Guida allo studio della storia contemporanea
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Guida allo studio della storia contemporanea

Vittorio Vidotto

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Guida allo studio della storia contemporanea

Vittorio Vidotto

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Questa Guida offre un punto di equilibrio fra i risultati storiografici consolidati e una ragionevole apertura ad alcune tematiche e tendenze più recenti attraverso un'opera dal taglio introduttivo che privilegia la praticità d'uso.

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Information

Year
2014
ISBN
9788858118030

1. Concetti, periodizzazioni, tipologie

1.1. Moderno e contemporaneo

Quando comincia la storia moderna? Quante volte abbiamo sentito porre questa domanda e sentito ripetere la scontata risposta: dal 1492, dalla scoperta dell’America.
La storia contemporanea suscita sotto questo aspetto minori curiosità. Per il senso comune la contemporaneità è apparentemente intuitiva e non sembra aver bisogno di una definizione temporale. È la storia del presente, del mondo che ci circonda, degli avvenimenti appena conclusi e che producono effetti ancora oggi. È il tratto finale o il provvisorio punto d’arrivo della freccia del tempo.
Nella cultura storica italiana, invece, si è affermata e poi consolidata una diversa convenzione. Per «storia contemporanea» si intende infatti il lungo periodo che prende le mosse dal 1815 o, più indietro, dalla rivoluzione francese, per giungere fino ai nostri giorni. Vi è dunque un palese contrasto tra la percezione del contemporaneo e l’impiego specialistico e disciplinare che ne fanno gli storici. A ciò si aggiunge il mai risolto dilemma sui confini temporali tra moderno e contemporaneo, complicato ulteriormente dal diseguale peso contenutistico e simbolico dei due termini.
Nell’uso corrente, ma anche nella sua accezione colta, il termine «moderno» è in genere connotato da una valenza positiva (Bizzocchi, 2002, p. 9). In quanto contrapposto al passato e all’antico, il moderno fa tutt’uno con il progresso in tutte le sue forme: politiche, sociali, economiche, scientifiche, tecnologiche, dei costumi. Si pensi appena a tutti gli oggetti e strumenti che ci circondano e che definiamo «moderni» o «più moderni», e per i quali, nonostante la loro produzione recente, non usiamo l’aggettivo «contemporaneo». O a espressioni relative al tempo presente come «società moderna», «biologia moderna», «calcio moderno» per le quali apparirebbe riduttivo e insieme più opaco e meno incisivo il termine «contemporaneo». Per il sentire comune non è agevole distinguere tra moderno e contemporaneo, che sono avvertiti spesso come coincidenti e sovrapponibili.
In virtù del più ampio spettro semantico, la nozione comune di moderno tende dunque a inglobare quella di contemporaneo, che a sua volta può presentarsi come sinonimo di moderno o come una sua accentuazione, sezione finale e/o residuale. Questa tendenza è confermata dal linguaggio delle scienze umane. Si pensi a termini derivati come «modernità» e «modernizzazione», concetti che designano alcuni caratteri tipici del moderno – mobilità sociale, libertà politiche e uguaglianza dei diritti, sviluppo economico e tecnologico – e il processo storico della loro affermazione. Tutti elementi databili, nelle loro origini, entro l’arco temporale dell’età moderna, secondo la tradizionale scansione 1492-1815, ma caratterizzanti in modo inequivocabile soprattutto il periodo successivo, quello appunto dell’età contemporanea.
E mentre continuiamo a collocare nell’area della modernità molti aspetti del mondo contemporaneo, non cessiamo di ripetere, semplificandola, la definizione di Benedetto Croce (1866-1952) secondo cui ogni storia è sempre storia contemporanea: «perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni» (Croce, 1943, p. 5). Formula fortunata, ma che contribuisce a restringere appunto il contemporaneo all’esperienza del presente.
Gran parte delle difficoltà concettuali e delle peculiarità lessicali del concetto di contemporaneo e tutti i potenziali conflitti con il senso comune vengono parzialmente superati solo quando cominciamo ad usare espressioni come «storia contemporanea» o «età contemporanea», consapevoli di entrare in un ambito disciplinare dotato di proprie consuetudini e di statuti consolidati.

1.2. Le periodizzazioni dell’età contemporanea

Una delle prime operazioni dello storico è quella di datare gli avvenimenti, ossia di collocarli nel tempo e di interpretarli in relazione ad altri in una sequenza elementare di prima e dopo. Il passo successivo è quello di attribuire un senso, un significato unitario a serie di avvenimenti altrimenti dispersi nel tempo. A questa esigenza rispondono anche le grandi cornici temporali di cui ci si serve quando si parla di epoca, età, secolo, o categorie come ad esempio quella di ancien régime. Non si tratta di semplici misure del tempo, perché queste denominazioni si caricano, fin dal loro uso sistematico nel corso dell’Ottocento, di contenuti interpretativi e talora di valori alternativi, come nel caso delle contrapposizioni tra medioevo ed età moderna, tra ancien régime ed età delle rivoluzioni.
Dalla fine del Settecento si diffonde l’impiego del concetto di secolo, portatore ed emblema di una connotazione epocale (Socrate, 2003). Avremo così il XVIII secolo, il Settecento della ragione e dei Lumi, e il XIX secolo, l’Ottocento del progresso e della borghesia. Questo strumentario concettuale, contro il quale si schierò vanamente Croce, ostile a ogni catalogazione che attentasse all’individualità assoluta degli eventi storici (Croce, 1943, pp. 296-301), si sarebbe via via ulteriormente arricchito. Intorno al 1960 diviene di uso generale anche in Italia (Fabi, 1962, p. 18; Cortelazzo e Zolli, 1979) la suddivisione del secolo in corso in decenni, già precedentemente diffusa nel mondo anglo-sassone: gradatamente si consolida un automatismo forzato e inarrestabile dettato dall’illusione razionalizzatrice della divisione decimale e imposto dal dettato comunicativo e semplificatore dei mass-media.
Il Novecento risulta così scandito in anni Venti, anni Trenta, anni Quaranta e così via. La fortuna di queste denominazioni deriva anche dal successo di espressioni come «i ruggenti anni Venti», The Roaring Twenties, titolo di un celebre film di gangster, un classico nel suo genere, diretto nel 1939 da Raoul Walsh e interpretato da James Cagney. In questo caso una sola parola, roaring, sembrava in grado di riassumere tutta l’atmosfera di un decennio segnato da un frenetico vitalismo, accompagnato dal diffondersi della musica jazz e dalla prima emancipazione femminile. Questa operazione semplificatrice tende a prolungare gli effetti di singoli fenomeni su un arco temporale più ampio del loro primo manifestarsi, ma paradossalmente costretto a non superare mai l’estensione prefissata di un decennio. Avremo così gli anni Trenta della grande crisi e dei totalitarismi, gli anni Quaranta della guerra mondiale e della ricostruzione, gli anni Cinquanta della guerra fredda e della decolonizzazione, gli anni Sessanta del benessere e delle rivolte studentesche, con il punto focale degli avvenimenti che si sposta di volta in volta dall’Europa all’America, coinvolge l’Italia o si allarga in una dimensione mondiale. E ancora gli anni Settanta della crisi economica e della radicalizzazione ideologica, gli anni Ottanta del crollo delle ideologie e del ritorno al mercato, e infine gli anni Novanta della società postindustriale e della globalizzazione.
Per quanto inserite in un’apparente oggettività aritmetica, le due scansioni temporali finora indicate – secolo e decennio – non riescono a sottrarsi alla possibile imputazione di appartenere all’ambito degli artifici e delle convenzioni. Ma questo repertorio non sarebbe completo senza menzionare anche il concetto di generazione. Un concetto dallo statuto ancora più incerto. «Generazione» può infatti indicare un gruppo umano che ha in comune l’epoca della nascita oppure che – indipendentemente da un riferimento puntuale alla nascita – ha condiviso la partecipazione a una fase storica significativa. Qualche esempio può contribuire a chiarire queste differenze. La generazione del ’99, «i ragazzi del ’99», designa i giovani italiani che furono schierati in prima linea appena diciottenni, nel novembre 1917, dopo la disfatta di Caporetto. In questo caso «generazione» ha anche un significato tecnico in quanto coincide con la classe anagrafica, ossia tutti i nati nel 1899. La «generazione del Sessantotto» individua invece quanti parteciparono alle rivolte studentesche di quell’anno o si identificarono in quel clima: non solo studenti diciottenni, diciannovenni o appena ventenni come erano in grande maggioranza, ma anche numerosi giovani laureati vicini ai trent’anni. Non è quindi l’anno di nascita a definire la generazione, ma la partecipazione a un evento significativo. Analogo è il caso della «generazione del ’98», il gruppo di intellettuali spagnoli impegnati a ridefinire il ruolo politico e culturale del loro paese dopo il declino culminato nella sconfitta contro gli Stati Uniti nella guerra del 1898, con la perdita di Cuba e delle Filippine. «Generazione» ha anche il valore di una scansione temporale: già Erodoto, lo storico greco del V secolo a.C., sosteneva che un secolo era pari a tre generazioni. Ma è pur vero che ogni anno prende avvio una nuova generazione. E tuttavia il bisogno di identità e di appartenenza induce ad usare espressioni come «la mia/nostra generazione» oppure «la generazione dei nostri genitori». E ancora, in un ambito più decisamente storico, vedremo ricorrere definizioni come «la generazione del Risorgimento» oppure «Crispi, uno degli ultimi esponenti della generazione che aveva fatto il Risorgimento».
Secoli, decenni, generazioni sono dunque gli strumenti di cui lo storico si avvale per raggruppare gli eventi e scandire il tempo entro periodi significativi. Questi strumenti consentono di muoversi, secondo criteri codificati e condivisi, all’interno di uno specifico campo di studi, in questo caso la storia contemporanea, adempiendo ad una delle operazioni preliminari del lavoro storiografico, la periodizzazione.
La periodizzazione, termine derivato dalla scienza storica tedesca e importato in Italia da Croce nella sua Teoria e storia della storiografia (1917), non riguarda solo le suddivisioni interne di un lungo arco temporale, ma investe in primo luogo le ragioni che permettono di individuare i caratteri fondamentali e specifici di ogni età, determinando anche un inizio, e quindi un punto di cesura, che renda evidente un passaggio e giustifichi la denominazione di una nuova epoca storica.
Se, come si diceva, una lunga e consolidata tradizione colloca l’inizio dell’età moderna nel 1492, in coincidenza con la scoperta dell’America, non vi è altrettanto consenso sulla data di chiusura del periodo e quindi neppure sulla data iniziale della storia contemporanea. Il 1789, anno cruciale per la caduta dell’ancien régime, la presa della Bastiglia e l’abolizione del feudalesimo, e la rivoluzione francese nel suo insieme fino al 1794 o al 1799, al colpo di Stato di Napoleone, rappresentano infatti il culmine di un’epoca o l’inizio di una nuova età? Si tratta di date di cui non è forse superfluo sottolineare il carattere fortemente simbolico. Non solo per l’ovvia considerazione che il passaggio da un’età a un’altra non è un momento puntiforme collocato alla mezzanotte di un giorno fatale per cui uomini e donne, addormentatisi moderni, si sarebbero svegliati contemporanei. Ma soprattutto per la somma dei significati/effetti/cambiamenti riconosciuti a quelle date e consolidatisi nella storia e nell’immaginario dei popoli. Date universali, si potrebbe anche dire, e si è detto. Salvo ricordare, per prudenza e precisione, che invece sono momenti ed espressioni della cultura, delle tradizioni politiche e delle mentalità dell’Occidente e dell’Europa in particolare. Tant’è vero che sussistono forme di cultura e di organizzazione sociale – come quelle delle comunità tradizionali del nostro tempo nel Borneo o nell’Amazzonia – che pur appartenendo cronologicamente alla contemporaneità rientrano a maggior titolo nella dimensione del «non-contemporaneo» (Koselleck, 1986, p. 112).
Una frattura rivoluzionaria rappresenta la cesura ideale per segnare l’avvio di una nuova periodizzazione e per fissare un termine alla precedente. Se poi la storia politica e le correlate questioni del potere e della sovranità sono, come si vedrà in seguito, il fulcro originario della disciplina storica, la rivoluzione francese apparirà inevitabilmente come l’evento epocale che mutò e accelerò il passo della storia. Se invece ci si colloca sul terreno dei fatti economici e sociali sarà la prima rivoluzione industriale, quella già visibile nei suoi esordi in Inghilterra negli anni Ottanta del Settecento, ad imporre una sua dimensione periodizzante con la meccanizzazione della filatura del cotone, la produzione della ghisa e la nascita della fabbrica meccanizzata. E soprattutto con gli effetti a cascata di queste innovazioni: la graduale formazione della classe operaia, il peso crescente della borghesia imprenditoriale e del capitalismo industriale, la crescita del mercato, l’aumento della popolazione, lo sviluppo dei centri urbani, la riduzione del peso economico dell’agricoltura e la progressiva diffusione del benessere anche nei ceti inferiori. Rispetto alla rivoluzione politica, la cesura indotta dalla rivoluzione economica appare tuttavia meno netta, così come meno significativi risultano i suoi effetti immediati. Del resto il progresso degli studi e le correzioni al ribasso dei valori quantitativi del decollo industriale inglese hanno teso a ridimensionare la portata iniziale di quelle trasformazioni. Ma il fascino periodizzante di una doppia rivoluzione è rimasto a segnare gli esordi dell’età contemporanea.
Queste sono le coordinate temporali generalmente accettate in Italia e nel mondo dei nostri studi. Ma le periodizzazioni sono variamente radicate nelle diverse culture nazionali. La rivoluzione francese viene individuata come l’evento che dà avvio all’età contemporanea non solo, come è naturale, in Francia, ma anche in Germania, dove il dominio francese impose una modernizzazione delle strutture politiche e determinò anche, per reazione, la nascita del movimento nazionale tedesco. Per l’Inghilterra, che aveva conosciuto due rivoluzioni politiche nel corso del Seicento e possedeva già un ordinamento parlamentare, la rivoluzione francese non ha evidentemente la stessa rilevanza. Anzi, la seconda rivoluzione inglese del 1688-1689 con il pacifico cambiamento di regime rappresentava un modello alternativo a quello francese, mentre il periodo rivoluzionario e napoleonico veniva inquadrato nel più antico conflitto tra le due potenze per l’egemonia coloniale e commerciale nel mondo, conflitto che aveva visto prevalere l’Inghilterra nel 1763. Ora si riapriva una sfida politica in grado di mettere in discussione il dominio inglese nel mondo, una sfida che andava combattuta per terra e per mare, ma anche sul piano ideologico e culturale. Per l’insieme dell’Europa continentale, invece, la cesura rivoluzionaria rappresentava un momento epocale tanto per i fautori del cambiamento che per i difensori del passato.
Non sorprende quindi che in un libro fortunato e diffuso anche in Italia, come la Guida alla storia contemporanea, lo storico inglese Geoffrey Barraclough (1908-1984) collochi l’inizio della storia contemporanea intorno al 1890, quando il ruolo delle potenze e i rapporti di forza «che sono attuali nel mondo odierno assumono per la prima volta una chiara fisionomia», quando cioè entrano in scena su scala mondiale Giappone e Stati Uniti (Barraclough, 1971, pp. 18 e 107). Un punto di vista strettamente collegato al dominio mondiale della Gran Bretagna, consolidatosi nel corso dell’Ottocento, e all’emergere di nuovi protagonisti.
Cesure e periodizzazioni appaiono quindi strettamente legate ai tratti caratteristici delle singole storie nazionali anche quando si cerca di conferire alla storia contemporanea una forte connotazione di storia mondiale svincolata da ogni dimensione localistica. La diversità delle tradizioni nazionali e culturali si riflette anche nella terminologia impiegata, nella mancata equivalenza delle parole e dei concetti chiamati ad indicare le stesse cose.
Così la cultura storica inglese e americana non ha difficoltà a estendere la categoria della storia moderna fino alla seconda guerra mondiale o agli inizi della guerra fredda, salvo affiancarle l’espressione late modern per indicare tutto il periodo dal 1789 al 1989, anno della caduta del muro di Berlino. La definizione di contemporary history non indica quindi una scansione riconosciuta e accettata e i suoi termini cronologici sono in genere circoscritti al solo Novecento, ma più ancora agli anni successivi alla Grande guerra.
Anche la tradizione storiografica tedesca preferisce alla nozione di contemporaneo le scansioni del moderno attraverso le gradazioni dell’aggettivo neu (nuovo) in combinazione con Zeit (tempo, età): frühe Neuzeit, prima età moderna, Neuzeit, età moderna (fino al 1918), neueste Zeit, età nuovissima ossia contemporanea. È impiegata anche l’espressione Zeitgeschichte, ossia storia del [nostro] tempo, ma si è consolidata solo in parte e solo in rapporto al recente diffondersi di cattedre universitarie che portano questa intitolazione.
In Italia, infine, il costituirsi della storia contemporanea come settore autonomo di studi e come periodizzazione nasce da un complesso intreccio di tradizioni culturali, storiografiche, accademiche e didattiche.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento si pubblicano nel nostro paese alcune opere di taglio manualistico intitolate alla storia contemporanea (Manfroni, 1890; Lemmi, 1925). Il volume di Michele Rosi, Storia contemporanea d’Italia, pubblicato per la prima volta nel 1914, ne rappresenta uno degli esempi più significativi. Più volte riedito, partecipa di un canone interpretativo incentrato sulla funzione periodizzante del Risorgimento e sulla convinzione che la storia contemporanea italiana coincida per intero con la storia del Risorgimento. Un Risorgimento che «non termina con la proclamazione del Regno, né due lustri circa più tardi con l’acquisto di Roma», ma «continua fino ai nostri giorni e continuerà ancora per un pezzo, finché le forze del paese non abbiano avuto il loro logico sviluppo all’interno ed all’estero» (Rosi, 1917, pp. vii-viii). La centralità del Risorgimento domina del resto i programmi di storia dell’ultimo anno di ogni ordine di scuola dedicati all’età contemporanea, intesa secondo una periodizzazione che parte in genere dal 1748 – quando, con la conclusione della guerra di successione austriaca, si definiscono gli assetti politici nella penisola italiana (Rodolico, 1923) –, oppure individua come inizio la rivoluzione americana e la rivoluzione francese. Solo in seguito, nel secondo dopoguerra, il punto di partenza, il terminus a quo, viene spostato in avanti e fissato al 1815, consolidandosi per oltre un cinquantennio intorno a questa data.
Nelle università, a partire dalla metà degli anni Trenta, la storia del Risorgimento riceve un suo statuto disciplinare autonomo con le prime cattedre di professore ordinario che portano questa intitolazio...

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