Amore liquido
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Amore liquido

Sulla fragilità dei legami affettivi

Zygmunt Bauman, Sergio Minucci

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Amore liquido

Sulla fragilità dei legami affettivi

Zygmunt Bauman, Sergio Minucci

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Un libro prezioso per capire la società in cui viviamo. Corrado Augias

La solitudine genera insicurezza, ma altrettanto fa la relazionesentimentale. In una relazionepuoi sentirti insicuroquanto saresti senza di essa, o anche peggio. Cambiano solo i nomiche dai alla tua ansia. Finché dura, l'amoreè in bilico sull'orlo della sconfitta. Man manoche avanza dissolve il proprio passato; non si lascia alle spalle trincee fortificate in cui potersi ritrarre e cercare rifugio in caso di guai. E non sa cosa lo attende e cosa può serbargli il futuro. Non acquisterà mai fiducia sufficiente a disperdere le nubi e debellare l'ansia. L'amore è un prestito ipotecario fatto su un futuro incerto e imperscrutabile.

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Information

Year
2017
ISBN
9788858128510

1. Innamorarsi e disamorarsi

«Mio caro amico, vi mando un’operetta di cui solo ingiustamente si potrebbe dire che non ha né capo né coda, poiché, al contrario, tutto in essa è, nello stesso tempo, e testa e coda, alternativamente e reciprocamente. Considerate, vi prego, quali mirabili comodità questa combinazione offre a tutti noi, a voi, a me e al lettore. Possiamo tagliare dove vogliamo: io la mia fantasticheria, voi il manoscritto, il lettore la sua lettura; infatti, la riluttante volontà di quest’ultimo non la sospendo all’interminabile filo di un intreccio superfluo. Staccate pure una vertebra, e i due pezzi di questa tortuosa fantasia si ricongiungeranno senza sforzo. Spezzatela in numerosi frammenti e vedrete che ognuno di essi può esistere separatamente. Nella speranza che alcuni di questi tronconi resteranno vivi abbastanza da piacervi e divertirvi, oso dedicarvi l’intero serpente».
Così Charles Baudelaire presentò Le spleen de Paris ai propri lettori. Che peccato. Altrimenti avrei tanto desiderato poter scrivere un preambolo più o meno come questo per introdurre quanto seguirà. Ma purtroppo lo ha già fatto lui, e quindi posso soltanto citarlo. Walter Benjamin espungerebbe ovviamente la parola «soltanto» da quest’ultima frase. E ripensandoci, anche io farei altrettanto.
«Spezzatela in numerosi frammenti e vedrete che ognuno di essi può esistere separatamente». L’opera uscita dalla penna di Baudelaire aveva certamente questa dote; se lo stesso può dirsi di questa sorta di zibaldone non sta a me deciderlo, bensì ai lettori.
La famiglia dei pensieri è piena di nani. Ecco perché furono inventati la logica e il metodo, e una volta inventati, accolti a braccia aperte e con riconoscenza dai pensatori. I nani possono mascherare e alfine dimenticare il proprio nanismo se avvolti nell’imponente splendore di colonne in marcia e schieramenti di battaglia. Una volta serrati i ranghi, chi mai si accorgerà della minuscola statura dei soldati? Si può creare un esercito dall’aspetto terrificante allineando in ordine di battaglia file su file di pigmei...
Forse, fosse soltanto per compiacere i maniaci della metodologia, avrei dovuto fare altrettanto con questi frammenti sparsi. Ma non avendo tempo a sufficienza per completare una simile opera, sarebbe stato folle da parte mia pensare prima all’ordine dei ranghi e lasciare a un secondo momento la chiamata alle armi...
Ripensandoci: forse il tempo a disposizione mi è parso troppo breve non a causa della mia ormai veneranda età, ma perché quanto più vecchi si diventa tanto più si impara che per quanto grandi i pensieri possano sembrare, non lo saranno mai abbastanza da inglobare, e tanto meno trattenere, la munifica prodigalità dell’esperienza umana. Ciò che sappiamo, desideriamo sapere, cerchiamo di sapere, dobbiamo tentare di sapere a proposito dell’amore o del suo rifiuto, dell’essere soli o in compagnia e del morire soli o in compagnia: può tutto ciò essere ottimizzato, messo a posto, può soddisfare gli standard di coerenza, coesione e completezza stabiliti per le questioni di minor importanza? Forse sì, ma chissà quando.
Non è forse vero che una volta che è stato detto tutto sulle più importanti questioni della vita umana, rimangono ancora da dire le cose più importanti?
L’amore e la morte, i due protagonisti di questa storia che non ha trama né epilogo ma condensa in gran parte l’urlo e il furore della vita, consentono più di qualunque altro tema questa sorta di riflessione/scrittura/lettura
Sostiene Ivan Klíma: poche cose si avvicinano alla morte quanto l’amore corrisposto. Ciascuna apparizione dell’una o dell’altro è un evento unico ma anche definitivo, che non ammette repliche, non concede appelli, non consente deroghe. Ciascuna di esse deve essere ed è un evento a sé stante. Ciascuna di esse nasce per la prima volta, o rinasce, ogni qual volta entra in scena, sempre spuntando dal nulla, dall’oscurità del non-essere, senza un passato né un futuro. Ciascuna di esse, ogni volta, parte dall’inizio, mettendo a nudo la superfluità di trame passate e la vacuità di ogni trama futura.
Nessuno può sperimentare due volte lo stesso amore o la stessa morte – così come, ci diceva Eraclito, nessuno può bagnarsi due volte nello stesso fiume. Entrambi sono eventi definitivi, irriguardosi e indifferenti a tutto il resto.
Bronislaw Malinowski era solito dileggiare i diffusionisti, accusati di confondere le collezioni museali con altrettante genealogie: bastava che vedessero dei rozzi utensili di selce in teche di vetro allineati dinanzi a manufatti più raffinati, per parlare di «storia degli utensili». Ciò equivaleva a dire, ironizzava Malinowski, che un’ascia di pietra ne avesse generata un’altra, allo stesso modo in cui, poniamo, l’hipparion aveva dato alla luce l’equus caballus in tempi remotissimi. Le origini dei cavalli sono certo riconducibili ad altri cavalli, ma gli utensili non sono antesignani o discendenti di altri utensili. A differenza dei cavalli, gli utensili non hanno una storia propria: essi per così dire cadenzano le singole biografie umane e le storie collettive; sono effusioni o sedimenti di tali biografie e storie.
Lo stesso può dirsi a proposito dell’amore e della morte. Consanguineità, affinità, relazioni causali sono tutti elementi della individualità (selfhood) e/o dell’aggregazione umana. Amore e morte non hanno una storia propria: sono eventi che accadono nella storia dell’uomo – ciascuno di essi autonomo, non connesso (e tanto meno in modo causale) ad altri eventi «simili», se non in ricostruzioni umane bramose di individuare – inventare – a posteriori le connessioni e comprendere l’incomprensibile.
E dunque non si può imparare ad amare; così come non si può imparare a morire. Né si può imparare l’elusiva – inesistente, per quanto ardentemente desiderata – arte di non rimanerne impigliati e tenersene alla larga. A tempo debito, l’amore e la morte colpiranno; solo che non abbiamo la benché minima idea di quando tale ora scoccherà. In qualsiasi momento giunga, ti coglierà impreparato. Amore e morte sbucheranno dalle tue preoccupazioni quotidiane ab nihilo, dal nulla. Tutti noi siamo naturalmente inclini a guardarci indietro per acquisire saggezza dalle esperienze passate; tenteremo di scovare gli antecedenti, di applicare l’infallibile principio di un post hoc che è sicuramente il propter hoc, di tracciare una genesi «significativa» dell’evento, e il più delle volte ci riusciremo. Abbiamo bisogno di riuscirci per il conforto spirituale che tale successo arreca: esso infatti resuscita, seppur in modo indiretto, la fede nella regolarità del mondo e nella prevedibilità degli eventi, indispensabile per la propria salute mentale. Produce anche un’illusione di saggezza acquisita, di apprendimento, e soprattutto di una saggezza che è possibile imparare, così come si impara a impiegare i canoni dell’induzione di John Stuart Mill, a guidare l’auto, a mangiare con i bastoncini cinesi o a fare una buona impressione in un colloquio di lavoro.
Nel caso della morte l’apprendimento è ovviamente confinato all’esperienza altrui e dunque si tratta di un’illusione in extremis. L’esperienza altrui non può essere realmente appresa come esperienza; nel prodotto finale dell’apprendimento dell’oggetto non si può mai separare l’Erlebnis originale dal contributo creativo delle capacità di immaginazione del soggetto. L’esperienza altrui può essere appresa solo nella veste di una storia elaborata, interpretata, di quanto è stato vissuto da altri. Forse qualche gatto ha davvero, come il Tom del cartone animato Tom e Jerry, nove vite o più, e forse qualche convertito può davvero finire col credere di essersi reincarnato, ma resta il fatto che la morte, come la nascita, avviene una sola volta; non c’è modo di imparare a «fare meglio la prossima volta» da un evento che non sarà mai più rivissuto.
L’amore sembra godere di uno status diverso rispetto agli altri eventi irripetibili
Certo, è possibile innamorarsi più di una volta, e c’è chi si vanta – o si lamenta – di innamorarsi e disamorarsi fin troppo spesso. Ciascuno di noi avrà certamente conosciuto o sentito parlare di tali persone particolarmente «facili a innamorarsi» o «vulnerabili all’amore».
Esistono fondati motivi per considerare l’amore, e in particolare lo stato di «innamoramento», come una condizione – quasi per sua natura – ricorrente, soggetta a ripetersi o che addirittura solleciti ripetuti tentativi. Quasi tutti noi potremmo citare un certo numero di volte in cui abbiamo pensato di esserci innamorati e di amare qualcuno. Si può supporre (ma è una supposizione fondata) che oggigiorno si vadano rapidamente ampliando i ranghi di chi tende ad assegnare il nome di amore a più di una delle proprie esperienze di vita, di chi non è disposto a giurare che l’amore attualmente vissuto sarà l’ultimo, e di chi si aspetta altre esperienze simili in futuro. Qualora la supposizione dovesse rivelarsi esatta, ci sarebbe ben poco da sorprendersi. Dopo tutto, la definizione romantica dell’amore come vincolo che dura «finché morte non ci separi» è decisamente fuori moda – resa obsoleta dal radicale sconvolgimento delle strutture di parentela su cui fondava e dalle quali traeva vigore e rilevanza. Ma la caduta in disuso di tale nozione ha finito inevitabilmente con l’abbassare il livello di difficoltà delle prove che un’esperienza deve superare per fregiarsi del titolo di «amore». Non sono le persone che raggiungono gli alti standard dell’amore ad essere aumentate: sono gli standard ad essersi abbassati; di conseguenza, l’orizzonte delle esperienze cui si attribuisce la parola amore si è espanso a dismisura. Le avventure di una notte vengono classificate col nome in codice «fare l’amore».
Questa improvvisa abbondanza e palese disponibilità di «esperienze amorose» potrebbe alimentare e di fatto alimenta la convinzione che l’amore (l’innamorarsi, il chiedere amore) sia un’arte che si può imparare e la cui padronanza aumenti in base al numero di esperimenti e all’assiduità di esercizio. Si potrebbe finanche credere (e fin troppo spesso lo si fa) che le capacità amatorie crescano via via che si accumula esperienza; che il prossimo amore sarà un’esperienza ancor più entusiasmante di quella attualmente vissuta, ma sempre meno di quella che verrà ancora dopo.
Ma si tratta di un’altra pia illusione... Il tipo di conoscenza che cresce di volume via via che l’elenco delle storie d’amore si allunga è quella dell’«amore» vissuto come sequela di episodi distinti, brevi e appassionanti, consumati con la consapevolezza a priori di fragilità e brevità. Il genere di capacità che si acquisisce è quella di «finire subito e cominciare daccapo» di cui, secondo Søren Kierkegaard, il Don Giovanni di Mozart era il massimo archetipo. Ma benché guidato dalla compulsione a ritentare e ossessionato dall’imperativo di impedire che ciascun tentativo presente fosse un ostacolo a tentativi futuri, Don Giovanni fu anche un archetipo di uomo «incapace di amare». Se il fine dell’infaticabile ricerca e sperimentazione di Don Giovanni fosse stato l’amore, la compulsione a sperimentare avrebbe sconfitto tale fine. Si sarebbe tentati di dire che il risultato della pretesa «acquisizione di capacità» sia destinato a essere, come nel caso di Don Giovanni, il dis-imparare ad amare: una «addestrata incapacità» di amare.
Siffatto esito – la vendetta dell’amore, per così dire, contro chi osa sfidarne la natura – era ben prevedibile. Si può imparare a svolgere un’attività laddove esista una serie di regole fisse riferite a uno scenario stabile, monotonamente ripetitivo, che ne favorisce l’apprendimento, la memorizzazione e il successivo espletamento. In un ambiente instabile, la capacità di ricordare e l’acquisizione di abitudini – marchi di fabbrica di un apprendimento coronato da successo – sono non soltanto controproducenti, ma potenzialmente letali. Ciò che, col passare del tempo, continua a dimostrarsi fatale per i topi che infestano le fogne delle città – quelle creature intelligentissime capaci di imparare subito a distinguere i bocconi buoni da quelli avvelenati – è l’elemento di instabilità, di sovvertimento delle regole, introdotto nella rete di cunicoli e canali sotterranei dalla irregolare, inapprendibile, imprevedibile, assolutamente impenetrabile «alterità» di altre creature intelligenti: gli esseri umani, creature note per la loro inclinazione a infrangere la routine e a scompaginare qualunque distinzione tra regolarità e contingenza. Se tale distinzione viene a mancare, l’apprendimento (nella misura in cui con questo termine si intende l’acquisizione di consuetudini utili) è impossibile. Chi si ostina a decidere le proprie azioni sulla base dei precedenti – come i generali, noti per la loro inclinazione a reiterare sempre l’ultimo genere di guerra dimostratosi vincente – corre rischi suicidi e va incontro a un mare di guai.
È insito nella natura dell’amore il fatto che – come Lucano osservò duemila anni fa e Francis Bacon ripeté molti secoli dopo – esso non possa che significare il consegnarsi in ostaggio al destino
Nel Simposio di Platone, la profetessa Diotima di ...

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