Il partito personale
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I due corpi del leader

Mauro Calise

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Il partito personale

I due corpi del leader

Mauro Calise

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«Nella crisi dei partiti, il leader appare ormai privo della corazza della responsabilità collegiale, secolare conquista della civiltà statale. Come gli antichi sovrani, cui sempre più rassomiglia, il capo del partito personale torna a essere nudo». La nuova edizione di un libro che ha lasciato un segno nel dibattito politico italiano, entrando a far parte del nostro lessico quotidiano.

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XI. Il corpo politico

L’immortalità è un privilegio – o un dono – divino. Marca da sempre la distanza tra la terra e il cielo. E, insieme, ne rappresenta la frontiera. La ricerca dell’uomo oltre se stesso è la ricerca della vita eterna. Su questa possibilità – o promessa – si fondano quasi tutte le religioni: preservando ed amministrando l’abisso tra i due mondi e, al tempo stesso, istillando la speranza di poterlo annullare. Dalle ceneri del proprio corpo, la vita rinasce ad aeternum grazie al miracolo della fede.
In questa sfida contro la morte, gli uomini sono tutti eguali. La parabola evangelica – gli ultimi saranno i primi – insegna che le ricchezze accumulate in terra non aiutano ad affrontare il grande viaggio. In alcuni periodi storici, le chiese hanno blandito i ricchi, promettendo ai più generosi – o venali – uno sconto sul prezzo di ingresso in paradiso. Ma anche la vendita delle indulgenze non cambia l’inesorabilità del destino: per rinascere, l’uomo deve morire. L’immortalità è una prerogativa di Dio.
Anche il corpo dei potenti non sfugge alla propria caducità. L’accumulazione del potere – ogni potere – trova un limite invalicabile nella fine della vicenda terrena. Ma in ciò trova anche una spinta, un incentivo. La consapevolezza che il potere dovrà essere, infine, abbandonato produce, in qualche caso, il tarlo della «melanconia». Ma, per la maggioranza degli uomini, significa che non ci sono alternative: la parabola della vita terrena è la condizione naturale del potere. Il potere si identifica con la persona. Con la sua materialità: forza fisica, forza economica. Con la sua vitalità: il suo ciclo di crescita, e di morte. Per secoli – per millenni – il potere si nutre della simbiosi con la persona cui appartiene.
Agli albori della politica moderna è questo il cerchio di ferro che difende e limita il potere. La personalizzazione del potere spinge a blindare chi lo detiene, a renderlo inavvicinabile, intoccabile: la sacralità del sovrano serve anche a proteggerlo dalla estrema precarietà della sua sorte. Per questo sono così rigide le norme che regolamentano l’alienabilità del potere. Il sistema feudale, coi suoi riti e le sue gerarchie, si sforza di preservare l’unicità del comando, la sua in-testazione originaria. Il patto di concessione – e subordinazione – va ribadito a ogni passaggio di mano, perché resti riconoscibile e visibile la persona da cui il potere emana. Ma non appena la forza fisica – o militare – declina, si apre la lotta per la successione. Le leggi, diverse in ogni paese, che disciplinano l’ereditarietà sono un fragile baluardo contro la regola che ogni capo porta con sé, nella propria tomba, il suo potere.
La risposta a questa impasse millenaria è l’invenzione del corpo politico. La nascita della comunità occidentale, quale si è tramandata in questi secoli, è segnata dalla costruzione di un soggetto politico capace di riprodursi al di là della sfera individuale. Grazie a tre requisiti alla base del suo straordinario successo: l’impersonalità del comando, la sua perpetuazione nel tempo, la regolamentazione giuridica. La lingua inglese identifica questo nuovo attore col termine esemplare: corporation. Il corpo che diventa istituzione. Il potere che si collettivizza. E, in questa nuova veste, può tramandarsi oltre l’arco di vita delle persone in cui si incarna. Giovandosi di un sistema normativo riscoperto e rivitalizzato da quello straordinario laboratorio culturale che è la riforma gregoriana: una vera rivoluzione che riporta l’impero della legge a fondamento della polis1.
Si tratta di una vicenda contrastata, dall’esito spesso incerto. E che solo nel XVII secolo conoscerà una sua consacrazione con il decollo dello stato moderno. Per molti secoli il potere personale continuerà a condizionare i vertici della cosa pubblica, riproponendosi come legibus solutus e rivendicando la sua forza patrimoniale e privata. Ma la linea di tendenza è tracciata, e il sistema degli stati europeo confermerà – pezzo dopo pezzo – l’emancipazione del potere dalle sue radici individuali. Con uno spartiacque emblematico, racchiuso nella icastica metafora di Ernst Kantorowicz: i due corpi del re. La duplicazione e astrazione della sacralità del sovrano che segna la separazione dell’autorità temporale dalla persona del monarca2. Il corpo del re che si fa corpo statale, l’autorità che trasmigra dalla figura del capo nel potere che rappresenta e sopravvive al di là della sua vicenda umana. Da quella separazione discende la travagliata e ostinata costruzione della sfera pubblica moderna, sottratta alla caducità delle persone e affidata alla macchina possente della riproduzione burocratica.
Occorrerà la lettura weberiana per sancire definitivamente la fusione tra il principio di autorità e i meccanismi legali-razionali preposti alla sua gestione quotidiana. Un processo che viene a compimento solo dopo che lo stato assoluto affronta l’incorporazione delle masse. Realizzando, con procedure democratiche, la creazione di un corpo politico patrimonio di tutti i cittadini. Perché questa parabola si compia, è decisivo il ruolo del partito. Al di là delle bandiere ideologiche, la funzione costituente dei partiti consiste nella capacità di aggregare, mobilitare e organizzare le masse per integrarle nell’edificio statale. A un secolo di distanza, mentre impera la pop-politica, è facile smarrire la memoria dell’epopea che scandì l’avvento della politica collettiva. Il corpo statale che si invera, e legittima, nelle viscere della società. L’endiadi mistica di re e popolo si trasforma in prassi ordinaria, routine procedurali e public policies che trovano nei partiti il motore, il collante, la progettualità. All’apice del suo successo, la democrazia dei partiti è l’incontro tra corpo sociale e corpo politico. E sembra segnare il tramonto definitivo del potere individuale e solitario, la persona che governa la storia al di sopra della collettività.
Invece, il declino dei partiti riapre una antica sfida. Nel volgere di pochi decenni, si passa dall’ipertrofia ed egemonia dei partiti-chiesa alla loro rapida erosione e mutazione. Il processo è più o meno marcato nei diversi contesti geo-politici, ma il trend è comune al di là e al di qua del muro, e si accelera dopo il suo crollo: i possenti apparati si sgretolano e riemergono le reti interpersonali, la direzione collegiale cede il passo alle leadership individuali. L’indebolimento dei partiti procede, di pari passo, con quello della macchina statale. Dopo una secolare marcia trionfale culminata nel traguardo del welfare state, la costruzione universalistica inciampa nella sua stessa volontà di potenza. Prima la crisi fiscale, poi, più grave, quella ideale incrinano il prestigio dello stato, la certezza e capacità del suo comando. Da pilastri della democrazia, partiti e stato diventano imputati e colpevoli delle sue troppe inadempienze.
È in questo deficit di rendimento e di fiducia delle grandi organizzazioni collettive che si insinua il cuneo del potere personale. Approfittando delle crepe che lacerano i leviatani istituzionali, emergono sulla scena politica i «monarchi repubblicani»3. Leader senza un corpo politico, che non sono, cioè, chiamati e obbligati a identificarsi con una macchina – di partito o di stato – che orienti la loro azione e la proietti oltre il loro tempo di vita. Leader la cui forza, e obiettivo, consiste nel tenersi stretto il potere, avvinghiato alla propria persona. Senz’altro corpo che il proprio corpo.
L’esordio del nuovo millennio è all’insegna di questo antico ritorno. Si moltiplicano sulla scena politica i capi che cercano di personalizzare le istituzioni che sono stati chiamati a governare. Invertendo, la prima volta dopo mille anni, una parabola che si era sviluppata nella direzione opposta. E spingendo le democrazie contemporanee sull’orlo di un abisso di cui sono ancora ampiamente inconsapevoli: la perdita del corpo politico come luogo impersonale dell’identità collettiva e dell’autorità legittima. Con la restaurazione di un corto circuito tra il potere del capo e il suo destino fisico.
Un’anticipazione di questa inversione di rotta si era avuta con i regimi autoritari che hanno sanguinosamente scandito l’arco del Novecento. In questi casi, però, la personalizzazione del comando aveva avuto un limite importante, l’assenza di una legittimazione democratica per l’ascesa dei nuovi capi. La loro supremazia si era affermata in esplicita contrapposizione alle procedure e ai valori liberaldemocratici. Rimarcando così, anche all’apice della loro potenza, la prospettiva – temporale e ideale – di un’alternativa alla parentesi autoritaria.
I moderni capi non sono in rotta con la democrazia, anzi, per molti versi, ne incarnano l’estremo sviluppo. Godono di un ampio consenso popolare, in forme sempre più plebiscitarie e sondocratiche che non possono, tuttavia, essere tacciate di violare il principio base della democrazia: l’investitura da parte di una maggioranza degli elettori. La loro forza consiste proprio nel potersi vantare di aver ripristinato – spesso attraverso lo strumento dell’elezione diretta – il rapporto tra leader e popolo che i vecchi partiti avevano logorato. Inoltre, la concentrazione del comando in un uomo solo avviene, oggi, mentre le istituzioni statali appaiono sempre più incapaci di assolvere al loro ruolo storico di contenitore e riferimento della vita associata. Il primo corpo del re riprende il sopravvento anche perché il secondo corpo appare in disfacimento.
I nuovi leader ascendono al potere forti di due elementi chiave della post-modernità. Innanzitutto la capacità di riflettere, e interpretare, quella centralità dell’individuo che è il tratto culturale emergente a cavallo dei due millenni. Anticipata dalle rivoluzioni thatcheriana e reaganiana, declinata nell’ideologia rampante del neo-liberalismo, l’esplosione narcisistica dell’io è la piattaforma sociale che rilancia il potere personale come modello di leadership. Coniugandosi e moltiplicandosi col secondo fattore che stravolge l’edificio istituzionale: il trionfo della politica spettacolo, che accende i suoi riflettori su grandi – e piccole – personalità. Contenuta agli inizi dai sistemi di autotutela e autocensura dei vecchi partiti, l’invasione della televisione stravolge in pochi anni i format dei network nazionali. Dalle incipriate e paludate tribune televisive degli esordi si passa ai tribuni del popolo in presa diretta e incontrollata con la propria audience. Al posto dei politici senza corpo, trionfa l’esibizione del corpo mediale dei leader, nuova icona della comunicazione di massa4.
L’invasione del corpo privato in ogni angolo dello spazio pubblico non è un fenomeno limitato alle recenti dinamiche politiche. Anzi, il sistema politico ha retto più a lungo e meglio degli altri all’imperativo massmediale che ha schiacciato i mondi vitali sulla loro rappresentazione virtuale. Chi si sorprende di fronte al self-marketing di segretari e ministri nel salotto dei talk-show e alle baruffe in diretta che annientano distanze di status secolari dimentica che i principali palinsesti televisivi sono impostati, già da molti anni, su un copione in cui il comune cittadino veste i panni del Grande Fratello. La più ambita delle trasmissioni pubbliche non è altro che una riproduzione, una protesi multimediale del più banale vissuto privato. Un analogo cortocircuito ha ridefinito, in pochi mesi, lo statuto epistemologico di Internet, traformando in rete sociale ogni anelito informativo o discorsivo. Un decennio di sperimentazioni sulla nascita di una nuova opinione pubblica è stato spazzato via dall’avvento di un gigantesco cartellone pubblicitario in cui ciascuno può metterci la faccia. La forza travolgente di Facebook sta proprio nel rendere possibile – e appetibile – ciò cui per secoli ci siamo sottratti: gli interstizi della propria vita privata esposti al chiacchiericcio collettivo.
All’alba di questo nuovo mondo virtuale, è impensabile che il corpo politico possa esimersi dalle spinte sociali e tecnologiche alla profanazione. Non esistono più i recessi in cui, in passato, si riuscivano a nascondere le passioni o le sofferenze più estreme. Per decenni, i leader democratici erano riusciti a costituirsi come «leader senza corpo»5. La cortina partitocratica garantiva che nulla trapelasse della vita privata della nomenklatura. Per mezzo secolo abbiamo conosciuto solo raffigurazioni patinate di chi ci ha governato dal chiuso delle aule parlamentari e di partito. E poche immagini sono rimaste impresse nella memoria collettiva del paese come l’insulto alla aristocratica riservatezza di Aldo Moro esposto al flash della propria morte. La «sintassi della distanza» che governava il rapporto tra i cittadini e i loro capi riuscì a reggere anche ai primi assalti dell’intrusione televisiva. Il calvario quotidiano di Kennedy, tra osteoporosi e disfunzioni ormonali, non squarciò mai la facciata «dell’icona di un’America giovane e vigorosa» con cui il presidente più amato aveva scelto di autorappresentarsi6. Oggi, non c’è meandro personale che non venga incessantemente frugato, radiografato, esibito. L’anamnesi clinica di un candidato è diventata anche più importante della sua carriera politica, e il giuramento di fedeltà alla costituzione può essere, in molti casi, surclassato da quello alla propria consorte.
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