Storia della guerra fredda
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Storia della guerra fredda

Bruno Bongiovanni

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Storia della guerra fredda

Bruno Bongiovanni

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Che cos'è la guerra fredda? Nell'accezione corrente, è l'intero arco cronologico che inizia alla fine della seconda guerra mondiale e arriva sino al triplice evento che la conclude: l'abbattimento del muro di Berlino (1989), la riunificazione tedesca (1990), il collasso dell'impero interno dell'URSS (1991). Ma col termine 'guerra fredda' si indica anche il confronto militare, economico, politico e ideologico tra le due superpotenze che si sono spartite il pianeta e lo sfondo storico permanente, durato quarantacinque anni, su cui si stagliano alcuni momenti particolarmente 'caldi' di un lunghissimo dopoguerra.

In questo libro si vuole dimostrare che la guerra fredda è stata, in realtà, un sistema largamente imperfetto delle relazioni internazionali, gestito da due superpotenze non solo antagoniste, ma anche complementari. Con la presenza, negli anni 1946-1976, di un terzo e inarrestabile soggetto che l'ha fortemente condizionata: la decolonizzazione; e con la presenza, soprattutto negli anni successivi, di un altro soggetto, più economico che politico: l'Europa.

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1.
I sistemi internazionali

Tre grandi sistemi, più o meno solidi, più o meno precari, di balance of power, hanno retto, sorretto, e di tanto in tanto ridotto a mal partito, le relazioni internazionali dell’Europa, e poi del mondo, nel lungo periodo storico intercorso tra il 1814 (crollo, in seguito a ragioni prevalentemente esogene, dell’impero napoleonico) e il 1991 (crollo, in seguito a ragioni prevalentemente endogene, dell’impero sovietico).
Il primo sistema, quello che si può definire «viennese», ha avuto una lunga durata, tanto da costituire la parte più cospicua del cosiddetto «lunghissimo Ottocento» (1776-1914 o, a seconda delle interpretazioni possibili, 1789-1914). Una volta tradotto in tempo storico, il sistema «viennese» fu del resto definito dallo storico Karl Polanyi, con qualche buona ragione se si pensa ai trent’anni che sono venuti dopo, «pace dei cento anni» (1815-1914). Scaturito da un negoziato politico tra le potenze conservatrici e legittimistiche dell’area centro-orientale dell’Europa continentale (Austria, Prussia, Russia), da una parte, e, dall’altra, l’estremo Occidente europeo (insulare e britannico), il sistema elaborato con pragmatismo e sapienza nell’ambito del Congresso di Vienna, pur configurandosi, e all’inizio confermandosi, come una riproposta reazionaria (nel senso etimologico della parola), politicamente rigida, e ideologicamente autoritaria, dell’Antico Regime, si dimostrò, nel tempo, estremamente flessibile, quasi plastico, e quindi inopinatamente resistente. Seppe infatti sopportare, certo non senza difficoltà, all’interno della propria parabola, notevolissime e potenzialmente distruttive torsioni e trasformazioni. Si cominciò infatti, seguendo il controrivoluzionario spirito viennese, con una restaurazione in realtà non proprio perfetta e con la Francia – per non parlare dell’Inghilterra – non del tutto assimilabile alle potenze della Santa Alleanza (1815-1830). Si passò successivamente, attraverso una restaurazione ormai decisamente imperfetta e sfilacciata (1830-1848), a una rivoluzione con rinnovata restaurazione provvisoria e con rapida transizione, ai fini dell’ineludibile cambiamento, dall’iniziativa insurrezionale dei popoli all’iniziativa diplomatica dei governi (1848-1856). Si giunse poi al sottosistema detto «della Crimea», che abbracciò gli anni dal 1856 al 1871 e che vide l’eclisse russa, l’isolamento austriaco, il passaggio dall’Est austro-russo all’Ovest anglo-francese per quel che riguardava l’egemonia «sistemica» europea, l’unificazione italiana e quella tedesca. Si approdò infine al lungo, e al suo interno variegato, periodo dominato dalla Realpolitik, introdotta, con l’esibizione crescente della forza, dal cuore degli spazi tedeschi (il «centro» ora autonomo della politica europea), come surrogato, subito generalizzatosi, del sempre più logoro e pur ancora incredibilmente vitale equilibrio (1871-1914).
Il secondo sistema delle relazioni internazionali, inaugurato nel 1919, è quello che possiamo definire «versagliese». Partendo, sulla scia dell’intervento americano nella prima guerra mondiale e della risposta da fornire alla pur ostracizzata rivoluzione russa, da intendimenti in genere progressisti, e tali da tenere in gran conto proprio quei princìpi liberali e nazionali soffocati a Vienna nel 1815, il Trattato di Versailles ha ratificato e sistematizzato la fine della prima guerra mondiale, ma si è drammaticamente rivelato, con il senno di poi, un episodio interno, e certamente non risolutivo, della guerra dei trent’anni del XX secolo (1914-1945). All’aggregante 1815 – con tutti i soggetti uniti dalla grand’ peur causata dalla rivoluzione diventata guerra e dalla guerra trasformatasi in rivoluzione – era del resto succeduto il disgregante 1914, alimentato da una esponenziale politica di potenza e dalla corsa agli armamenti. L’uno e l’altro fenomeno avevano finito con il demolire l’equilibrio e con il produrre un’esplosione da tutti, a cominciare dai socialisti, assolutamente inattesa quanto a distruttività nei confronti del sistema, e poi a dinamismo, forme belliche, statalizzazione dell’economia, incentivi tecnologici generati, dimensioni, durata ed esercizio generalizzato e quotidiano della violenza. Si cominciò a discorrere di «guerra civile europea» a partire dal 1914, e non dal 1917, che del 1914 fu, con il collasso totale dello Stato zarista, una traumatica conseguenza. La Grande Guerra aveva insomma innescato una devastante logica polimorfa (forza-nazionalimperialismo-ideologia-politica di massa) che Versailles non fu in grado, nonostante l’intervento americano avesse trasformato la guerra di imperi in guerra democratica, di addomesticare e talvolta neppure di comprendere. Versailles, così, nonostante diversi sforzi invero generosi, invece di bloccare il processo in corso, contribuì per certi versi, e del tutto involontariamente, ad accelerarlo.
Venne, in particolare, a mancare un complesso meccanismo volto a conservare l’equilibrio nell’area dell’Europa centrale. Esisteva ora una Società delle Nazioni creata e abbandonata dagli americani, oltre che egemonizzata di fatto, proprio in ragione del pentimento isolazionistico statunitense, dagli anglo-francesi. Esistevano inoltre divergenze tra gli stessi vincitori così come tra i vinti. Esisteva anche, a partire dal 1922, l’Unione Sovietica. Esistevano infine Stati cuscinetto, esodi biblici di popolazioni in tutte le direzioni, cordoni sanitari antisovietici e antitedeschi, impazzimenti di monete e di economie, culti ovunque monumentalizzati dei caduti, mancate elaborazioni degli immani lutti, risentimenti, minacce continue di vendette, revisionismi, revanscismi, interessate manovre delle grandi e meno grandi potenze. Pur quasi sempre, sulla base dei princìpi wilsoniani astrattamente intesi, in parte (e mai in tutto) legittimi, i nuovi Stati si dislocavano infatti negli spazi che nel centro, a est, e a sud del continente europeo, si affiancavano alla Repubblica di Weimar e alla Russia bolscevica, vale a dire all’indebolita Germania non più imperiale, oltre che penalizzata dall’Intesa, e all’unico impero rivoluzionariamente e confusamente sopravvissuto alla tempesta della Grande Guerra. Erano infatti a uno a uno crollati l’impero austroungarico, l’impero ottomano, e lo stesso Kaiserreich germanico, mentre l’impero russo era sfuggito, tra innumerevoli tragedie, all’invasione bellica austro-turco-germanica, alla guerra civile contadina, alla guerra civile dei rossi contro i bianchi sostenuti dall’Intesa, nonché alle stesse regole di Versailles. Fu perciò l’unica impalcatura territoriale dell’Antico Regime a rimanere in piedi, pur amputata a ovest (Finlandia, Polonia, paesi baltici, Bessarabia), pur sotto il governo dei commissari del popolo, e nonostante i costi umani elevatissimi e le mille e mille difficoltà. Il 1917 era il prodotto di tre rivoluzioni (l’occidentalista-liberale di febbraio, la proletaria dei Soviet e delle città industriali, la contadina delle immense campagne, nessuna delle quali effettuata dai bolscevichi, tutte e tre assecondate e poi affossate dai bolscevichi), ma non era riuscito a innescare la rivoluzione socialista internazionale, generando anzi una reazione internazionale e conservando, quasi per intera, l’eredità imperiale e territoriale dello zarismo. La qual cosa fu in seguito tra i fattori che costrinsero l’URSS a una politica estera dispendiosissima, sempre sproporzionata rispetto alle capacità economiche e produttive interne, com’era stata già quella zarista, ma in misura ancora maggiore.
Il sistema di Versailles, comunque, in una situazione di disordine crescente, e di disimpegno americano, nulla poté, a partire dagli anni ’30, contro il macrorevisionismo tedesco, contro il macrorevisionismo giapponese e contro tutti i rissosi microrevisionismi. Guerre politiche, guerre civili, scontri sociali, crollo verticale di gran parte delle democrazie europee, avvento di dittature, crisi economiche di enorme portata, nascita dei movimenti anticolonialisti, avventure coloniali fuori tempo: questo fu lo scenario del periodo che si definisce «tra le due guerre» e che in realtà si trovò a essere collegato, certo in modo non rettilineo, alle due guerre mondiali, tanto da giustificare appunto l’espressione «guerra dei trent’anni del XX secolo», coniata nella seconda guerra mondiale da Churchill e dal nazista Rosenberg e valida per l’intera fase storica iniziata nel 1914. Il sistema di Versailles, che certo moderò beneficamente per alcuni anni l’attitudine a risolvere i conflitti con la violenza, non riuscì insomma a governare in modo duraturo questo periodo. Si trovò cioè a convivere, pur proponendosi come ordine mondiale, con una pronunciata anarchia internazionale. La Grande Guerra era poi stata, se vista da un’ottica geopolitica, uno scontro, certo a sua volta imperfetto, tra le potenze di mare, che erano risultate vittoriose, e le potenze di terra, che erano risultate sconfitte, o che, attratte dall’irresistibile forza di gravità esercitata dai problemi interni, si erano, come la Russia, autoescluse in forma rivoluzionaria dal conflitto. Tra le potenze di mare, tuttavia, si verificò una translatio imperii dall’Inghilterra, e, in sottordine, dalla Francia, agli Stati Uniti, che divennero la potenza di mare per eccellenza: ora imperiale, ora isolazionistica, animata tendenzialmente da forti propensioni liberoscambistiche, aperta al mondo, liberaldemocratica, diffidente nei confronti dell’invadenza economica dello Stato, in grado tuttavia di elaborare con crescente facilità una politica planetaria, non riluttante in linea di principio davanti all’uso delle armi e talvolta assai disinvolta nella scelta, quando non nell’imposizione, degli alleati periferici.
Ci volle tuttavia un’altra guerra mondiale, iniziata in Europa dalla Germania nazista e in Asia dal Giappone militarista, perché gli Stati Uniti assumessero con decisione la leadership politica delle potenze di mare e, insieme, dell’intero mondo occidentale. Alla fine della Grande Guerra, e ancor più negli anni ’20, gli stessi Stati Uniti, nonostante il crollo di Wall Street (1929), erano già universalmente riconosciuti come la massima potenza economica del pianeta. Le potenze di terra, in primo luogo la Germania, chiuse com’erano in un universo gigantesco e febbrilmente dinamico, ma inevitabilmente asfittico, avevano tendenzialmente una più forte propensione protezionistica, dirigistica, militaristica, autoritaria, volta inoltre, con una politica estera muscolosa, a privilegiare in ogni occasione, e in forme espansionistiche, la sicurezza. Anche a costo di moltiplicare le sfere istituzionalizzate d’influenza e addirittura gli Stati satelliti o «collaborazionistici». La Germania, due volte nel secolo, con due guerre totali, tentò, fallendo, di sottrarsi alla maggiore mobilità delle potenze di mare e di assumere la leadership delle potenze di terra, presidiando-egemonizzando nell’un caso l’Europa, e, nell’altro, l’intero blocco eurasiatico, dalla Manica al Giappone, prima alleandosi con l’URSS (1939), e poi invadendola e tentando inutilmente di sottometterla e di assorbirla (1941). Materia di discussione tra gli storici, soprattutto tedeschi e britannici, è tuttora la strategia politico-militare della Germania nazista: ci si divide tra chi ritiene che gli hitleriani mirassero alla conquista dell’Europa (sino agli Urali e, verosimilmente, a Turchia e Medio Oriente) e chi ritiene, invece, che intendessero conquistare il mondo intero. Il sanguinoso crepuscolo (1945) delle ambizioni tedesche creò, nel corso del lunghissimo dopoguerra, e appunto della guerra fredda (1946-1953 e successive differenziate riemersioni), le premesse per il confronto, assai presto nuclearizzato su tutti i fronti, e anch’esso tuttavia largamente non perfetto, tra la nuova, ed esclusiva, o quasi, potenza-leader di mare, gli Stati Uniti, e la nuovissima, e altrettanto esclusiva, o quasi, potenza-leader di terra, l’URSS. L’impossibilità di uno scontro armato diretto non convenzionale, e il duopolio effettivamente esercitato da entrambe, resero però le due superpotenze, come vedremo, non solo rivali, ma anche, e largamente, complementari, pur nella loro radicale e insormontabile diversità.
Il terzo ordine internazionale del mondo contemporaneo, dopo Vienna e Versailles, fu, a partire dal 1945, un ordine di fatto e non di diritto. Nonostante i numerosi ed estenuanti tentativi, non fu in effetti realmente negoziato. Fu. A differenza di quel che era accaduto nel 1815 e nel 1919 non vi furono cioè, alla fine della guerra, tra i vincitori (gli anglo-americani da una parte e l’URSS dall’altra), né una concordia d’intenti, né, tanto meno, antifascismo a parte, un’affinità politico-ideologica. Si formarono cioè, dopo la vittoria, due campi antagonistici, interni certo a quel dispositivo politico-militare che era stata la Grande Alleanza, e tuttavia divisi sugli assetti geopolitici, sul patrimonio ideologico, sui valori da difendere, sui modelli economici proposti e imposti, sulle forme politiche adottate. Si fronteggiarono subito, quasi senza soluzione di continuità, secondo le autodefinizioni, il mondo libero e il campo socialista, o anche, accogliendo le definizioni che in seguito – dopo cioè il 1945 – l’uno avrebbe dato dell’altro, l’imperialismo americano e il totalitarismo sovietico.
Il sistema del 1815 era del resto stato gradualmente eroso, e nel 1914 era catastroficamente crollato, perché una serie di cause ne avevano minato l’equilibrio: in primo luogo le questioni nazionali iperpoliticizzate e vorticosamente sostenute (soprattutto nei Balcani) da parte di questo o quello Stato; in secondo luogo il declino inarrestabile, e pur lentissimo, di un Antico Regime (ceti, caste, gerarchie, rango, valori e imperi) per nulla defunto nel 1789, ma socialmente e politicamente consustanziale proprio con l’ordine viennese e ancora con corposi aspetti della società fin-de-siècle; infine, l’aumento spropositato, e insostenibile per la logica continentale di Vienna, della complessità di un sistema in cento anni ingigantitosi e mondializzatosi.
Il sistema «liberaldemocratico» del 1919, paradossalmente assai meno elastico di quello «ultraconservatore» del 1815, era invece crollato per l’inefficienza della Società delle Nazioni, per la fallita scommessa sulle democrazie, per il dilagare dei nazionalismi diventati tutti aggressivi, per la paura suscitata ovunque dalla presenza di una repubblica bolscevica, per la riscossa espansionistica e dirompente del vinto principale (la Germania nazificata) e per l’insofferenza revisionistica di due ambiziosi vincitori alleatisi con lo sconfitto (il Giappone militarista e l’Italia fascista).
Il sistema del 1945 crollerà per il tracollo e l’implosione relativamente pacifica, e in un tempo breve (almeno per quel che riguarda la crisi finale), di uno dei due garanti dell’ordine, e cioè dell’URSS, realtà da intendersi come sistema imperiale di potere e, insieme, come «socialismo reale».
Il mondo, comunque, si trovò nel 1945 a essere regolato, a parte alcune realtà (tra cui l’Italia), non tanto da un trattato (ci vollero gli accordi di Helsinki nel 1975 per «giuridizzare» con trent’anni di ritardo lo status quo), ma dalla situazione militare esistente al momento della capitolazione tedesca (maggio 1945) e giapponese (agosto 1945), vale a dire al momento della fine delle due, simultanee, ma non del tutto omogenee, guerre dell’Asse, quella nazionalsocialista per il nuovo ordine europeo e quella nipponica per il nuovo ordine asiatico. L’URSS aveva del resto dichiarato guerra al Giappone solo a ridosso di Hiroshima. L’URSS stessa, pur provatissima dal conflitto per le immense risorse umane e materiali dispiegate e sacrificate, fu quindi favorita dal fatto che gli Stati Uniti, già terminata la guerra in Europa, si trovarono impegnati ancora per alcuni mesi sul fronte del Pacifico. Gli Stati occupati dall’Armata Rossa divennero democrazie popolari, ma furono subito considerati, dal punto di vista delle relazioni internazionali, Stati satelliti dell’URSS. Vennero anche, da una geopolitica elementare, definiti «paesi dell’Est» (Polonia, Germania Orientale-poi DDR, Ungheria, Romania, Bulgaria, Jugoslavia, Albania). Nel 1948, con un colpo di Stato comunista, si aggiunse anche la Cecoslovacchia. Nel 1947-1948, tuttavia, la Jugoslavia ruppe con Mosca, assumendo una posizione equidistante tra i due blocchi. All’epoca del dissidio cino-sovietico l’Albania si accostò poi alla Cina popolare. E l’URSS, protetta a ovest dagli stessi territori che nel 1919 dovevano fungere da cordone sanitario antibolscevico, divenne in effetti una superpotenza, pur enormemente arretrata nell’economia civile e nella produzione di beni di consumo rispetto agli Stati Uniti, ma presto nuclearizzata a sua volta, e di dimensioni territoriali mai viste nella storia del mondo: le sue zone d’influenza si spingevano dall’Adriatico e dal Baltico sino al mare del Giappone e poi sino a tutta la Cina (1949), al golfo del Tonchino (1954), a tutta l’Indocina (1975, pur con la Cambogia filocinese), con una enclave nei Caraibi (Cuba, 1961-1962), nonché con propaggini dirette e indirette, non sempre politicamente affidabili, tra anni ’60 e ’70, nel mondo arabo e in Africa.
La sovranità nazionale nei territori egemonizzati dall’URSS (gli Stati satelliti), esclusa la Cina maoista autonomizzatasi in forma «nazionalistica» a partire dal 1958-1959, e assai parzialmente esclusa la stessa Cuba, fu ridottissima e pressoché inesistente. Dopo l’invasione della Cecoslovacchia (1968) la dottrina Brezˇnev diffuse in modo esplicito la brutale concezione «realistica» della sovranità limitata. Incomparabilmente maggiori furono la sovranità e l’indipendenza esistenti nel campo egemonizzato dagli Stati Uniti, un campo in Europa democratico (con l’esclusione importante di Portogallo e Spagna), ma anche qui vi fu un depotenziamento progressivo degli Stati-nazione e delle questioni nazionali, oltre che, soprattutto in America Latina (ma anche in Asia), l’aperto, o semiocculto, sostegno a iniziative e a impalcature statali illiberali e antidemocratiche.
L’equilibrio, di fatto e non di diritto, in un contesto peraltro di contrapposizioni ideologiche, avvicinava, e insieme allontanava, il modello che possiamo definire «Teheran-Yalta-Potsdam» e il modello-Vienna. Oltre tutto, dopo il 1945, ciascuno dei due blocchi, attraverso ideologi e politici, addebitava all’altro la responsabilità, e l’eziologia, della divisione succeduta alla guerra. Salvo poi sostenere che con l’imperialismo, o con il comunismo, ogni accordo non poteva, per la natura stessa dell’imperialismo, o del comunismo, che essere effimero. Ma, certo, il sistema tendenzialmente bipolare del 1945 fu, pur nel contrasto tra i due, e solo due (a lungo, ma mai in modo esclusivo), centri di potere, assai più simile a quello programmaticamente unipolare di Vienna che a quello necessariamente multipolare di Versailles. Fu infatti, nel complesso, con le dovute e colossali differenze tra i due blocchi, autoritario, insofferente nei confronti dei soprassalti indipendentistici o nazionali, disponibile all’intervento diretto o indiretto – si pensi alla politica dei congressi della Santa Alleanza – là dove vi erano aree di disobbedienza reale o potenziale, disponibile infine a fare dell’ideologia un potente mezzo di confronto. Eppure, come Vienna, e a differenza di Versailles, nonostante i conflitti armati nelle aree periferiche del pianeta (dovuti essenzialmente all’inserirsi nel sistema del grandioso processo della decolonizzazione), ebbe, dal punto di vista del mantenimento della pace, una tenuta tutto sommato buona. Nei due campi, e nelle metropoli, del pianeta, vi fu infatti un assetto internazionale che si può definire «pax armata sovietico-americana dei quarantacinque anni» (1946-1991), succeduta appunto alla seconda guerra dei trent’anni (1914-1945).
Tale pax armata fu definita dai più, a partire dal 1947, con termine non sempre congruo, ma che si rivelò subito una formula fortunatissima, «guerra fredda». Tra l’altro, a differenza che nel ...

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