebbe sacrificato la vita in battaglia per la salvezza della città; la madre, Perittione, annovera tra i suoi antenati Crizia il Vecchio, discendente di Dropide, familiare di Solone, ed è a sua volta sorella di Carmide e cugina di Crizia, i due maggiori esponenti della fazione oligarchica ateniese tra la fine del V e l’inizio del IV secolo. In più, la stessa Perittione sposa in seconde nozze Pirilampe, amico di Pericle. Così, questa storia connette strettamente tra loro le due grandi tradizioni dell’aristocrazia attica, quella soloniano-periclea, che tende alla mediazione e alla conciliazione, e quella oltranzista, volta a recuperare l’antico dominio assoluto sulla città.
Platone, nato nel 428/27, diviene «padrone di se stesso» negli ultimi anni del V secolo, quelli contrassegnati dalla sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso e dalla presa del potere da parte degli oligarchi: nulla di più naturale dell’invito rivoltogli dai suoi congiunti di partecipare con loro al governo, e dell’attrattiva esercitata su di lui, aristocratico, dalla prospettiva di vedere la città, dopo la caduta del regime democratico, «purificata dall’ingiustizia» (324 d).
Egli ha ben presto modo di correggere il giudizio che ha formulato sulla democrazia ateniese del V secolo. «Mi accorsi così che in poco tempo fecero apparire oro il governo precedente» (324 d): l’atteso miglioramento delle condizioni politiche della città è stato deluso dalla realtà di violenta sopraffazione instaurata dalla tirannide criziana, e questa estrema degenerazione trova conferma nella sorte fatta subire a Socrate, «un mio amico più vecchio di me, un uomo che io non esito a dire il più giusto del suo tempo» (324 d-e). Viene così rievocato l’episodio che vede i Trenta intimare a Socrate di fare prigioniero e di uccidere Leone di Salamina, un ordine cui egli, incurante delle conseguenze, si sottrae schierandosi a difesa della giustizia, e delineandosi anche in questa sede come l’emblema dell’eticità.
In questa biografia, al rapporto con Socrate viene assegnato un ruolo determinante. Non si hanno notizie particolareggiate sul rapporto che con lui intrattiene Platone: verosimilmente, egli entra a far parte, attraverso Crizia, della cerchia di aristocratici che costituiscono gli abituali interlocutori di Socrate, e a lui rimane legato fino alla sua morte. Come emerge con nettezza dalla Lettera VII, la vicenda socratica rappresenta del resto un avvenimento decisivo negli anni giovanili di Platone e quello che condiziona più fortemente le sue scelte. Sottrattosi al tentativo degli oligarchi di farlo complice delle loro nefandezze, Socrate viene processato e condannato a morte dalla restaurata democrazia: quale prova più evidente della negatività di entrambi questi modelli di gestione del potere, accomunati dallo stesso disprezzo per la giustizia?
Matura così in Platone la scelta di astenersi dalla vita politica, cui si accompagna, tuttavia, la decisione di proseguire per altra via il cammino di riforma etico-politica intrapreso da Socrate: consapevole dell’inefficacia di una missione condotta da un uomo solo con gli unici strumenti della discussione e della persuasione, egli avverte la necessità di avvalersi di «amici e compagni fidati» (325 d), di affidare cioè la rifondazione della città a un gruppo ben organizzato e a un’istituzione, entro la quale definire le strategie e approntare gli strumenti più efficaci. La predicazione ‘povera’ di Socrate viene così rinvigorita da un progetto, «vedere la giustizia negli affari pubblici e in quelli privati», che verrà realizzato attraverso la fondazione dell’Accademia, il cui programma si sintetizza nella celebre formulazione offerta dalla Lettera VII: «Vidi dunque che mai sarebbero cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al potere politico non fossero pervenuti uomini veramente e schiettamente filosofi, o i capi politici delle città non fossero divenuti, per qualche sorte divina, veri filosofi» (326 b).
La solidità del legame con il socratismo trova comunque la sua più chiara attestazione nella scelta della forma espositiva cui Platone affida la diffusione del suo progetto, il dialogo. Se Socrate non ha lasciato nulla di scritto, delegando alla parola il compito di indurre i suoi interlocutori alla riflessione e alla critica, Platone individua nella forma dialogica, in quanto trasposizione scritta di un discorso orale, una via intermedia: essa consente di conservare la pregnanza della discussione nel suo farsi, ma consegue al contempo un carattere di coerenza e di stabilità, che attribuisce ai contenuti proposti una maggiore autorevolezza. Lo scritto, inoltre, può entrare in un circuito comunicativo più ampio, anche se controllato, indirizzandosi agli individui ritenuti capaci di recepire il messaggio e di collaborare alla sua realizzazione. Rimane tuttavia sempre viva la consapevolezza che la parola scritta richiede accanto a sé la presenza di un «padre che la soccorra» (Phaedr. 275 e): l’oralità costituisce, come già per Socrate, che funge da protagonista di tutta la produzione platonica, a eccezione delle sole Leggi, la forma di comunicazione privilegiata, l’unica autenticamente capace di agire con efficacia sull’anima dell’ascoltatore. Il modello di trasmissione del sapere e dell’eticità che Platone continuerà a privilegiare è quello di cui è portavoce Socrate nel Fedro, e che riflette così da vicino i caratteri più autentici della sua predicazione:
Usando l’arte dialettica e impadronendosi dell’anima adatta, vi si piantano e vi si seminano i discorsi accompagnati dal sapere, discorsi che sono in grado di soccorrere se stessi e colui che li ha piantati, e che non sono sterili, ma posseggono una semenza dalla quale faranno nascere altri discorsi in altri caratteri. (Phaedr. 276 e-277 a).
La coppia sterilità-fertilità chiarisce la contrapposizione tra il silenzio e la passività dello scritto e la ricchezza e l’efficacia della parola parlata, e individua al contempo in Platone, come prima di lui in Socrate, il buon seminatore che pianta nelle anime dei suoi interlocutori, attraverso la parola, il seme di un sapere che produrrà come frutto una messe di logoi, di altri discorsi.
Il perseguimento del sapere è dunque l’esito di una ricerca comune che trova la sua sede privilegiata nella scuola, l’istituzione in cui sono radunati gli interlocutori più qualificati. Al di fuori di questa, altri possibili destinatari sono costituiti dai cittadini più preparati, selezionati per origine sociale e per cultura: questa circolazione esclude perentoriamente le masse, e si oppone recisamente a quella diffusione commerciale che sembra ormai coinvolgere le opere non solo dei poeti ma anche dei filosofi.
La cerchia dei destinatari si allarga anche al di là delle mura della città. L’esigenza di attuare la rifondazione etico-politica della società induce Platone a guardare oltre, a tentare di coinvolgere personaggi politici autorevoli, figure di sovrani che detengono un grande potere: significativamente, la riflessione politica rompe i suoi legami organici con la dimensione della città, con ‘questa città’, quell’Atene che ha sempre svolto un ruolo paradigmatico, per delineare i contorni della polis-modello, situabili ovunque nel mondo, purché popolata da cittadini, e retta da governanti, buoni e giusti.

2. Il «Gorgia»

Sul cammino verso la composizione della Repubblica, destinata a delineare il progetto che assicura la realizzazione della giustizia nella polis legando tra loro strettamente potere e sapere, si colloca un dialogo, il Gorgia, che sottoponendo alla discussione critica il modello di gestione politica della città attuale, anticipa largamente quelle istanze di rinnovamento. All’interno di una struttura ancora ampiamente confutatoria, Socrate è posto di fronte a tre interlocutori, da una parte Gorgia e Polo, i sofisti giunti in Atene come maestri di retorica, dall’altra Callicle, personaggio altrimenti sconosciuto, e forse fittizio, destinato a rappresentare il cittadino ateniese benestante e ambizioso che dell’arte della persuasione si appropria per conquistare il potere.
La scelta dei protagonisti è certamente significativa. Gorgia e il più giovane Polo, suo discepolo, provengono dalla Sicilia, la terra che, tra il 470 e il 460, vede la nascita ‘ufficiale’ della retorica, cioè la prima codificazione, ad opera dei siracusani Corace e Tisia, delle norme di composizione del discorso persuasivo. Poco si sa di questi due protoi heuretai, tranne, come riferisce Cicerone nel Brutus sulla scorta dell’autorità di Aristotele (12, 46 sgg.), che la loro ‘invenzione’ si colloca in un particolare momento storico, quello che vede la cacciata dei tiranni dalle città siciliane e il ritorno alle libertà democratiche, cui si correla il ripristino delle attività forensi e politiche.
Se questa è l’origine, la retorica si sviluppa ben presto e ampiamente come materia di insegnamento, impartita dietro compenso: già Corace si presta, grazie al suo nome ‘parlante’ – il «Corvo» – all’accusa di rapacità per i suoi alti onorari, una cattiva fama che coinvolge anche Tisia, considerato suo discepolo, definito il «cattivo uovo» prodotto dal «cattivo Corvo». Proprio con Tisia Gorgia giunge ad Atene nel 427, come ambasciatore della sua città, Leontini, e un’eco della profonda impressione che la sua abilità di parola dovette suscitare si avverte anche all’inizio del dialogo platonico, che vede Gorgia stesso reduce da un’esibizione, epideixis, definita entusiasticamente da Callicle «una magnifica festa» e «una brillante lezione» (Gorg. 447 a). Vero e proprio maestro itinerante, come tutti i sofisti, il retore siciliano soggiorna ripetutamente in Atene e si guadagna un vasto uditorio proprio attraverso queste prove di bravura.
Il Gorgia, la cui data drammatica è indeterminata (è certo solo il terminus post quem, il 429, dal momento che si allude a Pericle come ormai scomparso), mette in scena un Gorgia già avanti negli anni e dotato di una grande autorevolezza, al quale Socrate, sebbene su posizioni divergenti, testimonia rispetto. Proprio per la sua fama, egli è interpellato quale depositario del sapere retorico, su cui verte l’indagine. La ricerca del «che cos’è» la retorica, cioè della sua definizione, condotta da Platone in puro stile socratico, rappresenta però solo il punto di partenza per una discussione che ne investe la funzione politica, il ruolo svolto nelle sedi istituzionali della città.
Il dialogo conduce così, nella prima parte, una serrata indagine sulla retorica sotto il profilo epistemologico: il fine è quello di mostrare come essa, non presupponendo alcuna conoscenza effettiva degli argomenti su cui vuol convincere l’uditorio, non può essere ritenuta una techne. La retorica infatti non costituisce per Platone una forma di sapere razionalmente fondato, dotato di un proprio ambito e di una metodologia specifica, bensì si definisce come alogon pragma, una sorta di pratica empirica volta a produrre diletto e piacere. Per queste sue caratteristiche, essa è riconducibile a un denominatore più ampio, quello dell’adulazione, in cui rientrano i «simulacri», cioè le immagini contraffatte e fallaci delle vere tecniche. Nel complesso schema di corrispondenze tracciato da Platone e che coinvolge le forme autentiche e le loro cattive imitazioni, relative tanto all’anima quanto al corpo, la retorica è per l’anima ciò che la gastronomia è per il corpo: la sua finalità è quella di somministrare agli ascoltatori discorsi belli e piacevoli, così come l’abilità del cuoco consiste nel predisporre e nell’ammannire cibi squisiti e ricercati che gratificano il palato dei commensali (463 a sgg.).
Un punto di vista così svalutativo sulla retorica, che equipara «i buoni retori» a «cattivi adulatori», suscita le vivaci rimostranze del giovane e agguerrito Polo: egli contrappone alle sottigliezze della teoria la ‘realtà effettuale delle cose’, ponendo l’accento sulla straordinaria autorità che i possessori della capacità persuasiva esercitano nella città. Al centro della discussione si colloca, da qui in poi, proprio il tema del potere politico, e dei suoi rapporti con l’eticità e con il sapere.
Polo esalta come massimamente positivo il dominio assoluto, quale è quello detenuto dai tiranni, in grado di fare sempre ciò che vogliono, senza alcuna limitazione: mandare a morte, confiscare beni, condannare all’esilio. Non a caso dunque egli assume, come esempio paradigmatico di uomo insieme potente e supremamente felice, la figura di Archelao, salito al trono macedone attraverso una lunga catena di violenze e di delitti (470 d sgg.). Polo interpreta, estremizzandolo, un punto di vista generalmente condiviso, l’apprezzamento per i vantaggi che provengono dai comportamenti ingiusti, purché naturalmente non se ne paghi la pena: nella Repubblica, questa argomentazione torna ad essere proposta da Glaucone, il quale, allo stesso modo, pensa che chiunque vorrebbe possedere il mitico anello di Gige, in grado di rendere invisibile chi lo porta, consentendo pertanto di agire a proprio piacimento in piena sicurezza (Resp. II, 359 c sgg.).
A questa sfrenata esaltazione dei vantaggi dell’ingiustizia Platone risponde rilanciando le tesi più autentiche, e anche più ‘scandalose’, del Socrate storico, quelle che avevano certamente contribuito a consolidare la sua fama di uomo eccentrico, atopos. Viene anzitutto drasticamente ridimensionato il presunto potere di cui godono gli uomini politici, equiparati ai tiranni: essi non compiono veramente ciò che vogliono, perché l’oggetto della volontà è solo il bene, ed essi lo ignorano. Anche la felicità è loro negata, nella misura in cui essa non può mai correlarsi all’ingiustizia. Questa arreca all’anima un danno gravissimo, che può essere riparato solo subendo una pena adeguata, capace di assolvere a un autentico ruolo terapeutico. Polo accoglie con una risata queste asserzioni di Socrate che prospettano un vero e proprio ‘rovesciamento del mondo’: nessun cittadino sarà mai disposto ad ammettere che sia preferibile sottostare alle punizioni, massima fonte di vergogna, anziché compiere il male restandosene impunito. Né meno paradossale appare il ruolo che, in questo orizzonte, viene assegnato alla retorica, quello di contribuire alla realizzazione della giustizia denunciando tutti gli atti ingiusti commessi personalmente o da altri all’interno della città.
Questo tentativo di moralizzare la pratica dei discorsi, tradizionale strumento di acquisizione del potere, suscita, dopo le risa di Polo, l’incredula ironia di Callicle, l’ultimo degli interlocutori del dialogo, che così lo apostrofa: «Dimmi, Socrate, dobbiamo pensare che tu parli sul serio o per scherzo? perché, se parli sul serio, e quello che dici è vero, non ne sarebbe capovolta tutta la vita umana e tutti, sembra, non faremmo proprio il contrario di quello che dovremmo?» (Gorg. 481 c). Callicle, diversamente dai suoi predecessori, non ha alcun ritegno a scagliarsi con violenza contro Socrate, accusandolo di essere ingenuo come un bambino, e come tale completamente ignorante della realtà delle cose e del potere. La responsabilità di questo colpevole distacco dalla vita di ...

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