Amore liquido
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Amore liquido

Sulla fragilitĂ  dei legami affettivi

Zygmunt Bauman, Sergio Minucci

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  1. 238 pages
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Sulla fragilitĂ  dei legami affettivi

Zygmunt Bauman, Sergio Minucci

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Un libro prezioso per capire la societĂ  in cui viviamo. Corrado Augias

La solitudine genera insicurezza, ma altrettanto fa la relazionesentimentale. In una relazionepuoi sentirti insicuroquanto saresti senza di essa, o anche peggio. Cambiano solo i nomiche dai alla tua ansia. FinchĂ© dura, l'amoreĂš in bilico sull'orlo della sconfitta. Man manoche avanza dissolve il proprio passato; non si lascia alle spalle trincee fortificate in cui potersi ritrarre e cercare rifugio in caso di guai. E non sa cosa lo attende e cosa puĂČ serbargli il futuro. Non acquisterĂ  mai fiducia sufficiente a disperdere le nubi e debellare l'ansia. L'amore Ăš un prestito ipotecario fatto su un futuro incerto e imperscrutabile.

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Informations

Éditeur
Editori Laterza
Année
2017
ISBN
9788858128510

1. Innamorarsi e disamorarsi

«Mio caro amico, vi mando un’operetta di cui solo ingiustamente si potrebbe dire che non ha nĂ© capo nĂ© coda, poichĂ©, al contrario, tutto in essa Ăš, nello stesso tempo, e testa e coda, alternativamente e reciprocamente. Considerate, vi prego, quali mirabili comoditĂ  questa combinazione offre a tutti noi, a voi, a me e al lettore. Possiamo tagliare dove vogliamo: io la mia fantasticheria, voi il manoscritto, il lettore la sua lettura; infatti, la riluttante volontĂ  di quest’ultimo non la sospendo all’interminabile filo di un intreccio superfluo. Staccate pure una vertebra, e i due pezzi di questa tortuosa fantasia si ricongiungeranno senza sforzo. Spezzatela in numerosi frammenti e vedrete che ognuno di essi puĂČ esistere separatamente. Nella speranza che alcuni di questi tronconi resteranno vivi abbastanza da piacervi e divertirvi, oso dedicarvi l’intero serpente».
CosĂŹ Charles Baudelaire presentĂČ Le spleen de Paris ai propri lettori. Che peccato. Altrimenti avrei tanto desiderato poter scrivere un preambolo piĂč o meno come questo per introdurre quanto seguirĂ . Ma purtroppo lo ha giĂ  fatto lui, e quindi posso soltanto citarlo. Walter Benjamin espungerebbe ovviamente la parola «soltanto» da quest’ultima frase. E ripensandoci, anche io farei altrettanto.
«Spezzatela in numerosi frammenti e vedrete che ognuno di essi puĂČ esistere separatamente». L’opera uscita dalla penna di Baudelaire aveva certamente questa dote; se lo stesso puĂČ dirsi di questa sorta di zibaldone non sta a me deciderlo, bensĂŹ ai lettori.
La famiglia dei pensieri Ăš piena di nani. Ecco perchĂ© furono inventati la logica e il metodo, e una volta inventati, accolti a braccia aperte e con riconoscenza dai pensatori. I nani possono mascherare e alfine dimenticare il proprio nanismo se avvolti nell’imponente splendore di colonne in marcia e schieramenti di battaglia. Una volta serrati i ranghi, chi mai si accorgerĂ  della minuscola statura dei soldati? Si puĂČ creare un esercito dall’aspetto terrificante allineando in ordine di battaglia file su file di pigmei...
Forse, fosse soltanto per compiacere i maniaci della metodologia, avrei dovuto fare altrettanto con questi frammenti sparsi. Ma non avendo tempo a sufficienza per completare una simile opera, sarebbe stato folle da parte mia pensare prima all’ordine dei ranghi e lasciare a un secondo momento la chiamata alle armi...
Ripensandoci: forse il tempo a disposizione mi Ăš parso troppo breve non a causa della mia ormai veneranda etĂ , ma perchĂ© quanto piĂč vecchi si diventa tanto piĂč si impara che per quanto grandi i pensieri possano sembrare, non lo saranno mai abbastanza da inglobare, e tanto meno trattenere, la munifica prodigalitĂ  dell’esperienza umana. CiĂČ che sappiamo, desideriamo sapere, cerchiamo di sapere, dobbiamo tentare di sapere a proposito dell’amore o del suo rifiuto, dell’essere soli o in compagnia e del morire soli o in compagnia: puĂČ tutto ciĂČ essere ottimizzato, messo a posto, puĂČ soddisfare gli standard di coerenza, coesione e completezza stabiliti per le questioni di minor importanza? Forse sĂŹ, ma chissĂ  quando.
Non Ăš forse vero che una volta che Ăš stato detto tutto sulle piĂč importanti questioni della vita umana, rimangono ancora da dire le cose piĂč importanti?
L’amore e la morte, i due protagonisti di questa storia che non ha trama nĂ© epilogo ma condensa in gran parte l’urlo e il furore della vita, consentono piĂč di qualunque altro tema questa sorta di riflessione/scrittura/lettura
Sostiene Ivan KlĂ­ma: poche cose si avvicinano alla morte quanto l’amore corrisposto. Ciascuna apparizione dell’una o dell’altro Ăš un evento unico ma anche definitivo, che non ammette repliche, non concede appelli, non consente deroghe. Ciascuna di esse deve essere ed Ăš un evento a sĂ© stante. Ciascuna di esse nasce per la prima volta, o rinasce, ogni qual volta entra in scena, sempre spuntando dal nulla, dall’oscuritĂ  del non-essere, senza un passato nĂ© un futuro. Ciascuna di esse, ogni volta, parte dall’inizio, mettendo a nudo la superfluitĂ  di trame passate e la vacuitĂ  di ogni trama futura.
Nessuno puĂČ sperimentare due volte lo stesso amore o la stessa morte – cosĂŹ come, ci diceva Eraclito, nessuno puĂČ bagnarsi due volte nello stesso fiume. Entrambi sono eventi definitivi, irriguardosi e indifferenti a tutto il resto.
Bronislaw Malinowski era solito dileggiare i diffusionisti, accusati di confondere le collezioni museali con altrettante genealogie: bastava che vedessero dei rozzi utensili di selce in teche di vetro allineati dinanzi a manufatti piĂč raffinati, per parlare di «storia degli utensili». CiĂČ equivaleva a dire, ironizzava Malinowski, che un’ascia di pietra ne avesse generata un’altra, allo stesso modo in cui, poniamo, l’hipparion aveva dato alla luce l’equus caballus in tempi remotissimi. Le origini dei cavalli sono certo riconducibili ad altri cavalli, ma gli utensili non sono antesignani o discendenti di altri utensili. A differenza dei cavalli, gli utensili non hanno una storia propria: essi per cosĂŹ dire cadenzano le singole biografie umane e le storie collettive; sono effusioni o sedimenti di tali biografie e storie.
Lo stesso puĂČ dirsi a proposito dell’amore e della morte. ConsanguineitĂ , affinitĂ , relazioni causali sono tutti elementi della individualitĂ  (selfhood) e/o dell’aggregazione umana. Amore e morte non hanno una storia propria: sono eventi che accadono nella storia dell’uomo – ciascuno di essi autonomo, non connesso (e tanto meno in modo causale) ad altri eventi «simili», se non in ricostruzioni umane bramose di individuare – inventare – a posteriori le connessioni e comprendere l’incomprensibile.
E dunque non si puĂČ imparare ad amare; cosĂŹ come non si puĂČ imparare a morire. NĂ© si puĂČ imparare l’elusiva – inesistente, per quanto ardentemente desiderata – arte di non rimanerne impigliati e tenersene alla larga. A tempo debito, l’amore e la morte colpiranno; solo che non abbiamo la benchĂ© minima idea di quando tale ora scoccherĂ . In qualsiasi momento giunga, ti coglierĂ  impreparato. Amore e morte sbucheranno dalle tue preoccupazioni quotidiane ab nihilo, dal nulla. Tutti noi siamo naturalmente inclini a guardarci indietro per acquisire saggezza dalle esperienze passate; tenteremo di scovare gli antecedenti, di applicare l’infallibile principio di un post hoc che Ăš sicuramente il propter hoc, di tracciare una genesi «significativa» dell’evento, e il piĂč delle volte ci riusciremo. Abbiamo bisogno di riuscirci per il conforto spirituale che tale successo arreca: esso infatti resuscita, seppur in modo indiretto, la fede nella regolaritĂ  del mondo e nella prevedibilitĂ  degli eventi, indispensabile per la propria salute mentale. Produce anche un’illusione di saggezza acquisita, di apprendimento, e soprattutto di una saggezza che Ăš possibile imparare, cosĂŹ come si impara a impiegare i canoni dell’induzione di John Stuart Mill, a guidare l’auto, a mangiare con i bastoncini cinesi o a fare una buona impressione in un colloquio di lavoro.
Nel caso della morte l’apprendimento Ăš ovviamente confinato all’esperienza altrui e dunque si tratta di un’illusione in extremis. L’esperienza altrui non puĂČ essere realmente appresa come esperienza; nel prodotto finale dell’apprendimento dell’oggetto non si puĂČ mai separare l’Erlebnis originale dal contributo creativo delle capacitĂ  di immaginazione del soggetto. L’esperienza altrui puĂČ essere appresa solo nella veste di una storia elaborata, interpretata, di quanto Ăš stato vissuto da altri. Forse qualche gatto ha davvero, come il Tom del cartone animato Tom e Jerry, nove vite o piĂč, e forse qualche convertito puĂČ davvero finire col credere di essersi reincarnato, ma resta il fatto che la morte, come la nascita, avviene una sola volta; non c’ù modo di imparare a «fare meglio la prossima volta» da un evento che non sarĂ  mai piĂč rivissuto.
L’amore sembra godere di uno status diverso rispetto agli altri eventi irripetibili
Certo, Ăš possibile innamorarsi piĂč di una volta, e c’ù chi si vanta – o si lamenta – di innamorarsi e disamorarsi fin troppo spesso. Ciascuno di noi avrĂ  certamente conosciuto o sentito parlare di tali persone particolarmente «facili a innamorarsi» o «vulnerabili all’amore».
Esistono fondati motivi per considerare l’amore, e in particolare lo stato di «innamoramento», come una condizione – quasi per sua natura – ricorrente, soggetta a ripetersi o che addirittura solleciti ripetuti tentativi. Quasi tutti noi potremmo citare un certo numero di volte in cui abbiamo pensato di esserci innamorati e di amare qualcuno. Si puĂČ supporre (ma Ăš una supposizione fondata) che oggigiorno si vadano rapidamente ampliando i ranghi di chi tende ad assegnare il nome di amore a piĂč di una delle proprie esperienze di vita, di chi non Ăš disposto a giurare che l’amore attualmente vissuto sarĂ  l’ultimo, e di chi si aspetta altre esperienze simili in futuro. Qualora la supposizione dovesse rivelarsi esatta, ci sarebbe ben poco da sorprendersi. Dopo tutto, la definizione romantica dell’amore come vincolo che dura «finchĂ© morte non ci separi» Ăš decisamente fuori moda – resa obsoleta dal radicale sconvolgimento delle strutture di parentela su cui fondava e dalle quali traeva vigore e rilevanza. Ma la caduta in disuso di tale nozione ha finito inevitabilmente con l’abbassare il livello di difficoltĂ  delle prove che un’esperienza deve superare per fregiarsi del titolo di «amore». Non sono le persone che raggiungono gli alti standard dell’amore ad essere aumentate: sono gli standard ad essersi abbassati; di conseguenza, l’orizzonte delle esperienze cui si attribuisce la parola amore si Ăš espanso a dismisura. Le avventure di una notte vengono classificate col nome in codice «fare l’amore».
Questa improvvisa abbondanza e palese disponibilitĂ  di «esperienze amorose» potrebbe alimentare e di fatto alimenta la convinzione che l’amore (l’innamorarsi, il chiedere amore) sia un’arte che si puĂČ imparare e la cui padronanza aumenti in base al numero di esperimenti e all’assiduitĂ  di esercizio. Si potrebbe finanche credere (e fin troppo spesso lo si fa) che le capacitĂ  amatorie crescano via via che si accumula esperienza; che il prossimo amore sarĂ  un’esperienza ancor piĂč entusiasmante di quella attualmente vissuta, ma sempre meno di quella che verrĂ  ancora dopo.
Ma si tratta di un’altra pia illusione... Il tipo di conoscenza che cresce di volume via via che l’elenco delle storie d’amore si allunga Ăš quella dell’«amore» vissuto come sequela di episodi distinti, brevi e appassionanti, consumati con la consapevolezza a priori di fragilitĂ  e brevitĂ . Il genere di capacitĂ  che si acquisisce Ăš quella di «finire subito e cominciare daccapo» di cui, secondo SĂžren Kierkegaard, il Don Giovanni di Mozart era il massimo archetipo. Ma benchĂ© guidato dalla compulsione a ritentare e ossessionato dall’imperativo di impedire che ciascun tentativo presente fosse un ostacolo a tentativi futuri, Don Giovanni fu anche un archetipo di uomo «incapace di amare». Se il fine dell’infaticabile ricerca e sperimentazione di Don Giovanni fosse stato l’amore, la compulsione a sperimentare avrebbe sconfitto tale fine. Si sarebbe tentati di dire che il risultato della pretesa «acquisizione di capacità» sia destinato a essere, come nel caso di Don Giovanni, il dis-imparare ad amare: una «addestrata incapacità» di amare.
Siffatto esito – la vendetta dell’amore, per cosĂŹ dire, contro chi osa sfidarne la natura – era ben prevedibile. Si puĂČ imparare a svolgere un’attivitĂ  laddove esista una serie di regole fisse riferite a uno scenario stabile, monotonamente ripetitivo, che ne favorisce l’apprendimento, la memorizzazione e il successivo espletamento. In un ambiente instabile, la capacitĂ  di ricordare e l’acquisizione di abitudini – marchi di fabbrica di un apprendimento coronato da successo – sono non soltanto controproducenti, ma potenzialmente letali. CiĂČ che, col passare del tempo, continua a dimostrarsi fatale per i topi che infestano le fogne delle cittĂ  – quelle creature intelligentissime capaci di imparare subito a distinguere i bocconi buoni da quelli avvelenati – Ăš l’elemento di instabilitĂ , di sovvertimento delle regole, introdotto nella rete di cunicoli e canali sotterranei dalla irregolare, inapprendibile, imprevedibile, assolutamente impenetrabile «alterità» di altre creature intelligenti: gli esseri umani, creature note per la loro inclinazione a infrangere la routine e a scompaginare qualunque distinzione tra regolaritĂ  e contingenza. Se tale distinzione viene a mancare, l’apprendimento (nella misura in cui con questo termine si intende l’acquisizione di consuetudini utili) Ăš impossibile. Chi si ostina a decidere le proprie azioni sulla base dei precedenti – come i generali, noti per la loro inclinazione a reiterare sempre l’ultimo genere di guerra dimostratosi vincente – corre rischi suicidi e va incontro a un mare di guai.
È insito nella natura dell’amore il fatto che – come Lucano osservĂČ duemila anni fa e Francis Bacon ripetĂ© molti secoli dopo – esso non possa che significare il consegnarsi in ostaggio al destino
Nel Simposio di Platone, la profetessa Diotima di ...

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