I. «Piglia il bastone e battila molto bene» (la violenza correzionale del marito fra medioevo e antico regime)
1. Il mito patriarcale della cintura di castitĂ
Marco da Castello, mercante veneziano di tessuti, non era uno stinco di santo. Aveva avuto piĂč dâuna relazione adulterina e credeva nel detto per cui âchi la fa lâaspettiâ, onde temeva ossessivamente che la moglie, Rovenza, avrebbe fatto lo stesso. Ebbe allora unâidea originale. Fece preparare un âbrachieri di ferroâ â cioĂš una cintura di castitĂ â e impose alla moglie, pur riluttante, di indossarlo. Dopo diversi anni la donna ne morĂŹ. I parenti di lei si accorsero del letale aggeggio in occasione della sepoltura e ne scoppiĂČ un piccolo scandalo, a cui Marco reagĂŹ facendo appello al proprio potere patriarcale. «Io farĂČ pure a mio modo» diceva, borbottando, a tutti quelli che incontrava. Di lĂŹ a poco passĂČ a nuove nozze con una certa Fiandina, a cui pure richiese di indossare la famigerata cintura. Fiandina chiese un giorno di tempo per poter danzare piĂč agevolmente nelle feste in corso, ma â piĂč scaltra della povera Rovenza â chiamĂČ in segreto il suo precedente amante, il padovano Votabotte, e gli chiese di assecondarla in un suo piano segreto e criminale. Il giorno dopo, quando Marco le si avvicinĂČ su di un piccolo balcone per imporle la cintura, lo spinse forte, facendolo cadere e affogare in un canale. Fiandina e Votabotte arraffarono tutto il denaro che trovarono e fuggirono da Venezia, mentre i parenti presero possesso di tutti i beni del defunto, poichĂ© il cadavere venne ritrovato con il controverso strumento e si disse che era «morto per voler mettere lo brachieri alla moglie».
Non si tratta di una storia âveraâ, ma di una novella di Giovanni Sercambi, vissuto fra Trecento e Quattrocento, che ben rappresenta alcuni caratteri essenziali di un oggetto che ha suggestionato profondamente le fantasie europee di ogni tempo. Intorno allâidea che il corpo della moglie fosse proprietĂ del marito si coagulĂČ un immaginario dominativo, che colse nel mito della cintura di castitĂ uno dei suoi simboli piĂč noti, anche se meno concreti storicamente e fattualmente.
Quella della cintura di castitĂ Ăš quasi soltanto unâinvenzione letteraria, spesso riportata nella sua prima genesi allâItalia e, qui, ad un personaggio: il famigerato Francesco II di Carrara, signore di Padova, vissuto sul finire del Trecento e rammentato dalle cronache per le sue presunte malversazioni. Nel Palazzo Ducale di Venezia ne restĂČ â sinistro â un manufatto: la «Braga de Fero della moier del signor de Padoa». Ben lungi dallâesser mai stata oggetto di una pratica diffusa nĂ© tantomeno utilizzata da sospettosi cavalieri crociati in partenza per la Terra Santa â come talvolta si Ăš fantasticato â, piĂč che una realtĂ la cintura di castitĂ fu una metafora, anche se a qualcuno, fra tardo Medioevo e Rinascimento, lâidea di tradurla in pratica â di quando in quando â dovette venire.
Il risultato era certo aberrante, ma la premessa era piĂč che condivisa: la moglie non aveva il possesso dei propri organi genitali, la âchiaveâ di questi era riposta nelle mani e nella piena disponibilitĂ del marito. Un marchingegno fantasioso, una sorta di antifurto, gli permetteva di aprire la moglie come una casa, un canterano o uno scrigno di gioielli di sua proprietĂ , godendone tranquillamente al sicuro dai âladriâ. Con la cintura agiva preventivamente a difesa del proprio diritto allâesclusivitĂ sessuale, sia pur incidendo duramente sulla dignitĂ e sulla salute della donna. Di fatto, perĂČ, era pressochĂ© irrealizzabile e comunque inutilizzabile, non potendo essere indossata consecutivamente per lunghi periodi senza procurare gravi problemi fisici e sanitari, come dimostrava di essere consapevole anche il Sercambi narrando la triste sorte di Rovenza.
Con la sua consueta ed elegante ironia, il BrantĂŽme ricordava un mercante di ferraglie â alla fiera parigina di Saint Germain ai tempi di Enrico II â che proponeva, in mezzo a tutto il resto, «una dozzina di certi arnesi per imbrigliare il pube delle donne». Avrebbe suscitato â diceva â le accese reazioni di molti «galanti e onesti» gentiluomini, le cui imprese sessuali sarebbero state ostacolate non poco dalla diffusione della cintura:
Al tempo di re Enrico vi fu un venditore di oggetti di ferro che portĂČ alla fiera di Saint Germain una dozzina di certi arnesi per imbrigliare il pube delle donne: erano fatti di ferro, cingevano come una cintura, andavano a riprendersi di sotto e si chiudevano a chiave; erano fatti cosĂŹ sottilmente che non era possibile alla donna, una volta imbrigliata, di potersi mai profittare del dolce piacere, non avendo che alcuni buchi piccoli e minuti per poter orinare [...] Si dice in piĂč che ci furono molti galanti e onesti gentiluomini della corte che minacciarono quel venditore, al punto che lâavrebbero ucciso, di non ritornare piĂč e di gettare nel gabinetto tutti gli arnesi rimasti, cosa che egli fece subito dopo che glielo si disse. E fu molto saggio, perchĂ© ce nâera abbastanza per fare venir meno mezza umanitĂ , per il motivo di impedirne la riproduzione in seguito a tali imbrigliamenti, serrature e fermagli, abominevoli di natura e nemici detestabili della moltiplicazione umana.
Qua e lĂ qualche â dubbia â traccia della famigerata cintura sembra baluginare. Non manca nemmeno qualche fugace memoria di casi giudiziari. Se ne ricordano nella Danimarca dâetĂ moderna: il marito intendeva imporla alla moglie e il tribunale ne ordinava la rimozione. La funzione appariva sospesa fra âprevenzioneâ e punizione. Sotto questo secondo aspetto la cintura si avvicinava ad altri utensili repressivi, anche se non specificamente diretti alle mogli, come la âmuseruolaâ o âbriglia delle comariâ: applicata su richiesta del marito o di altri soggetti qualificati, impediva di parlare â tramite una sbarra di ferro che schiacciava la lingua â alle donne che erano state troppo pettegole o brontolone. Un difetto considerato tipicamente femminile veniva forzatamente âcorrettoâ, sia pure per qualche ora, attraverso una sanzione pubblica e infamante. Parimenti la finalitĂ della cintura di castitĂ era quella di permettere al marito di tenere sotto controllo i costumi della sposa di cui, a torto o a ragione, dubitava. Si trattava, cioĂš, di âcorreggereâ la moglie.
2. Domare la moglie con amore cristiano
Il genuino spirito evangelico era diffidente se non ostile nei confronti della famiglia patriarcale, propendendo per unâidea comunitaria della famiglia fondata sulla fratellanza e sulla comune condizione umana di âfigliâ di Dio. Ben presto, perĂČ, il cristianesimo si impegnĂČ a sviluppare, sul tronco della tradizione greco-romana, una propria visione del patriarcato, incentrata saldamente sulla figura del padre di famiglia, ma moderata nei suoi contenuti. Accolse, dunque, lâimpianto dei rapporti fra marito e moglie imperniato sulla subordinazione della donna allâuomo, assoggettandolo a un forte messaggio moralistico di moderazione.
Schematicamente si potrebbe dire che il piano formale delle relazioni domestiche rimaneva quello tradizionale, mentre la spinta innovativa verso la parificazione dei ruoli si consumava essenzialmente entro lâesortazione sul piano morale. Gli Atti degli Apostoli e, soprattutto, le Lettere di Paolo posero le fondamenta dellâapproccio cristiano medievale e moderno al problema delle relazioni coniugali: lâuomo Ăš intrinsecamente superiore alla donna, ha il diritto di comandarla, ma deve operare con moderazione e rettitudine spinto dallâamore verso di lei.
La quotidianitĂ della coppia, perĂČ, doveva fondarsi anzitutto sulla sottomissione della donna. Pietro ricordava lâesempio di Sara che chiamava Abramo âsignoreâ, e sulla sua scia lo pseudo Ignazio ammoniva le mogli â nella sua lettera agli Antiocheni â a non chiamare confidenzialmente per nome i loro mariti. «Le mogli â declamava Paolo di Tarso â siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti Ăš capo della moglie, come anche Cristo Ăš capo della Chiesa, lui che Ăš il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa Ăš sottomessa a Cristo, cosĂŹ anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. E voi mariti amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa». Lâobbligo del velo in chiesa e in preghiera appariva il plastico simbolo della sudditanza della donna: «Lâuomo non deve coprirsi il capo, poichĂ© egli Ăš immagine e gloria di Dio; la donna invece Ăš gloria dellâuomo. E infatti non lâuomo deriva dalla donna, ma la donna dallâuomo; nĂ© lâuomo fu creato per la donna, ma la donna per lâuomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza».
Il cuore del pensiero paolino fu distesamente sviluppato da Giovanni Crisostomo nella seconda metĂ del IV secolo, ma il tono generale Ăš improntato a una generale mitezza, tutta compresa sul piano etico, escludendo ogni genere di maltrattamenti, nel contesto di un potere correzionale finalizzato a guidare la donna, âvaso imperfettoâ, sul cammino della perfezione:
Dico tutto questo senza esortare i mariti a essere aspri e severi, ma volendo persuadere le mogli a sopportare mariti anche feroci [...] Quando la moglie sarĂ preparata ...