Il pensiero meridiano
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Il pensiero meridiano

Franco Cassano

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Il pensiero meridiano

Franco Cassano

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«Pensiero meridiano è quel pensiero che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare, quando la riva interrompe gli integrismi della terra (in primis quello dell'economia e dello sviluppo), quando si scopre che il confine non è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano e la partita del rapporto con l'altro diventa difficile e vera.»

È nel Mediterraneo che va diluita la modernità inconsapevole, troppo presa dalla corsa allo sviluppo. È qui che possono stemperarsi i dilemmi della globalizzazione. Occorre restituire al Sud l'antica dignità di soggetto del pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato da altri. D'altra parte il pensiero meridiano «esiste in forme disperse e talvolta malate e bisogna imparare a cercarlo: lo si può trovare nei nostri sud interiori, in una follia, in un silenzio, in una sosta, in una preghiera di ringraziamento, nell'inettitudine dei vecchi e dei bambini, in una fraternità che sa schivare complicità e omertà, in un'economia che non abbia ripudiato i legami sociali. Lo si può trovare nei sentimenti dove vivono più patrie, dove alla semplicità del sì e del no si sostituiscono i molti veli della verità».

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Information

Year
2021
ISBN
9788858145654

Prefazione.
Paralleli e meridiani

Da quando è comparso, nel gennaio del 1996, il Pensiero meridiano ha suscitato una molteplicità di reazioni, dall’adesione incondizionata alla contrapposizione sospettosa, dalla richiesta di tradurne le categorie in indicazioni politiche concrete allo scetticismo ironico. Non sono mancate le semplificazioni dell’ordito del discorso, e non sempre chi si è proposto di analizzare le tesi del libro ha provato a confrontarsi con tutte le sue dimensioni1. È possibile che questa tendenza alla semplificazione sia dipesa anche dal fatto che l’autore, preso dalle tesi che stava proponendo, non si è preoccupato di rendere espliciti, ritenendoli evidenti, i fili che connettevano la trama teorica di quel libro a quelli precedenti e al dibattito internazionale. Quell’assunto era probabilmente sbagliato. Ecco perché il principale scopo di questa Prefazione sarà quello di ricostruire l’intersezione di piani contenuta nel Pensiero meridiano, per permettere alla discussione di continuare su una base più precisa.
Al sud e al pensiero meridiano, infatti, chi scrive non è arrivato dal «noi», da un’improvvisa passione identitaria, ma dalla categoria dell’«altro», da una riflessione sul lato d’ombra di ogni identità. Insomma la spinta più forte verso una rivendicazione del valore del sud è venuta dalla ribellione alle sue rappresentazioni nella cultura dominante, al razzismo talvolta inavvertito di molte delle sue varianti, anche di quelle più insospettabili e politicamente corrette. Di fronte alla sussiegosa ottusità di tali rappresentazioni, ad un universalismo borioso e poco abituato ad essere contraddetto, la scelta del sud era un voler prendere prima ancora che le parti del proprio, quelle dell’altro, una reazione teorica ad una figura rappresentata in modo così negativo e caricaturale da non poter essere vera.
Del resto tale approdo era coerente con tutto il percorso che precede il Pensiero meridiano, partito all’inizio degli anni ottanta dalla critica delle filosofie della storia e dall’interesse per le dissonanze e per gli scarti, quella polvere che la ragione dominante nasconde sotto il tappeto per rimuovere la possibilità stessa di altre forme di vita e di esperienza. Per chi scrive quel decennio è stato, molto più che l’elaborazione di un lutto, una febbrile stagione di letture e riflessioni in zone lontane dai percorsi più battuti e dai recinti disciplinari, un giro del mondo da consigliare caldamente ai sedentari dell’intelletto, a coloro che non lasciano mai le loro cellette concettuali. Ho amato, già alla fine degli anni settanta, il Philip Dick di La svastica sul sole2, di più e molto prima di aver visto ed amato Blade Runner di Ridley Scott. In quel libro, divenuto un classico non solo della fantascienza, si ipotizzava, come è noto, che la seconda guerra mondiale avesse avuto un esito rovesciato. Mi sembrava che Dick insegnasse come pochi a scoprire il rapporto ambiguo e complesso che noi abbiamo con la «verità». Di qui anche, in controtendenza rispetto al bigottismo imperante, un particolare tipo di curiosità per il «revisionismo», l’attenzione per gli effetti che i rapporti di forza esercitano sulla struttura del campo culturale dominante.
I vincitori, del resto, sono sempre adornati da servizievoli intellettuali e quindi sanno bene come imporre le loro ragioni, come sottrarre l’immagine ufficiale della storia a quell’ambiguità che l’attraversa in profondità e che solo in rari momenti affiora in superficie. Questa sensibilità era però diversa da quella che normalmente si accompagna all’aggettivo «revisionista», perché i perdenti sono molti di più di quei pochi che stanno a cuore alle polemiche nostrane, sono tutti coloro che non hanno nessun avvocato, quelli di cui non si sa e non si parla, sono i «mussulmani» che, in modo indelebile, Primo Levi descrive in I sommersi e i salvati. Oggi sono in molti coloro che del revisionismo hanno fatto una carriera, mentre ciò che esso, anni addietro, aveva di rispettabile e avvincente era proprio il suo andare contro corrente. Il «revisionismo» che oggi si sta affermando è il contrario di quello che è stato negli anni passati, è l’adeguamento della storiografia e della cultura politica ai nuovi vincitori, ai rapporti di forza prodottisi dopo il crollo dell’Urss. Proprio per questa ragione la bandiera del «revisionismo» sta oggi passando in altre mani, anche se sono pochi coloro che se ne sono accorti.
Chi veniva da questo percorso al sud non arrivava quindi dalla rivendicazione di «una tradizione da ripristinare nella sua integrità», ma dalla diffidenza sistematica verso le maiuscole e gli inchini di fronte ad esse, dalla convinzione che nessuna identità possa pretendere un rapporto privilegiato con la verità, sentendosi autorizzata a colonizzare le altre. Al sud arrivava dalla decostruzione sistematica dell’arroganza, dalla consapevolezza della complessità e dell’ambivalenza del mondo, dalla convinzione che ogni discorso è pieno di effetti perversi, ma anche di trucchi per occultarli3. A spingere verso il sud, molto prima e ancor più del fatto di viverci, è stata quindi l’attenzione costante per i punti «deboli» di ogni discorso «forte», la scelta di mantenere aperto e libero il mondo, la volontà di difendere la molteplicità dei suoi versi contro la pretesa dei vincitori di chiuderlo nel loro uni-verso.
Ecco perché è difficile intendere il Pensiero meridiano senza scorgere che in esso s’incrociano due dimensioni, quella della scissione e quella della mediazione. Da un lato il bisogno di un gesto di rottura e di rivendicazione dell’autonomia del sud, la lacerazione della falsa neutralità ed universalità della rappresentazione dominante, dall’altro la difesa della molteplicità e della varietà culturale, la convinzione che la ragione del futuro o sarà plurale o non sarà. Ognuno di questi gesti ha da imparare qualcosa dall’altro: la rivendicazione di autonomia deve evitare la trappola del fondamentalismo identitario, la mediazione deve evitare di confondersi con la passiva registrazione dei rapporti di forza esistenti.
Oggi siamo di fronte ad un grande squilibrio, ad una formidabile dismisura, e ogni giorno scopriamo l’esistenza di abissi terribili tra le condizioni degli abitanti del pianeta. Una ricostruzione della misura, può venire, come c’insegna Pier Paolo Pasolini, solo da un grande scossone, da una forza capace di avviare il riequilibrio. Nella maggior parte dei casi le categorie di rottura e mediazione si escludono reciprocamente: lo sforzo che il libro tenta di fare è quello di elaborare una forma di intersezione tra esse, capace di affrontare la complessità del compito. Proveremo a ricostruire questo quadro illustrandone alcune dimensioni, che proporremo in modo distinto solo per comodità analitica, perché in realtà funzionano e hanno un senso solo nella loro connessione.

1. Autonomia

Il primo passaggio essenziale del libro sta nella netta e radicale rivendicazione dell’autonomia del sud. Come recitava la quarta di copertina, il cuore del progetto è quello di «restituire al sud l’antica dignità di soggetto del pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato solo da altri». Il sud non è un non-ancora, non esiste solo nella prospettiva di diventare altro, di fuggire inorridito da sé per imitare il nord venti o cento anni dopo, e quindi probabilmente mai. Il primo passo dell’autonomia sta proprio qui, nella comprensione che il futuro può non essere un inseguimento eternamente incompiuto ed eternamente fallimentare.
La mossa teorica principale è quindi la rottura della gerarchia implicita in questo scarto temporale, un radicale rovesciamento di prospettiva: il sud come un punto di vista autonomo, non come non-ancora nord. Non è un caso che una mossa simile venga proposta anche da Boaventura de Sousa Santos, che vede proprio nell’epistemologia del sud il cuore dell’utopia critica che anima il Forum Sociale Mondiale4. Né è un caso che Walter Mignolo imperni la sua Geopolitics of Knowledge5 intorno alla costituzione di un pensiero del confine (Border Thinking), l’unico capace di mettere a tema la «differenza coloniale», la discontinuità di potere ed epistemologica tra il cuore settentrionale del pianeta e l’insieme dei popoli delle periferie. Del resto questo gesto teorico è simile a quello che dà inizio ai Subaltern Studies6: ogni autonomia nasce dalla relativizzazione o, per dirla con Chakrabarty, dalla provincializzazione dell’universo simbolico dominante7, dalla neutralizzazione della sua pretesa di centralità ed unicità. Un sud che riprende a pensarsi autonomamente, che rifiuta l’imitazione passiva, tardiva e impossibile del nord, capovolge del tutto la rappresentazione dominante. La prima mossa, quindi, è quella che mira a scardinare la concezione del tempo sottesa a quella rappresentazione, che, riducendo ogni differenza alla categoria semplice dell’arretratezza, recide ogni pensiero che voglia fondare un campo teorico diverso.
Contemporanea a questa mutata concezione del tempo è la trasformazione del rapporto con i luoghi, la messa a fuoco di un orizzonte contemporaneamente più lontano e più vicino rispetto a quello abituale. Nel pensiero meridiano si rivendica esplicitamente la connessione tra un sud, quello italiano, e i sud del mondo. Non per costruire equivoche identificazioni ed assimilazioni, ma soprattutto per contrastare la tendenza a pensare che l’emancipazione del sud italiano possa essere letta come una questione separata, chiusa nell’orizzonte dello stato nazionale o in quello continentale, insensibile alle connessioni con l’esterno e in primo luogo con la sponda sud del Mediterraneo.
Ogni idea del futuro del sud, del suo sviluppo, va coniugata con la specificità della sua posizione geografica e della sua cultura. «La chiave – si diceva – sta nel riguardare i luoghi, nel duplice senso di aver riguardo per loro e di tornare a guardarli». Riguardare i luoghi significava in primo luogo riguardare la carta geografica, dilatare lo sguardo al di là dei confini nazionali, scorgere connessioni nuove, nuovi vicini e nuovi lontani. Si trattava in altri termini di provare a dare più respiro al modo in cui si discute del sud europeo e di quello italiano, tentando di collocarlo nell’ambito del dibattito teorico internazionale. Ma riguardare i luoghi significava anche trasformare il rapporto cognitivo ed affettivo con essi. Nessuno sviluppo può avvenire sulla base del disprezzo dei luoghi, della loro vendita all’incanto, dagli stupri industriali della modernità a quelli turistici della postmodernità. Guardare i luoghi significa averne cura, riguardo, ricostruire, attraverso la pietas, i beni pubblici, quei beni che appartengono a tutti e che sono insieme veicolo di identità, solidarietà e sviluppo. Insomma l’idea-forza era quella di un riscatto del sud, di un suo uscire di minorità e procedere in autonomia, un’idea che incontrava il bisogno diffuso dei meridionali di cambiare l’immagine negativa di se stessi e della propria terra, e di provare a definirne un’altra, nuova e positiva, capace di dare speranza e fiducia, di sapersi misurare con le sfide del tempo che viene.
È probabilmente qui, nell’intersezione tra un quadro teorico n...

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