Prima lezione di diritto
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Prima lezione di diritto

Paolo Grossi

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Prima lezione di diritto

Paolo Grossi

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Un grande maestro della scienza giuridica spiega il senso e la centralità del diritto nella vita degli uomini.

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Information

Year
2012
ISBN
9788858106464
Topic
Law
Index
Law

II. La vita del diritto

1. Un conciso tracciato del nostro itinerario

Se il diritto è vocato a ordinare la storia umana, è scontato che abbia in sé una precisa vocazione a incarnarsi nell’esperienza storica, divenendo di questa una dimensione insopprimibile. E come trama dell’esperienza il diritto vive una sua vita, ben inserito nel tessuto sociale economico politico. Concepire il diritto quale controllo sociale, cioè quale potere e comando, ci avrebbe resi sensibili e attenti al solo contenuto del comando e abbastanza indifferenti a questa vita. La strada da noi scelta ci porta, invece, a spostare l’attenzione su di essa, muniti della consapevolezza che di trama esperienziale si tratta, continua ma sempre rinnovantesi.
Il diritto non è mai una nuvola che galleggia sopra un paesaggio storico. È esso stesso paesaggio, o, se vogliamo, sua componente fondamentale e tipizzante. Ed è per questo che farà i conti con i tempi e gli spazi più diversi, che avrà diverse manifestazioni a seconda delle diverse esigenze dei climi storici in cui si immerge, manifestazioni che vanno interpretate e applicate affinché divengano concreto tessuto storico. Genesi, manifestazione, interpretazione, applicazione: tutto questo è diritto quale realtà incarnata nella storia; genesi e applicazione – i due momenti estremi del processo giuridico – sono momenti non scomponibili di un processo squisitamente unitario.
È una elementare verità, che il lettore novizio (ricolmo di sapido buonsenso) può ritenere pleonastica in ragione della sua ovvietà. Questa volta, l’autore del libriccino la scrive, più che per il candido novizio ancora immune da pre-giudizi, per i suoi colleghi giuristi, probabilmente per i più dotti che troppo spesso di pre-giudizi sono intrisi. Un torto del moderno scienziato del diritto è, infatti, di essersi troppo spesso dimenticato che l’applicazione è creazione giuridica non meno della promulgazione d’una legge. Ma avremo agio di parlarne più avanti chiarendo maggiormente.
Il nostro itinerario, dedicato a disegnare i tratti principali (anche se sommari) della vita del diritto, si snoderà in questo percorso: dopo aver puntualizzato i salienti tempi storici del diritto, con una messa a fuoco che molto ci servirà per proseguire consapevolmente la nostra analisi del presente (non dimentichiamoci mai che il diritto è forse il modo più fedele che una società ha di vivere la propria storia), dopo aver considerato il suo distendersi in spazi diversi ieri oggi domani, si passerà a tentar di cogliere i modi e gli strumenti grazie ai quali il diritto diventa tessuto storico, facendo tesoro di una analisi comparativa – sia verticale che orizzontale –, la sola che riesce a restituirci l’identità di quel punto esile d’una linea lunga che è il diritto presente e vigente.
È infatti unicamente grazie alla comparazione tem­porale/spaziale, allargando il nostro sguardo e aprendo il nostro respiro, che noi giungeremo ai tre risultati cui tende questo libricciolo e a cui aspira il nostro novizio: comprensione del presente, percezione del senso della linea in cui il presente si colloca e di cui costituisce soltanto un punto, capacità di avviare la costruzione del futuro.

2. I tempi storici del diritto. L’età antica: il «diritto romano»

Il novizio, che ha letto attentamente le pagine precedenti, possiede ormai l’elementare acquisizione che il diritto è vecchio quanto il mondo. Gli etnologi, e in particolare i cultori della etnologia giuridica, con le loro ricerche sul campo, hanno fatto conoscere le più diverse costumanze giuridiche, le più primitive, le più embrionali, relative magari a micro-organizzazioni sociali di indole tribale.
Senza dubbio, anche quello è diritto, perché si tratta pur sempre di ordinamenti osservati. Aggiungendo però sùbito che, avendo la disciplina organizzativa la sua fonte nell’uso e restando sempre ancorata a una dimensione consuetudinaria prevalentemente orale con una proiezione spazialmente assai ristretta, queste manifestazioni giuridiche, anche se perpetuatesi nei tempi lunghi, anche se talvolta giunte intatte fino a noi, non hanno affatto inciso nel solco profondo della storia.
L’età antica ci riserba, invece, manifestazioni giuridiche di civiltà culturalmente raffinate, e tradizioni recenti di studi non hanno mancato di parlare di ‘diritti dell’Oriente mediterraneo’ e di ‘diritto greco’, porgendo alla nostra attenzione di moderni un corpo di norme, di pratiche, di istituti segnato da una qualche organicità. Civiltà giuridiche, tuttavia, messe in ombra da quell’esperienza durata un intero millennio e che noi siamo soliti identificare con lo sbrigativo ma efficace e puntuale sintagma ‘diritto romano’. Sbrigativo, perché non ci dà conto di uno sviluppo che, dal secolo V a.C. al secolo VI d.C., è complesso e variegatissimo; però efficace e puntuale, perché restituisce al mondo romano il privilegio di aver costruito una delle più incisive civiltà giuridiche della storia occidentale d’ogni tempo1.
Se, in Occidente, è merito della cultura greca di aver dato all’uomo, soprattutto con Platone e Aristotele, una coscienza filosofica e di aver saputo, soprattutto con Euclide, leggere il mondo in termini matematici, merito indubbio della esperienza culturale romana è di aver letto il mondo socio-economico-politico in termini giuridici. Se, come abbiamo accennato, nell’Oriente mediterraneo e in Grecia, si cominciò a tradurre le vicende sociali in espressioni giuridiche di istituti e norme, fu soltanto a Roma che il complesso di queste espressioni diventò una compiuta grammatica in cui e con cui ordinare e stabilizzare la riottosità dei fatti sociali ed economici.
Ed apparve sul palcoscenico della storia un personaggio culturalmente e professionalmente nuovo, appunto il grammatico del diritto, il giurista. Generazioni di giuristi romani, in una continua e progrediente opera plurisecolare di affinamento e di approfondimento, e sempre più opera plurale, elaborarono tecniche di lettura e uno stile di analisi che fu agevole consolidare in concetti e categorie, ossia in strumenti di indole prevalentemente logica, appresi alla grande sorgente dei filosofi e matematici greci, che servivano egregiamente a dominare il particolarismo fattuale.
Il tutto costituì un metodo autonomo di approccio alla dimensione socio-economica, e sulle sempre più robuste fondazioni metodologiche sempre più robusta si delineò una scienza autonoma. La realtà socio-economica era ormai pensata in una visione nuova, quella giuridica. Accanto al pensiero filosofico e a quello matematico si poteva ora parlare legittimamente anche di un autentico pensiero giuridico.
Dalle frasi precedenti si può arguire il primo tratto caratterizzante dell’esperienza giuridica romana: pur se legislatori e magistrati vi riversarono un contributo non indifferente, essa è soprattutto l’opera fruttuosa di uno stuolo di giuristi, i quali, nel periodo che va dalla fine del II secolo a.C. ai primi decenni del III secolo d.C., dettero vita a una attività scientifica di altissimo livello. Il diritto romano è, insomma, soprattutto opera di scienziati; scienziati però singolarissimi perché, al tempo stesso, chiamati a inventare, e poi a riflettere e a definire, e poi ancora a procedere oltre con una costruzione ulteriore che ­doveva seguire armonicamente la gigantesca trasformazione della città-Stato laziale in Impero pressoché universale.
Diritto romano, dunque, come diritto scientifico: di scienziati non protési a disegnare una teoria pura astratta dalla storia, ma ben coinvolti nel potere e nel suo esercizio, al quale volevano offrire quel prezioso apparecchio di sostegno che da sempre è rappresentato dal diritto. Però – questo sì – uomini di scienza.
Con questa ulteriore illuminantissima precisazione: che, lavorando all’interno di una grande struttura politica unitaria, di una struttura che era loro facile pensare orgogliosamente come eterna, essi non disdegnarono la costruzione sistematica. Il sistema, struttura organicamente unitaria sorretta da una coerente ossatura logica, traduceva bene sul piano giuridico la stabilità e perpetuità del dominio politico romano.
Ne scaturì un doppio volto e anche un doppio modello per le civiltà successive.
Il primo era quello derivante dal suo proporsi come analisi scientifica: terminologia, formularii, concetti incarnavano nell’analisi dei giuristi romani un modello di straordinario rigore e anche, malgrado la schietta indole casistica originaria, le linee di una costruzione sistematica così solida da essere esemplare anche per climi storici assai differenziati. La rigorosità argomentativa, la perfezione formale, l’eleganza sistematica portate a un supremo fastigio nei trecento anni – anni ‘classici’ – poco sopra indicati saranno nell’età moderna tanto ammirate e imitate da subire una accentuata esasperazione. E il diritto romano, particolarmente quello ‘classico’, diventerà il fondamento per una geometria irrigidente.
Il secondo volto (e secondo modello) faceva perno sull’essere stati i giuristi romani non dei personag­gi avulsi dal loro tempo, ma anzi ben inseriti e coinvolti nel tessuto politico romano e nella sua classe dirigente. Le loro architetture, le loro categorie formalizzavano una civiltà valorizzatrice al massimo grado della dimensione dell’avere, fondata sul patrimonio e quindi sull’appartenenza, improntata a un deciso individualismo economico. Il loro sapere è, infatti, prevalentemente civilistico, vòlto a portare ordine rigoroso nel terreno di proprietà e diritti reali, contratti e obbligazioni, testamenti, legati, successioni legittime. L’astrattezza delle loro categorie e delle loro invenzioni formali, incastonate in un siffatto sfondo patrimonialistico, privilegiava sostanzialmente l’abbiente e il possidente. Come tali, costituiranno per la futura età borghese, cioè del predominio economico e poi anche politico del ceto borghese montante (secc. XVI-XIX), un prezioso supporto tecnico-giuridico, con una reviviscenza del messaggio romano-classico malgrado l’enorme distanza temporale di più di un millennio. E non senza fondamento, da parte di giuri­sti socialmente impegnati, il diritto romano sarà identificato in uno strumento di conservatorismo sociale.
Da quanto si va dicendo il lettore può rendersi conto che la rilevanza storica dell’esperienza giuridica romana è cospicua: una scienza giuridica ha lì la sua prima fucina, e lì compare ben provveduto di arnesi appropriati il giurista; quale compiuta grammatica giuridica di una civiltà dell’avere, il diritto romano svolgerà un ruolo esemplare ben oltre i termini storici della vita e della espansione della civiltà romana, assai limitatamente nell’esperienza medievale per i motivi che esporremo nelle pagine seguenti, assai incisivamente nell’esperienza moderna.

3. I tempi storici del diritto. L’età medievale: il «diritto comune»

La virulenta posizione polemica dell’individualismo e secolarismo moderni avverso il corporativismo e l’integralismo religioso medievali contribuì non poco alla strepitosa fortuna del diritto romano nell’età moderna. Il diritto medievale seguì, infatti, la sorte della civiltà di cui era fedele espressione: demolita questa nella comune coscienza, toccò a quello di restare sepolto sotto le sue macerie, ignorato quand’anche non dispregiato. Perché si ritornasse a parlarne e a prestarvi attenzione occorreva che la demolitiva ideologia borghese mostrasse a occhi meno plagiati la propria unilateralità e si cominciasse a dubitare di requisitorie storiche tanto indiscutibili quanto indimostrate; il che avverrà specialmente nel corso del secolo passato.
E fu, nello stesso tempo, un moto di liberazione da occhiali deformanti e un arricchimento della nostra consapevolezza storico-giuridica, troppo anchilosata dalla visione monca che si limitava a cogliere la continuità fra antichità classica e modernità rimovendo quasi mille anni di esperienza giuridica ridotti e mini­mizzati come media aetas, età di mezzo, età di transizione e pertanto immeritevole d’uno sguardo disteso.
Fu un moto di liberazione e di arricchimento, giacché permise ai giuristi novecenteschi di toccar con mano quanto quel diritto medievale, nel momen­to in cui le certezze dommatiche dell’età borghese si incrinavano nella loro inadeguatezza, avesse un lessico più familiare e porgesse un messaggio pieno di sollecitazioni per chi voleva costruire un edificio giuridico nuovo.
Ma quale fu la sua cifra tipizzante? E perché fu inteso come sollecitante da uomini di cultura aduggiati dalle mitologie giuridiche dell’età borghese? Cerchiamo di corrispondere con semplicità a un cómpito assai complesso2.
Il diritto medievale si origina, prende forma e si caratterizza in seno a due vuoti e in grazia a due vuoti: il vuoto statuale seguìto al crollo dell’edificio politico romano e quello della raffinata cultura giuridica strettamente connessa alle strutture dell’edificio. Ciò che potrebbe, a prima vista, sembrare un arretramento o, comunque, una circostanza negativa, e cioè due vuoti che restano incolmati, costituisce – al contrario – la nicchia storica conveniente per lo sviluppo d’una esperienza giuridica profondamente nuova e anche profondamente originale.
L’assenza, nell’età nascente sulle vecchie rovine, di un soggetto politico ingombrante e totalizzante, l’assenza dello Stato, toglie al diritto il suo legame col potere e la sua funzione di controllo sociale, lo rende libero di riaccostarsi ai fatti primordiali – naturali, sociali, economici –, di tentar di ordinarli in un pieno rispetto della loro natura. Il nuovo diritto è disegnato assai poco da legislatori – rari, cauti, disorganici –, ma piuttosto da un assestarsi spontaneo dell’esperienza quotidiana, variissimo da tempo a tempo e da luogo a luogo per il variare delle esigenze, che trova in un pullulare di consuetudini la sua manifestazione e consolidazione più vitali.
Interprete di questo folto tessuto consuetudinario non è lo scienziato teorizzatore, assente in una civiltà qualificabile come primitiva3, bensì il pratico applicatore, il giudice ma più ancora il notaio, povero di tecnica giuridica ma ricco di sensibilità e soprattutto disponibile a ‘inventare’ grossolane ma efficaci forme giuridiche rispondenti ai bisogni.
Senza un controllo centrale robusto il diritto si particolarizzò divenendo voce fedele di una società frammentata in una straripante articolazione comunitaria, in quelle comunità (famiglie, aggregati sovrafamiliari, corporazioni religiose, corporazioni professionali, e via dicendo) che – nel disordine imperversante – proteggevano l’individuo, gli consentivano la sopravvivenza e si ponevano quali strutture portanti dell’intero assetto socio-politico-economico. Il primo Medioevo, dall’angolo d’osservazione dello storico del diritto, si delinea come un’esperienza giuridica fattuale perché adagiata sui fatti primordiali, rampollata dal basso, consuetudinaria, pluralistica (cioè con fonti plurali produttrici di diritto in uno stesso territorio e dando vita a una pluralità di ordinamenti viventi in quello stesso territorio).
Le linee essenziali di questo paesaggio giuridico non mutano quando, nel secondo Medioevo, ossia dalla fine del secolo XI in poi, nel generale rifiorire della dimensione culturale ma nel permanere di una assenza statuale, la interpretazione del tessuto consuetudinario passa nelle mani di uomini di scienza che insegnano nelle ormai nascenti Università.
La società europea, da agraria e statica, va trasformandosi anche in una dinamica di fitte relazioni commerciali, con una struttura complessa e movimentata insuscettibile di essere ordinata da fatti consuetudinari particolari. Occorrevano ormai categorie generali che ordinassero la nuova complessità; se non era in grado di offrirle con le sue norme generali il legislatore (che resta...

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