Forme dell'estetica
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Forme dell'estetica

Dall'esperienza del bello al problema dell'arte

Fabrizio Desideri

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Forme dell'estetica

Dall'esperienza del bello al problema dell'arte

Fabrizio Desideri

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Una mappa concettuale, chiara e originale, dell'estetica come disciplina filosofica di frontiera. La prima parte è dedicata all'esperienza del bello attraverso un'analisi delle tematiche della percezione, dell'emozione e del giudizio estetico. La seconda parte affronta il problema dell'arte e risponde a sfide teoriche sollecitate dall'oggi. Nell'epoca della svolta multimediale e della diffusione delle tecnologie digitali è ancora possibile parlare di unità dell'arte? Come riconosciamo un'opera d'arte? In che rapporto sta la fruizione delle opere artistiche con la nostra piÚ generale esperienza? Quale relazione è ancora pensabile tra finzione artistica e realtà?

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Information

Year
2015
ISBN
9788858122495

Capitolo secondo.
Il senso dell’opera e la verità dell’arte

II.1. Generi e stili nell’opera d’arte

II.1.a

Finora abbiamo cercato di cogliere l’unità del fare artistico nella congiunzione intenzionale tra dimensione estetica e tecnica. Possiamo anche ammettere che si tratta di una definizione. In ogni modo, non è certo una definizione a priori, tale da precedere ogni relazione estetica con l’opera. Il punto di vista che abbiamo assunto è stato il riconoscimento dell’esplicarsi di una funzione artistica, della quale si sono indagati i presupposti concettuali. Così si è potuto evitare lo scoglio essenzialistico, che pretende di ridurre all’unità di un concetto quella che è una pluralità eterogenea di pratiche e di linguaggi. Nello stesso tempo, però, non ci siamo incagliati nei fondali di differenze incomunicabili tra di loro.
L’unità che così si è riconosciuta è un’unità di senso, che può fungere da regola indeterminata, seppur con alcuni vincoli concettuali, ad un orientamento nel giudizio: alla possibilità di scoprire, di volta in volta, somiglianze di famiglia. Se questo è il criterio del riconoscimento dal punto di vista ‘dinamico’ del farsi d’ogni opera, il suo pendant dal punto di vista ‘statico’ del risultato – dell’oggetto artistico come ‘prodotto’ – è l’unificazione armonica (non importa quanto tesa o irrisolta essa sia) tra la sua organizzazione sintattica e quella semantica. Ogni opera, alla luce di questi due criteri e del loro necessario intreccio nell’instaurarsi di una relazione estetica, vale certo di per sé. Questo però non vuol dire che sia inclassificabile, che non sia, cioè riconducibile, a generi d’appartenenza. La polemica crociana contro i generi artistici ha certamente avuto il merito di spostare l’attenzione della riflessione estetica sul carattere per così dire insulare di ogni opera, sulla sua singolare autonomia. Ma proprio la risoluzione di quest’autonomia nel circolo ‘spirituale’ tra intuizione ed espressione ha lasciato in ombra come i generi artistici non sono affatto estrinseci né alla genesi dell’opera né al rapporto tra quelli che tradizionalmente sono chiamati forma e contenuto di essa, termini che abbiamo preferito tradurre nei due livelli dell’organizzazione dell’opera: sintattico e semantico.
È merito di Adorno, sulla scorta di alcune precedenti osservazioni di Benjamin, aver difeso la tesi di un rapporto non necessariamente estrinseco o puramente nominalistico tra opera d’arte e genere artistico. Seguendo Benjamin, Adorno, nella Teoria estetica, intende il genere come idea dotata di una forza storica intrinseca, influente sulla nascita stessa dell’opera, piuttosto che un battesimo retrospettivo. Da questo punto di vista, il genere, nel momento in cui si impone, riguarda il problema estetico-formale a cui l’opera vuol rispondere. In quanto idea, il genere è così il correlato oggettivo di cui l’intenzione artistica è alla ricerca. Adorno ricorre ad un esempio di tipo musicale: la forma della fuga. L’invenzione di Bach è la risposta ad esigenze relative ai materiali musicali dell’epoca ed ai compiti compositivi che ne scaturivano. La forma della fuga sarebbe così da mettere in relazione con il «potere assoluto» acquisito dalla tonalità e con il problema del suo rapporto con la polifonia. Essa si afferma, perciò, «non appena la polifonia tradizionale si vede confrontata col nuovo compito di superare la forza di gravità omofona della tonalità e di integrare la tonalità nello spazio polifonico tanto quanto di introdurre il pensiero graduale contrappuntistico e armonico»1.
Proprio perché scaturisce dall’interno di problemi legati alle dimensioni tecniche ed estetiche del fare artistico, il genere è destinato a costituire uno schema immanente alla produzione artistica, rappresentando per essa il vincolo ereditato di leggi organizzative per i modi del suo significare. Un’analoga riflessione sull’affermarsi di un genere artistico, come stabilizzarsi di un modello e come sviluppo e soluzione formale di esigenze e problemi sorti da pratiche preesistenti, la troviamo già nella Poetica di Aristotele, con riferimento alla nascita di tragedia e commedia:
Entrambe nacquero dall’improvvisazione: la tragedia da quelli che intonavano il ditirambo, la commedia dalle processioni falliche che tuttora restano in uso in molte città. Poi la tragedia crebbe a poco a poco, mano a mano che i poeti ne sviluppavano le manifestazioni, e dopo aver attraversato molti mutamenti si stabilizzò, avendo raggiunto la propria natura2.
Sottolineare l’appartenenza di ogni opera ad un qualche genere, e talvolta a più di uno, sottrae la produzione artistica alla falsa mitologia di una creatività senza presupposti e ne libera l’intento da ogni psicologismo. Fare i conti con i vincoli sintattici e semantici imposti da un genere, anche per abbandonarli o modificarli, significa, per un autore, venire a capo di problemi oggettivamente immanenti alla dimensione tecnico-formale dell’opera.
Dal punto di vista del suo disporsi all’interno di un genere – sia esso la forma di fuga, la tragedia o il western – l’opera, oltre che qualcosa di singolarmente autonomo, può essere considerata anche elemento di un processo unificabile secondo schemi. Dunque, nonostante il suo indubbio costituire un’entità a sé, ogni opera può valere come membro di una serie ‘aperta’, che si accresce fintanto che lo schematismo del genere funziona come legge di sviluppo della produzione artistica. Come riconosce lo stesso Adorno, l’appartenenza ad un genere rappresenta, per un’opera d’arte, quell’elemento d’universalità, riguardo al quale deve affermarsi, anche polemicamente, il suo carattere singolare. Se è vero che nel genere si accumula «l’autenticità delle singole creazioni artistiche»3, d’altra parte il suo schematismo – il suo carattere cogente per l’operari artistico nell’immanenza della sua dimensione tecnico-costruttiva – resiste come un universale non cancellabile dal farsi compositivo. Il genere resiste e persiste anche in forma astrattamente schematica e addirittura nominalistica. Riconoscere questo, significa anche riconoscere la funzione che esso esercita sul versante della ricezione dell’opera.

II.1.b

Attraverso il paradigma estetico-concettuale del genere agisce, in ogni giudizio estetico relativo ad opere d’arte, la potenza cognitiva delle convenzioni. Classificare un’opera in base ad un genere, non sostituisce certo il problema dell’apprezzamento e della valutazione della sua singolarità. Questo, però, non significa che il genere faccia da schermo nei confronti dell’opera. Dal punto di vista estetico-ricettivo, il genere significa anche il sedimentarsi di singole esperienze estetiche. C’è, in altri termini, un effetto estetico della struttura generica di un’opera che orienta le modalità di recepirla e di giudicarla esteticamente. Tale effetto non ha un senso soltanto inerziale, né l’orientamento concettuale del giudizio ha il valore di un esonero. La convenzionalità del genere, insomma, non si oppone necessariamente alle esigenze espressive della relazione estetica, ma è espressione essa stessa.
Analoga riflessione può esser fatta riguardo alla cifra stilistica di un’opera. Come identifichiamo l’appartenenza di un’opera ad un genere, indipendentemente dall’apprezzarla o meno, così possiamo identificarne lo stile. Se nel primo caso il giudizio, nel suo intento classificatorio, ha un peso ‘oggettivamente’ cognitivo (l’opera vale come elemento di una serie), nel secondo il criterio del giudicare è prevalentemente estetico. Riconoscendo uno stile come proprio di un’opera, esprimiamo un giudizio relativo al rapporto che, in essa, si stabilisce tra la sua dimensione sintattica e quella semantica. Nella modalità di questo rapporto consiste la sua valenza espressivo-formale; non, dunque, semplicemente il suo aspetto solo formale, astratto da ogni contenuto, bensì il modo con cui ogni contenuto si esprime esteticamente in una forma. Non necessariamente, però, lo stile di un’opera deve essere ricondotto all’orizzonte intenzionale dei propositi e delle decisioni. Qui, più che la scelta dell’autore, vale il ‘come’ l’opera si presenta alla ricezione: vale la sua effettività estetica. Lo stile è l’elemento di soggettività che s’incarna oggettivamente in ogni opera.
Talvolta i paradigmi stilistici cui ricorriamo nei nostri giudizi sono per così dire storicamente estratti dai generi, come fossero un sedimento di esperienze relative alle opere ad essi appartenenti. Possiamo, così, definire tragico o romanzesco lo stile di un’opera pittorica, musicale o letteraria anche quando non ci troviamo di fronte ad una tragedia o ad un romanzo. Il ciclo di dipinti dedicato da William Hogarth alla Carriera di un libertino o quello che ha per titolo Matrimonio alla moda possono venir giudicati come romanzeschi per la loro raffigurazione, in sequenza temporale e narrativa, delle vicende e delle azioni di individui designati con nome e cognome, così come accadeva nei contemporanei romanzi di Sterne e di Fielding. In questo, certo, siamo confortati dal paragone che lo stesso Fielding, nella prefazione al romanzo Joseph Andrews, fa tra la propria scrittura e la pittura dell’amico. Ma non sempre c’è bisogno di tale conforto. Non necessariamente i nostri giudizi derivano dalla possibilità di rilevare analogie stilistiche tra opere che pur usando mezzi espressivi diversi respirano, però, una comune atmosfera culturale, sia essa vagamente epocale o più circoscritta e determinata nello spazio e nel tempo. In molti casi, ad esempio quando definiamo tragico lo stile di un film (per i tipi di conflitti che mette in scena e per il modo in cui lo fa) oppure epico (per la coralità e lo spessore storico del suo intreccio narrativo), non facciamo altro che usare estensioni analogiche di generi poetici già consolidate nell’uso linguistico quotidiano. Lo stesso vale per quelle aggettivazioni desunte dallo stile che caratterizza un’intera epoca o un determinato movimento, rappresentando quello che è stato chiamato il suo Kunstwollen, il ‘volere artistico’ capace di caratterizzare sia linguaggi tra loro assai diversi sia le opere di differenti autori4. È quello che succede quando giudichiamo ‘barocco’ lo stile del regista inglese Peter Greenway e, senza andare troppo per il sottile, ‘romantico’ quello della regista australiana Jane Campion. Non necessariamente, poi, il nostro giudizio è formulato proiettando in avanti nel tempo, oltre la sua effettività storica, un modello di unità stilistica. Possiamo anche proiettarlo all’indietro, prima della sua...

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