II. Tre correttori e uno stampatore: Dionigi Atanagi, Lodovico Dolce, Girolamo Ruscelli e Paolo Manuzio (1554-60)
1. Le «Lettere di tredici huomini illustri» di Dionigi Atanagi: dalle guerre dâItalia alla crisi della «res publica Christiana»
In una lettera del 29 giugno 1550 il cardinal Morone rivelava allâamico Beccadelli, nunzio pontificio a Venezia, la sua preoccupazione per il rafforzarsi di giorno in giorno del potere dellâInquisizione: «Il che temo châogni hora andrĂ peggiorando, se ben mi confido che le bone attioni di V. S. et la prudenza, et destrezza sua, et il buon nome che tuttavia sâacquista, et sâacquistarĂ suppliranno in gran parte»1.
E in effetti i suoi timori non erano infondati. Le pesanti critiche inquisitoriali al Beccadelli per il troppo debole impegno nellâarginare lâeresia nello Stato veneto furono messe a tacere solo grazie allâintervento di Giulio III e del maestro del Sacro Palazzo Girolamo Muzzarelli2. Il potente cardinale Gian Pietro Carafa non ebbe alcuna esitazione ad agire allâinsaputa del papa stesso dando inizio a vere e proprie inchieste inquisitoriali a danno degli «spirituali» e dello stesso Contarini, morto da tempo, diventati nemici da debellare con ogni mezzo3. Fu ancora grazie allâintervento del pontefice e del maestro del Sacro Palazzo se i cardinali Morone e Pole nei primi anni cinquanta non furono travolti dalle prove della loro eterodossia, che, sin dagli anni del pontificato di Paolo III, Carafa aveva accumulato con grande solerzia, nella trepidante attesa di poterle utilizzare.
Fu una breve tregua che si ruppe nella primavera del 1555 quando il Carafa fu fatto papa. Da quel momento furono avviati i processi formali contro il Morone, che sarebbe stato arrestato nel maggio del 1557 e rinchiuso in Castel SantâAngelo per piĂč di due anni4. Tale clima non poteva non condizionare lâattivitĂ degli stampatori e dei librai italiani, costretti a rivedere le loro scelte e i loro cataloghi5. Anche le raccolte epistolari ne risentirono: le edizioni degli anni cinquanta, pur continuando ancora a dar voce agli uomini che avevano condiviso le speranze degli «spirituali», appaiono sempre piĂč lontane dal legame con la contemporaneitĂ che aveva caratterizzato le antologie del decennio precedente. Tuttavia esse incontrarono ancora un grande interesse tra il pubblico dei lettori, come si puĂČ dedurre non solo dalle riedizioni dei due libri delle Lettere volgari manuziane, ma anche dal successo della piĂč importante raccolta degli anni cinquanta: De le lettere di tredici huomini illustri, pubblicata a Roma nel 1554 dai fratelli Dorico, a cura di Dionigi Atanagi.
Che senso aveva nel 1554 far sentire ancora la voce di quegli uomini, molti dei quali non piĂč in vita? Chi era Dionigi Atanagi? Un letterato ben inserito nel mondo accademico romano, lontano dalle inquietudini religiose del proprio tempo, come appare da alcuni profili biografici6, o un uomo vicino agli ambienti eterodossi, piĂč attento di altri a non far trapelare allâesterno le sue convinzioni religiose? Ă difficile dare una risposta, ma Ăš evidente che alcuni suoi interessi, e in modo particolare la costruzione stessa dellâantologia, non consentono di immaginarlo come un cortigiano lontano dalle tensioni religiose di quegli anni. Sulla vita di questo autore, nato intorno al 1504 a Cagli nei pressi di Urbino, numerosi sono i punti oscuri. Poco o nulla sappiamo del periodo trascorso a Roma, intorno ai primi anni trenta, probabilmente al servizio di un qualche prelato7. Le notizie si intensificano a partire dal 1540, quando lo troviamo tra i collaboratori del vescovo di Fossombrone Giovanni Guidiccioni, di cui fu segretario nel momento in cui il vescovo diventĂČ commissario generale dellâesercito pontificio delle Marche8. Fu perĂČ un incarico di breve durata, poichĂ© il prelato morĂŹ circa un anno e mezzo dopo, lasciando lâAtanagi senza unâoccupazione.
LâinstabilitĂ della sua situazione economica doveva essere nota se Claudio Tolomei, in una lettera del 3 settembre 1542, lo rimproverava di non aver accettato lâinvito nella sua villa, dove non avrebbe sentito «i morsi della povertà », di cui si lamentava spesso9. Lâamicizia con il letterato senese era nata negli anni romani, quando Atanagi aveva collaborato alla raccolta Versi, et regole de la nuova poesia toscana (Roma, Antonio Blado, 1539), unâantologia poetica curata dallo stesso Tolomei, che intendeva dare una dimostrazione della teoria secondo cui era possibile estendere lâuso della metrica latina alla poesia in volgare10.
Dopo la morte del Guidiccioni, Dionigi Atanagi era tornato a Roma, cittĂ che gli era cara, dal momento che nella sua giovinezza aveva intessuto solidi legami con i letterati raccolti intorno alle accademie della VirtĂč e dello Sdegno11, tra cui, oltre al Tolomei, Francesco Maria Molza, Girolamo Ruscelli, Trifone Benci e Giovan Battista Palatino, autore di un fortunato trattato di scrittura, uscito a Roma nel 1540, dal titolo Libro nel qual sâinsegna a scrivere ogni sorte lettera, antica e moderna, di qualunque natione, con le sue regole et misure et essempi et con un breve et util discorso de le cifre12.
Nonostante la stima di cui godeva tra i letterati del tempo, la condizione dellâAtanagi restĂČ precaria per la difficoltĂ di trovare un mecenate che lo proteggesse stabilmente. Nel 1554 pubblicĂČ, come si Ăš detto, De le lettere di tredici huomini illustri, ma anche in questo caso non riuscĂŹ a trarre alcun vantaggio giacchĂ©, nello stesso anno, essa subĂŹ una contraffazione veneziana che riprendeva anche la dedica da lui firmata, e due anni dopo ebbe unâedizione a cura del Ruscelli, che pubblicava esattamente i tredici libri dellâantologia e, per dare lâimpressione che si trattava di qualcosa di nuovo, ne aggiungeva altri due13. Alla fama della raccolta dellâAtanagi contribuĂŹ anche il libretto pubblicato dal Vergerio, nel 1555 nel quale, pur con tono critico, lâesule ne rendeva note le potenzialitĂ eterodosse14. Secondo alcuni, proprio la visibilitĂ data dalle parole del Vergerio allâantologia avrebbe finito per provocare il definitivo allontanamento di Dionigi da Roma15. In realtĂ nel 1555 il letterato appare ancora ben inserito nella curia romana, dal momento che lo troviamo presente durante il conclave che portĂČ allâelezione di Marcello II, come sappiamo da un suo Ragguaglio inviato al vescovo di Urbino Felice Tiranni16. RitornĂČ nella sua cittĂ nel 1557, come risulta da una lettera di Bernardo Tasso del 20 novembre 1557, nella quale, oltre a chiedere allâAtanagi di rivedere il suo Amadigi «delle cose appartenenti alla locuzione e della lingua», il letterato si compiaceva della decisione dellâamico di allontanarsi da Roma alludendo, in modo peraltro criptico, a una situazione difficile: «Io mi sono rallegrato del vostro ritorno a la patria, et giudico, considerata la qualitĂ de lo stato presente de la corte di Roma, et di quella cittĂ , havendâancho risguardo a la vostra indispositione, che sia stata prudentissima deliberatione»17.
Furono probabilmente ancora le difficoltĂ economiche a indurlo a un ulteriore spostamento: nel 1558 si trasferĂŹ, insieme con lâamico Bernardo Tasso18, a Venezia, dove avrebbe avuto modo di collaborare con il mondo delle tipografie della cittĂ , entrando in contatto con un circolo estremamente prestigioso, legato a uno degli esponenti piĂč illustri del patriziato veneziano: lâAccademia della Fama fondata nel 1557 da Federico Badoer19. Nata dapprima come un cenacolo di amici che da anni si raccoglievano a casa di Domenico Venier, amico fraterno del Badoer, essa diventĂČ quasi subito, per volontĂ del patrizio veneziano, unâistituzione che si proponeva un ambizioso progetto culturale e politico con lâintento di giocare un ruolo di primo piano nella vita della Repubblica20. Di qui lâaccento posto dal Badoer, nei documenti ufficiali, allâ«utilitĂ , dilettatione et ornamento grande a la città » che lâAccademia portava con sĂ©.
Della nascita dellâAccademia Bernardo Tasso aveva avuto notizia da Girolamo Molin, che gli aveva presentato un programma editoriale quanto mai vasto, volto a pubblicare opere nuove o non piĂč stampate e a «metter le mani, cosĂŹ ne i libri di filosofia, come di altre facultĂ ; et non solo purgar quelli de gli infiniti errori, et incorrettioni, che nel vero portano seco a torno, con molto danno de gli studiosi, ma farsi insieme con molte utili annotationi, et discorsi, e scholie, e tradotti appresso in diverse lingue, uscire in luce nella piĂč bella stampa, et carta, che si sia anchor veduta»21. Il patrizio veneziano informava Bernardo Tasso del fatto che lo stampatore scelto dal Badoer era Paolo Manuzio e che a lui avrebbe potuto affidare la stampa dellâAmadigi, dal momento che lâAccademia aveva tutto lâinteresse a pubblicare opere di autori «che siano nella nostra etĂ havuti in prezzo, et in ottima consideratione presso il mondo»22.
Nonostante le maggiori opportunitĂ di lavoro che le stamperie veneziane gli offrivano, lâirrequieto Atanagi, pochi mesi dopo il suo arrivo nella Serenissima, giĂ sentiva il desiderio di tornare in patria: il clima culturale stava cambiando e cominciavano ad avvertirsi le restrizioni che il primo Indice romano avrebbe comportato. Il 12 agosto 1559 informava lâamico di Cagli Bernardino Pino che aveva rinunciato «al servigio dellâAccademia»23 e che avrebbe voluto andarsene da Venezia, nonostante avesse degli amici che lo aiutavano a muoversi nel mondo dellâeditoria, primo fra tutti Girolamo Ruscelli: «Non mi sono mancati nĂ© mancano amici, che amorevolmente si sono adoperati e sâadoperano, e innanzi a tutti il signor Ruscello, per accomodarmi alla correzione di alcune di queste stampe; ma la carestia e la meschinitĂ ordinaria deâ partiti Ăš cresciuta a modo per questo benedetto indice che Ăš cosa incre...