Libri di lettere
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Le raccolte epistolari del Cinquecento tra inquietudini religiose e "buon volgare"

Lodovica Braida

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Le raccolte epistolari del Cinquecento tra inquietudini religiose e "buon volgare"

Lodovica Braida

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Dal 1538, anno d'uscita delle Lettere di Aretino, il mercato del libro italiano, e veneziano in particolare, viene invaso da centinaia di edizioni di raccolte epistolari. Dalle operazioni editoriali più prestigiose affiora l'attività di alcuni importanti correttori e letterati-editori del Cinquecento: Lodovico Dolce, Francesco Sansovino, Girolamo Ruscelli e poi il grande stampatore-umanista, Paolo Manuzio, che con le sue Lettere volgari crea un vero, plagiatissimo best seller. L'intento dichiarato è la divulgazione di modelli 'alti' per scrivere lettere in un buon volgare, ma accanto alle tematiche umanistiche queste raccolte danno ai lettori anche informazioni politiche e militari sui drammatici eventi delle guerre d'Italia e offrono un quadro delle tensioni religiose dell'epoca. Non è un caso che, con la stretta controriformistica, il genere delle raccolte epistolari cambi drasticamente, perdendo la vivacità che l'aveva caratterizzato e lasciando sempre più spazio allo stereotipato libro per il segretario. «In questo modo il libro di lettere veniva depotenziato di ogni riferimento alle vicende contemporanee e svuotato di ogni pericolosità. Era la fine di un percorso legato alla stagione di un umanesimo che aveva saldamente tenuto insieme le humanae litterae e i valori religiosi.»

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Information

Year
2014
ISBN
9788858114827

II. Tre correttori e uno stampatore: Dionigi Atanagi, Lodovico Dolce, Girolamo Ruscelli e Paolo Manuzio (1554-60)

1. Le «Lettere di tredici huomini illustri» di Dionigi Atanagi: dalle guerre d’Italia alla crisi della «res publica Christiana»

In una lettera del 29 giugno 1550 il cardinal Morone rivelava all’amico Beccadelli, nunzio pontificio a Venezia, la sua preoccupazione per il rafforzarsi di giorno in giorno del potere dell’Inquisizione: «Il che temo ch’ogni hora andrà peggiorando, se ben mi confido che le bone attioni di V. S. et la prudenza, et destrezza sua, et il buon nome che tuttavia s’acquista, et s’acquistarà suppliranno in gran parte»1.
E in effetti i suoi timori non erano infondati. Le pesanti critiche inquisitoriali al Beccadelli per il troppo debole impegno nell’arginare l’eresia nello Stato veneto furono messe a tacere solo grazie all’intervento di Giulio III e del maestro del Sacro Palazzo Girolamo Muzzarelli2. Il potente cardinale Gian Pietro Carafa non ebbe alcuna esitazione ad agire all’insaputa del papa stesso dando inizio a vere e proprie inchieste inquisitoriali a danno degli «spirituali» e dello stesso Contarini, morto da tempo, diventati nemici da debellare con ogni mezzo3. Fu ancora grazie all’intervento del pontefice e del maestro del Sacro Palazzo se i cardinali Morone e Pole nei primi anni cinquanta non furono travolti dalle prove della loro eterodossia, che, sin dagli anni del pontificato di Paolo III, Carafa aveva accumulato con grande solerzia, nella trepidante attesa di poterle utilizzare.
Fu una breve tregua che si ruppe nella primavera del 1555 quando il Carafa fu fatto papa. Da quel momento furono avviati i processi formali contro il Morone, che sarebbe stato arrestato nel maggio del 1557 e rinchiuso in Castel Sant’Angelo per più di due anni4. Tale clima non poteva non condizionare l’attività degli stampatori e dei librai italiani, costretti a rivedere le loro scelte e i loro cataloghi5. Anche le raccolte epistolari ne risentirono: le edizioni degli anni cinquanta, pur continuando ancora a dar voce agli uomini che avevano condiviso le speranze degli «spirituali», appaiono sempre più lontane dal legame con la contemporaneità che aveva caratterizzato le antologie del decennio precedente. Tuttavia esse incontrarono ancora un grande interesse tra il pubblico dei lettori, come si può dedurre non solo dalle riedizioni dei due libri delle Lettere volgari manuziane, ma anche dal successo della più importante raccolta degli anni cinquanta: De le lettere di tredici huomini illustri, pubblicata a Roma nel 1554 dai fratelli Dorico, a cura di Dionigi Atanagi.
Che senso aveva nel 1554 far sentire ancora la voce di quegli uomini, molti dei quali non più in vita? Chi era Dionigi Atanagi? Un letterato ben inserito nel mondo accademico romano, lontano dalle inquietudini religiose del proprio tempo, come appare da alcuni profili biografici6, o un uomo vicino agli ambienti eterodossi, più attento di altri a non far trapelare all’esterno le sue convinzioni religiose? È difficile dare una risposta, ma è evidente che alcuni suoi interessi, e in modo particolare la costruzione stessa dell’antologia, non consentono di immaginarlo come un cortigiano lontano dalle tensioni religiose di quegli anni. Sulla vita di questo autore, nato intorno al 1504 a Cagli nei pressi di Urbino, numerosi sono i punti oscuri. Poco o nulla sappiamo del periodo trascorso a Roma, intorno ai primi anni trenta, probabilmente al servizio di un qualche prelato7. Le notizie si intensificano a partire dal 1540, quando lo troviamo tra i collaboratori del vescovo di Fossombrone Giovanni Guidiccioni, di cui fu segretario nel momento in cui il vescovo diventò commissario generale dell’esercito pontificio delle Marche8. Fu però un incarico di breve durata, poiché il prelato morì circa un anno e mezzo dopo, lasciando l’Atanagi senza un’occupazione.
L’instabilità della sua situazione economica doveva essere nota se Claudio Tolomei, in una lettera del 3 settembre 1542, lo rimproverava di non aver accettato l’invito nella sua villa, dove non avrebbe sentito «i morsi della povertà», di cui si lamentava spesso9. L’amicizia con il letterato senese era nata negli anni romani, quando Atanagi aveva collaborato alla raccolta Versi, et regole de la nuova poesia toscana (Roma, Antonio Blado, 1539), un’antologia poetica curata dallo stesso Tolomei, che intendeva dare una dimostrazione della teoria secondo cui era possibile estendere l’uso della metrica latina alla poesia in volgare10.
Dopo la morte del Guidiccioni, Dionigi Atanagi era tornato a Roma, città che gli era cara, dal momento che nella sua giovinezza aveva intessuto solidi legami con i letterati raccolti intorno alle accademie della Virtù e dello Sdegno11, tra cui, oltre al Tolomei, Francesco Maria Molza, Girolamo Ruscelli, Trifone Benci e Giovan Battista Palatino, autore di un fortunato trattato di scrittura, uscito a Roma nel 1540, dal titolo Libro nel qual s’insegna a scrivere ogni sorte lettera, antica e moderna, di qualunque natione, con le sue regole et misure et essempi et con un breve et util discorso de le cifre12.
Nonostante la stima di cui godeva tra i letterati del tempo, la condizione dell’Atanagi restò precaria per la difficoltà di trovare un mecenate che lo proteggesse stabilmente. Nel 1554 pubblicò, come si è detto, De le lettere di tredici huomini illustri, ma anche in questo caso non riuscì a trarre alcun vantaggio giacché, nello stesso anno, essa subì una contraffazione veneziana che riprendeva anche la dedica da lui firmata, e due anni dopo ebbe un’edizione a cura del Ruscelli, che pubblicava esattamente i tredici libri dell’antologia e, per dare l’impressione che si trattava di qualcosa di nuovo, ne aggiungeva altri due13. Alla fama della raccolta dell’Atanagi contribuì anche il libretto pubblicato dal Vergerio, nel 1555 nel quale, pur con tono critico, l’esule ne rendeva note le potenzialità eterodosse14. Secondo alcuni, proprio la visibilità data dalle parole del Vergerio all’antologia avrebbe finito per provocare il definitivo allontanamento di Dionigi da Roma15. In realtà nel 1555 il letterato appare ancora ben inserito nella curia romana, dal momento che lo troviamo presente durante il conclave che portò all’elezione di Marcello II, come sappiamo da un suo Ragguaglio inviato al vescovo di Urbino Felice Tiranni16. Ritornò nella sua città nel 1557, come risulta da una lettera di Bernardo Tasso del 20 novembre 1557, nella quale, oltre a chiedere all’Atanagi di rivedere il suo Amadigi «delle cose appartenenti alla locuzione e della lingua», il letterato si compiaceva della decisione dell’amico di allontanarsi da Roma alludendo, in modo peraltro criptico, a una situazione difficile: «Io mi sono rallegrato del vostro ritorno a la patria, et giudico, considerata la qualità de lo stato presente de la corte di Roma, et di quella città, havend’ancho risguardo a la vostra indispositione, che sia stata prudentissima deliberatione»17.
Furono probabilmente ancora le difficoltà economiche a indurlo a un ulteriore spostamento: nel 1558 si trasferì, insieme con l’amico Bernardo Tasso18, a Venezia, dove avrebbe avuto modo di collaborare con il mondo delle tipografie della città, entrando in contatto con un circolo estremamente prestigioso, legato a uno degli esponenti più illustri del patriziato veneziano: l’Accademia della Fama fondata nel 1557 da Federico Badoer19. Nata dapprima come un cenacolo di amici che da anni si raccoglievano a casa di Domenico Venier, amico fraterno del Badoer, essa diventò quasi subito, per volontà del patrizio veneziano, un’istituzione che si proponeva un ambizioso progetto culturale e politico con l’intento di giocare un ruolo di primo piano nella vita della Repubblica20. Di qui l’accento posto dal Badoer, nei documenti ufficiali, all’«utilità, dilettatione et ornamento grande a la città» che l’Accademia portava con sé.
Della nascita dell’Accademia Bernardo Tasso aveva avuto notizia da Girolamo Molin, che gli aveva presentato un programma editoriale quanto mai vasto, volto a pubblicare opere nuove o non più stampate e a «metter le mani, così ne i libri di filosofia, come di altre facultà; et non solo purgar quelli de gli infiniti errori, et incorrettioni, che nel vero portano seco a torno, con molto danno de gli studiosi, ma farsi insieme con molte utili annotationi, et discorsi, e scholie, e tradotti appresso in diverse lingue, uscire in luce nella più bella stampa, et carta, che si sia anchor veduta»21. Il patrizio veneziano informava Bernardo Tasso del fatto che lo stampatore scelto dal Badoer era Paolo Manuzio e che a lui avrebbe potuto affidare la stampa dell’Amadigi, dal momento che l’Accademia aveva tutto l’interesse a pubblicare opere di autori «che siano nella nostra età havuti in prezzo, et in ottima consideratione presso il mondo»22.
Nonostante le maggiori opportunità di lavoro che le stamperie veneziane gli offrivano, l’irrequieto Atanagi, pochi mesi dopo il suo arrivo nella Serenissima, già sentiva il desiderio di tornare in patria: il clima culturale stava cambiando e cominciavano ad avvertirsi le restrizioni che il primo Indice romano avrebbe comportato. Il 12 agosto 1559 informava l’amico di Cagli Bernardino Pino che aveva rinunciato «al servigio dell’Accademia»23 e che avrebbe voluto andarsene da Venezia, nonostante avesse degli amici che lo aiutavano a muoversi nel mondo dell’editoria, primo fra tutti Girolamo Ruscelli: «Non mi sono mancati né mancano amici, che amorevolmente si sono adoperati e s’adoperano, e innanzi a tutti il signor Ruscello, per accomodarmi alla correzione di alcune di queste stampe; ma la carestia e la meschinità ordinaria de’ partiti è cresciuta a modo per questo benedetto indice che è cosa incre...

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