Nozze di sangue
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Nozze di sangue

Storia della violenza coniugale

Marco Cavina

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Nozze di sangue

Storia della violenza coniugale

Marco Cavina

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«La violenza maritale è stato un elemento fisiologico e accettato del matrimonio, legalmente fino a tutto l'Antico Regime, socialmente ben oltre. E occorre ovviamente tener sempre presente che il 'sommerso' in questa materia fu – un tempo come e più di oggi – di enormi dimensioni, anche se le mogli d'Antico Regime non erano affatto inerti dinanzi alle vessazioni coniugali, e anche se le istituzioni medievali e moderne furono spesso tutt'altro che svagate nell'affrontarne gli abusi più eclatanti. Quel che resta di tanti 'inferni coniugali' nelle loro formulazioni giudiziarie rappresentò – un tempo come e più di oggi – la punta di un iceberg. Dietro alle mura domestiche si occultò un'infinità di violenze, talora gravi, talora modeste, talora nemmeno avvertite come tali e accettate con rassegnato fatalismo. Un certo modo di intendere la violenza coniugale è, sul piano formale, definitivamente tramontato, ma sulle leggi continuano a piovere le meteoriti sociali del vecchio ordine.»Marco Cavina interpreta le fonti dottrinali (i teologi, i precettisti morali, i giuristi, i politici), consulta le fonti letterarie e quelle processuali, le confronta con la cultura dominante dal Medioevo in poi per esaminare gli ambiti nei quali maggiormente la violenza si è manifestata, facendoci scoprire l'anima nera del matrimonio dietro lo stereotipo tranquillizzante dell'armonia del focolare.

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Information

Year
2014
ISBN
9788858113431

I. «Piglia il bastone e battila molto bene» (la violenza correzionale del marito fra medioevo e antico regime)

1. Il mito patriarcale della cintura di castità

Marco da Castello, mercante veneziano di tessuti, non era uno stinco di santo. Aveva avuto più d’una relazione adulterina e credeva nel detto per cui ‘chi la fa l’aspetti’, onde temeva ossessivamente che la moglie, Rovenza, avrebbe fatto lo stesso. Ebbe allora un’idea originale. Fece preparare un ‘brachieri di ferro’ – cioè una cintura di castità – e impose alla moglie, pur riluttante, di indossarlo. Dopo diversi anni la donna ne morì. I parenti di lei si accorsero del letale aggeggio in occasione della sepoltura e ne scoppiò un piccolo scandalo, a cui Marco reagì facendo appello al proprio potere patriarcale. «Io farò pure a mio modo» diceva, borbottando, a tutti quelli che incontrava. Di lì a poco passò a nuove nozze con una certa Fiandina, a cui pure richiese di indossare la famigerata cintura. Fiandina chiese un giorno di tempo per poter danzare più agevolmente nelle feste in corso, ma – più scaltra della povera Rovenza – chiamò in segreto il suo precedente amante, il padovano Votabotte, e gli chiese di assecondarla in un suo piano segreto e criminale. Il giorno dopo, quando Marco le si avvicinò su di un piccolo balcone per imporle la cintura, lo spinse forte, facendolo cadere e affogare in un canale. Fiandina e Votabotte arraffarono tutto il denaro che trovarono e fuggirono da Venezia, mentre i parenti presero possesso di tutti i beni del defunto, poiché il cadavere venne ritrovato con il controverso strumento e si disse che era «morto per voler mettere lo brachieri alla moglie»13.
Non si tratta di una storia ‘vera’, ma di una novella di Giovanni Sercambi, vissuto fra Trecento e Quattrocento, che ben rappresenta alcuni caratteri essenziali di un oggetto che ha suggestionato profondamente le fantasie europee di ogni tempo. Intorno all’idea che il corpo della moglie fosse proprietà del marito si coagulò un immaginario dominativo, che colse nel mito della cintura di castità uno dei suoi simboli più noti, anche se meno concreti storicamente e fattualmente14.
Quella della cintura di castità è quasi soltanto un’invenzione letteraria, spesso riportata nella sua prima genesi all’Italia e, qui, ad un personaggio: il famigerato Francesco II di Carrara, signore di Padova, vissuto sul finire del Trecento e rammentato dalle cronache per le sue presunte malversazioni. Nel Palazzo Ducale di Venezia ne restò – sinistro – un manufatto: la «Braga de Fero della moier del signor de Padoa»15. Ben lungi dall’esser mai stata oggetto di una pratica diffusa né tantomeno utilizzata da sospettosi cavalieri crociati in partenza per la Terra Santa – come talvolta si è fantasticato –, più che una realtà la cintura di castità fu una metafora, anche se a qualcuno, fra tardo Medioevo e Rinascimento, l’idea di tradurla in pratica – di quando in quando – dovette venire.
Il risultato era certo aberrante, ma la premessa era più che condivisa: la moglie non aveva il possesso dei propri organi genitali, la ‘chiave’ di questi era riposta nelle mani e nella piena disponibilità del marito. Un marchingegno fantasioso, una sorta di antifurto, gli permetteva di aprire la moglie come una casa, un canterano o uno scrigno di gioielli di sua proprietà, godendone tranquillamente al sicuro dai ‘ladri’. Con la cintura agiva preventivamente a difesa del proprio diritto all’esclusività sessuale, sia pur incidendo duramente sulla dignità e sulla salute della donna. Di fatto, però, era pressoché irrealizzabile e comunque inutilizzabile, non potendo essere indossata consecutivamente per lunghi periodi senza procurare gravi problemi fisici e sanitari, come dimostrava di essere consapevole anche il Sercambi narrando la triste sorte di Rovenza.
Con la sua consueta ed elegante ironia, il Brantôme ricordava un mercante di ferraglie – alla fiera parigina di Saint Germain ai tempi di Enrico II – che proponeva, in mezzo a tutto il resto, «una dozzina di certi arnesi per imbrigliare il pube delle donne». Avrebbe suscitato – diceva – le accese reazioni di molti «galanti e onesti» gentiluomini, le cui imprese sessuali sarebbero state ostacolate non poco dalla diffusione della cintura:
Al tempo di re Enrico vi fu un venditore di oggetti di ferro che portò alla fiera di Saint Germain una dozzina di certi arnesi per imbrigliare il pube delle donne: erano fatti di ferro, cingevano come una cintura, andavano a riprendersi di sotto e si chiudevano a chiave; erano fatti così sottilmente che non era possibile alla donna, una volta imbrigliata, di potersi mai profittare del dolce piacere, non avendo che alcuni buchi piccoli e minuti per poter orinare [...] Si dice in più che ci furono molti galanti e onesti gentiluomini della corte che minacciarono quel venditore, al punto che l’avrebbero ucciso, di non ritornare più e di gettare nel gabinetto tutti gli arnesi rimasti, cosa che egli fece subito dopo che glielo si disse. E fu molto saggio, perché ce n’era abbastanza per fare venir meno mezza umanità, per il motivo di impedirne la riproduzione in seguito a tali imbrigliamenti, serrature e fermagli, abominevoli di natura e nemici detestabili della moltiplicazione umana16.
Qua e là qualche – dubbia – traccia della famigerata cintura sembra baluginare. Non manca nemmeno qualche fugace memoria di casi giudiziari. Se ne ricordano nella Danimarca d’età moderna: il marito intendeva imporla alla moglie e il tribunale ne ordinava la rimozione17. La funzione appariva sospesa fra ‘prevenzione’ e punizione. Sotto questo secondo aspetto la cintura si avvicinava ad altri utensili repressivi, anche se non specificamente diretti alle mogli, come la ‘museruola’ o ‘briglia delle comari’: applicata su richiesta del marito o di altri soggetti qualificati, impediva di parlare – tramite una sbarra di ferro che schiacciava la lingua – alle donne che erano state troppo pettegole o brontolone. Un difetto considerato tipicamente femminile veniva forzatamente ‘corretto’, sia pure per qualche ora, attraverso una sanzione pubblica e infamante. Parimenti la finalità della cintura di castità era quella di permettere al marito di tenere sotto controllo i costumi della sposa di cui, a torto o a ragione, dubitava. Si trattava, cioè, di ‘correggere’ la moglie.

2. Domare la moglie con amore cristiano

Il genuino spirito evangelico era diffidente se non ostile nei confronti della famiglia patriarcale, propendendo per un’idea comunitaria della famiglia fondata sulla fratellanza e sulla comune condizione umana di ‘figli’ di Dio. Ben presto, però, il cristianesimo si impegnò a sviluppare, sul tronco della tradizione greco-romana, una propria visione del patriarcato, incentrata saldamente sulla figura del padre di famiglia, ma moderata nei suoi contenuti18. Accolse, dunque, l’impianto dei rapporti fra marito e moglie imperniato sulla subordinazione della donna all’uomo, assoggettandolo a un forte messaggio moralistico di moderazione.
Schematicamente si potrebbe dire che il piano formale delle relazioni domestiche rimaneva quello tradizionale, mentre la spinta innovativa verso la parificazione dei ruoli si consumava essenzialmente entro l’esortazione sul piano morale. Gli Atti degli Apostoli e, soprattutto, le Lettere di Paolo posero le fondamenta dell’approccio cristiano medievale e moderno al problema delle relazioni coniugali: l’uomo è intrinsecamente superiore alla donna, ha il diritto di comandarla, ma deve operare con moderazione e rettitudine spinto dall’amore verso di lei.
La quotidianità della coppia, però, doveva fondarsi anzitutto sulla sottomissione della donna. Pietro ricordava l’esempio di Sara che chiamava Abramo ‘signore’, e sulla sua scia lo pseudo Ignazio ammoniva le mogli – nella sua lettera agli Antiocheni – a non chiamare confidenzialmente per nome i loro mariti19. «Le mogli – declamava Paolo di Tarso – siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. E voi mariti amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa»20. L’obbligo del velo in chiesa e in preghiera appariva il plastico simbolo della sudditanza della donna: «L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza»21.
Il cuore del pensiero paolino fu distesamente sviluppato da Giovanni Crisostomo nella seconda metà del IV secolo22, ma il tono generale è improntato a una generale mitezza, tutta compresa sul piano etico, escludendo ogni genere di maltrattamenti, nel contesto di un potere correzionale finalizzato a guidare la donna, ‘vaso imperfetto’, sul cammino della perfezione:
Dico tutto questo senza esortare i mariti a essere aspri e severi, ma volendo persuadere le mogli a sopportare mariti anche feroci [...] Quando la moglie sarà preparata ...

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