Smart Power
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Joseph S. Nye Jr.

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Joseph S. Nye Jr.

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Il potere non è una cosa positiva o negativa in sé. È come le calorie in una dieta: non sempre è desiderabile averne di più.Lo smart power è la combinazione dell'hard power della coercizione con il soft power della persuasione e dell'attrazione: il dittatore nordcoreano Kim Jong-Il guardava i film hollywoodiani, ma questo non ha avuto effetti di rilievo sul programma nucleare della Corea del Nord. E il soft power dell'attrazione non è riuscito certo a dissuadere il governo talebano dal sostenere al-Qaeda negli anni Novanta. È stato necessario impiegare l'hard power militare nel 2001 per porre fine a quella situazione, anche se il modo migliore di promuovere la democrazia e i diritti umani non è certo imbracciando il fucile. Nessuno ha ancora detto l'ultima parola sul controverso concetto di potere, ma dal momento che non possiamo evitare di parlarne è necessario pensare a una prospettiva più ampia nelle visioni strategiche, che tenga conto di profonde trasformazioni in atto. Come il fatto che il contesto globale sia investito dalla nuova rivoluzione informatica, che sta cambiando la natura stessa del potere favorendone la diffusione. Gli Stati resteranno sempre gli attori dominanti sulla scena mondiale, ma troveranno questo ciberspazio sempre più affollato e difficile da controllare. Anche questo è smart power.Se il vostro obiettivo è capire gli affari internazionali nel Ventunesimo secolo, non potreste trovare una guida migliore.Madeleine K. AlbrightSe siete alla ricerca di una brillante e originale analisi del ciberpotere, leggete il capitolo 5 di Smart Power. Se invece state cercando la migliore e più esauriente analisi del potere nella politica mondiale, leggete l'intero libro.Robert O. Keohane, Princeton University

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Information

Year
2012
ISBN
9788858101575

VI. La transizione del potere. La questione del declino americano

Indipendentemente da come viene misurato, è raro che il potere sia distribuito in maniera uniforme tra gli Stati. Più spesso, a causa di processi di crescita disomogenei, alcuni Stati sono in ascesa mentre altri sono in declino. Se uno Stato dispone di risorse superiori si parla generalmente di «egemonia», e fin dai tempi dell’antica Grecia gli storici spiegano le origini delle principali guerre in termini di transizione egemonica. Tucidide attribuì le cause della guerra del Peloponneso (che distrusse il sistema delle città-Stato greche nel V secolo a.C.) all’ascesa del potere di Atene e al timore che suscitò in Sparta. Analogamente, secondo molti storici, la causa della prima guerra mondiale, che pose fine alla centralità dell’Europa nel mondo, fu l’ascesa del potere della Germania e le apprensioni che suscitò nella Gran Bretagna. Come ha scritto un politologo: «[Le guerre per l’egemonia] sono state spesso scatenate dalla paura del declino definitivo e dalla percezione di una erosione del potere»1.
Alcuni prevedono che l’ascesa della Cina avrà effetti simili sugli Stati Uniti nel XXI secolo. Secondo un sinologo, «presto o tardi, se le attuali tendenze persisteranno, potrebbe scoppiare una guerra in Asia [...]. Oggi la Cina sta tentando di allontanare gli Stati Uniti dall’Asia orientale con l’arma della paura, proprio come la Germania cercò di spaventare la Gran Bretagna prima della prima guerra mondiale». Analogamente, come afferma il commentatore politico Robert Kagan: «I leader cinesi hanno una visione del mondo molto simile a quella che aveva il Kaiser Guglielmo II un secolo fa [...]. Le autorità cinesi tollerano malvolentieri ogni forma di restrizione e ritengono di dover cambiare le regole del sistema internazionale prima che il sistema internazionale cambi loro»2. John Mearsheimer, politologo della University of Chicago, afferma: «Per dirla schietta, l’ascesa della Cina non potrà avvenire in modo pacifico»3. Due analisti più prudenti sostengono: «Non è affatto detto che la Cina costituirà una minaccia per gli interessi statunitensi, ma se c’è una grande potenza con cui gli Stati Uniti potrebbero scendere in guerra, quella è proprio la Cina»4.

Transizioni egemoniche

Ma una guerra tra uno Stato con risorse dominanti e una potenza in ascesa non è affatto inevitabile. Negli anni Novanta dell’Ottocento la Gran Bretagna riuscì ad adattarsi all’ascesa del potere americano nonostante le opportunità di conflitto bellico5, e le nove «guerre mondiali» o generali combattute a partire dal 1500 non furono tutte guerre egemoniche6. Peraltro, il termine «egemonia» viene usato in modi diversi e spesso confusi. Vi sono opinioni discordanti in merito al grado di disuguaglianza e al tipo di risorse che danno luogo a una situazione di egemonia. Alcuni usano il termine come sinonimo di «imperialismo» e ritengono che nell’Ottocento la Gran Bretagna fosse uno Stato egemone, malgrado l’Impero britannico, persino all’apice del suo potere nel 1870, si collocasse al terzo posto (dietro gli Stati Uniti e la Russia) per Pil e al terzo posto (dietro la Russia e la Francia) per spese militari.
Dopo la seconda guerra mondiale molti pensavano che gli Stati Uniti vantassero un’egemonia globale, in quanto rappresentavano circa un terzo del prodotto mondiale e possedevano un arsenale nucleare senza rivali; ma nonostante questo, gli Usa non riuscirono a impedire la «perdita» della Cina, a fermare l’espansione del comunismo in Europa orientale, a scongiurare la situazione di stallo nella guerra di Corea, a evitare la «perdita» del Vietnam del Nord o a scalzare il regime di Castro a Cuba. Anche nell’era della presunta egemonia americana, solo un quinto dei tentativi fatti dagli Stati Uniti di imporre un cambiamento ad altri paesi con minacce militari ha avuto successo; analogamente, solo nella metà dei casi gli Usa sono riusciti a conseguire gli obiettivi che si prefiggevano con le sanzioni economiche7. Come abbiamo visto nel primo capitolo, il potere misurato in risorse non si traduce necessariamente nel potere inteso come capacità di ottenere i risultati desiderati. Occorre sempre specificare il contesto, la portata e il campo del potere, e c’è sempre il rischio che la patina dorata del passato possa deformare l’analisi storica. Le definizioni vaghe e le letture arbitrarie della storia dovrebbero indurci a diffidare delle teorie generali sull’egemonia e il declino.
Molti ritengono che l’attuale primato degli Stati Uniti in fatto di risorse sia egemonico, e che gli Usa andranno incontro a un declino com’è già accaduto in passato alla Gran Bretagna. Alcuni americani hanno una reazione emotiva all’idea del declino, perché va a toccare un nervo politico scoperto, ma sarebbe controintuitivo e antistorico pensare che gli Stati Uniti possano controllare in eterno una quota preponderante delle risorse di potere. Tuttavia, la parola «declino» contiene in sé due diverse accezioni: quella di declino assoluto, inteso come decadenza o la perdita della capacità di utilizzare efficacemente le proprie risorse; e quella di declino relativo, che indica una situazione in cui altri Stati acquisiscono maggiori risorse o imparano a utilizzarle con maggiore efficacia. Per esempio, nel XVII secolo i Paesi Bassi, pur vivendo un periodo di grande prosperità interna, videro declinare il proprio potere in termini relativi perché altri Stati divennero più forti. Al contrario, a causare la fine dell’Impero romano d’Occidente non fu l’ascesa di un altro Stato, bensì un processo di decadenza interna accompagnato dalle invasioni barbariche. Come suggerisce uno storico britannico: «Gli uccelli del malaugurio cercano di spiegare il declino dell’egemonia americana evocando la storia dell’Impero romano e di quello britannico. Ma così facendo ignorano l’avvertimento di Gibbon circa il pericolo insito nel mettere a confronto epoche molto distanti fra loro». Roma era una società rurale dilaniata da conflitti micidiali; l’Impero britannico, basato su una piccola isola, era «una quercia in un vaso da fiori»8.
L’analogia storica con il declino britannico è molto gettonata ma fuorviante. La Gran Bretagna aveva un impero su cui non tramontava mai il sole, governava su un quarto dell’umanità e vantava un’indiscussa supremazia navale; tuttavia, vi sono importanti differenze tra le risorse di potere relative dell’Impero britannico e quelle dell’America contemporanea. Al tempo della prima guerra mondiale, la Gran Bretagna era soltanto quarta tra le grandi potenze per personale militare, quarta per Pil e terza per spesa militare9. I costi della difesa si attestavano tra il 2,5 e il 3,4 del Pil, e l’Impero era governato in gran parte con l’impiego di truppe locali. Nel 1914, grazie alle esportazioni nette di capitali, la Gran Bretagna poteva attingere a importanti risorse finanziarie (sebbene alcuni storici ritengano che avrebbe fatto meglio a investire nell’industria nazionale), e quasi un terzo degli 8,6 milioni di soldati britannici schierati nella prima guerra mondiale proveniva dai possedimenti imperiali d’oltremare10. Ma con l’ascesa del nazionalismo divenne sempre più difficile per Londra dichiarare guerra a nome dell’Impero, e la difesa dei domini imperiali divenne col tempo più un fardello che una risorsa. Al contrario, dal 1856 l’America può contare su un’economia di dimensioni continentali immune da spinte nazionaliste disgreganti. Pur con tutti i discorsi a vanvera sull’impero americano, gli Stati Uniti hanno meno pastoie e più gradi di libertà di quanti ne avesse la Gran Bretagna. Anche la geopolitica dei due Stati è diversa: la Gran Bretagna dovette fare i conti con l’ascesa di due potenze vicine come la Germania e la Russia, mentre gli Stati Uniti sono protetti da due oceani e confinano con paesi più deboli.
Malgrado queste differenze, periodicamente gli americani sono inclini a credere nel proprio declino. Alcuni ritengono che il problema dell’America sia riconducibile alla sua sovraesposizione imperiale, altri al declino relativo causato dall’ascesa di altre potenze e altri ancora a un processo di declino assoluto o decadenza. Valutazioni di questo tipo non sono una novità: già i Padri fondatori temevano i confronti con il declino della Repubblica romana. Una vena di pessimismo culturale è una caratteristica tipicamente americana, che può essere fatta risalire alle sue radici puritane. Come osservava Charles Dickens un secolo e mezzo fa, «a dar retta ai suoi singoli cittadini, unanimi dal primo all’ultimo, [l’America] è sempre depressa, attraversa sempre un periodo di ristagno, è sempre colpita da una crisi allarmante, e non è mai stato altrimenti»11.
In tempi più recenti, i sondaggi hanno rilevato percezioni di declino dopo il lancio dello Sputnik da parte dell’Unione Sovietica nel 1957, dopo le manovre economiche di Nixon e gli shock petroliferi degli anni Settanta, e dopo la chiusura delle industrie della cosiddetta «cintura della ruggine» e i disavanzi di bilancio generati dall’amministrazione Reagan negli anni Ottanta. Alla fine di quel decennio il popolo americano era convinto che il paese fosse in declino; ma già dieci anni dopo pensava che gli Stati Uniti fossero l’unica superpotenza, e oggi molti credono di nuovo che siamo in una fase di declino12. Questi cicli di «declinismo» più che altro gettano luce sulle dinamiche psicologiche, ma nulla ci dicono sugli spostamenti fondamentali delle risorse di potere13. Anziché affidarci ad analogie storiche di dubbio valore o a proiezioni basate su cicli di breve periodo, nei prossimi due paragrafi esamineremo la questione del potere statunitense soffermandoci dapprima sul declino rispetto al potere di altri paesi e quindi sul declino assoluto dovuto a cambiamenti interni.

La distribuzione delle risorse di potere

All’inizio del XXI secolo le risorse di potere erano distribuite in maniera molto diseguale. Con appena il 5% della popolazione del pianeta, agli Stati Uniti erano riconducibili circa un quarto del prodotto mondiale, quasi la metà delle spese militari globali e le più vaste risorse di soft power nel campo della cultura e dell’istruzione. Secondo due studiosi, «nessun sistema di Stati sovrani è mai riuscito ad arginare le azioni di uno Stato con un tale primato in fatto di risorse materiali»14...

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