Prefazione.
Paralleli e meridiani
Da quando Ăš comparso, nel gennaio del 1996, il Pensiero meridiano ha suscitato una molteplicitĂ di reazioni, dallâadesione incondizionata alla contrapposizione sospettosa, dalla richiesta di tradurne le categorie in indicazioni politiche concrete allo scetticismo ironico. Non sono mancate le semplificazioni dellâordito del discorso, e non sempre chi si Ăš proposto di analizzare le tesi del libro ha provato a confrontarsi con tutte le sue dimensioni1. Ă possibile che questa tendenza alla semplificazione sia dipesa anche dal fatto che lâautore, preso dalle tesi che stava proponendo, non si Ăš preoccupato di rendere espliciti, ritenendoli evidenti, i fili che connettevano la trama teorica di quel libro a quelli precedenti e al dibattito internazionale. Quellâassunto era probabilmente sbagliato. Ecco perchĂ© il principale scopo di questa Prefazione sarĂ quello di ricostruire lâintersezione di piani contenuta nel Pensiero meridiano, per permettere alla discussione di continuare su una base piĂč precisa.
Al sud e al pensiero meridiano, infatti, chi scrive non Ăš arrivato dal «noi», da unâimprovvisa passione identitaria, ma dalla categoria dellâ«altro», da una riflessione sul lato dâombra di ogni identitĂ . Insomma la spinta piĂč forte verso una rivendicazione del valore del sud Ăš venuta dalla ribellione alle sue rappresentazioni nella cultura dominante, al razzismo talvolta inavvertito di molte delle sue varianti, anche di quelle piĂč insospettabili e politicamente corrette. Di fronte alla sussiegosa ottusitĂ di tali rappresentazioni, ad un universalismo borioso e poco abituato ad essere contraddetto, la scelta del sud era un voler prendere prima ancora che le parti del proprio, quelle dellâaltro, una reazione teorica ad una figura rappresentata in modo cosĂŹ negativo e caricaturale da non poter essere vera.
Del resto tale approdo era coerente con tutto il percorso che precede il Pensiero meridiano, partito allâinizio degli anni ottanta dalla critica delle filosofie della storia e dallâinteresse per le dissonanze e per gli scarti, quella polvere che la ragione dominante nasconde sotto il tappeto per rimuovere la possibilitĂ stessa di altre forme di vita e di esperienza. Per chi scrive quel decennio Ăš stato, molto piĂč che lâelaborazione di un lutto, una febbrile stagione di letture e riflessioni in zone lontane dai percorsi piĂč battuti e dai recinti disciplinari, un giro del mondo da consigliare caldamente ai sedentari dellâintelletto, a coloro che non lasciano mai le loro cellette concettuali. Ho amato, giĂ alla fine degli anni settanta, il Philip Dick di La svastica sul sole2, di piĂč e molto prima di aver visto ed amato Blade Runner di Ridley Scott. In quel libro, divenuto un classico non solo della fantascienza, si ipotizzava, come Ăš noto, che la seconda guerra mondiale avesse avuto un esito rovesciato. Mi sembrava che Dick insegnasse come pochi a scoprire il rapporto ambiguo e complesso che noi abbiamo con la «verità ». Di qui anche, in controtendenza rispetto al bigottismo imperante, un particolare tipo di curiositĂ per il «revisionismo», lâattenzione per gli effetti che i rapporti di forza esercitano sulla struttura del campo culturale dominante.
I vincitori, del resto, sono sempre adornati da servizievoli intellettuali e quindi sanno bene come imporre le loro ragioni, come sottrarre lâimmagine ufficiale della storia a quellâambiguitĂ che lâattraversa in profonditĂ e che solo in rari momenti affiora in superficie. Questa sensibilitĂ era perĂČ diversa da quella che normalmente si accompagna allâaggettivo «revisionista», perchĂ© i perdenti sono molti di piĂč di quei pochi che stanno a cuore alle polemiche nostrane, sono tutti coloro che non hanno nessun avvocato, quelli di cui non si sa e non si parla, sono i «mussulmani» che, in modo indelebile, Primo Levi descrive in I sommersi e i salvati. Oggi sono in molti coloro che del revisionismo hanno fatto una carriera, mentre ciĂČ che esso, anni addietro, aveva di rispettabile e avvincente era proprio il suo andare contro corrente. Il «revisionismo» che oggi si sta affermando Ăš il contrario di quello che Ăš stato negli anni passati, Ăš lâadeguamento della storiografia e della cultura politica ai nuovi vincitori, ai rapporti di forza prodottisi dopo il crollo dellâUrss. Proprio per questa ragione la bandiera del «revisionismo» sta oggi passando in altre mani, anche se sono pochi coloro che se ne sono accorti.
Chi veniva da questo percorso al sud non arrivava quindi dalla rivendicazione di «una tradizione da ripristinare nella sua integrità », ma dalla diffidenza sistematica verso le maiuscole e gli inchini di fronte ad esse, dalla convinzione che nessuna identitĂ possa pretendere un rapporto privilegiato con la veritĂ , sentendosi autorizzata a colonizzare le altre. Al sud arrivava dalla decostruzione sistematica dellâarroganza, dalla consapevolezza della complessitĂ e dellâambivalenza del mondo, dalla convinzione che ogni discorso Ăš pieno di effetti perversi, ma anche di trucchi per occultarli3. A spingere verso il sud, molto prima e ancor piĂč del fatto di viverci, Ăš stata quindi lâattenzione costante per i punti «deboli» di ogni discorso «forte», la scelta di mantenere aperto e libero il mondo, la volontĂ di difendere la molteplicitĂ dei suoi versi contro la pretesa dei vincitori di chiuderlo nel loro uni-verso.
Ecco perchĂ© Ăš difficile intendere il Pensiero meridiano senza scorgere che in esso sâincrociano due dimensioni, quella della scissione e quella della mediazione. Da un lato il bisogno di un gesto di rottura e di rivendicazione dellâautonomia del sud, la lacerazione della falsa neutralitĂ ed universalitĂ della rappresentazione dominante, dallâaltro la difesa della molteplicitĂ e della varietĂ culturale, la convinzione che la ragione del futuro o sarĂ plurale o non sarĂ . Ognuno di questi gesti ha da imparare qualcosa dallâaltro: la rivendicazione di autonomia deve evitare la trappola del fondamentalismo identitario, la mediazione deve evitare di confondersi con la passiva registrazione dei rapporti di forza esistenti.
Oggi siamo di fronte ad un grande squilibrio, ad una formidabile dismisura, e ogni giorno scopriamo lâesistenza di abissi terribili tra le condizioni degli abitanti del pianeta. Una ricostruzione della misura, puĂČ venire, come câinsegna Pier Paolo Pasolini, solo da un grande scossone, da una forza capace di avviare il riequilibrio. Nella maggior parte dei casi le categorie di rottura e mediazione si escludono reciprocamente: lo sforzo che il libro tenta di fare Ăš quello di elaborare una forma di intersezione tra esse, capace di affrontare la complessitĂ del compito. Proveremo a ricostruire questo quadro illustrandone alcune dimensioni, che proporremo in modo distinto solo per comoditĂ analitica, perchĂ© in realtĂ funzionano e hanno un senso solo nella loro connessione.
1. Autonomia
Il primo passaggio essenziale del libro sta nella netta e radicale rivendicazione dellâautonomia del sud. Come recitava la quarta di copertina, il cuore del progetto Ăš quello di «restituire al sud lâantica dignitĂ di soggetto del pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso Ăš stato pensato solo da altri». Il sud non Ăš un non-ancora, non esiste solo nella prospettiva di diventare altro, di fuggire inorridito da sĂ© per imitare il nord venti o cento anni dopo, e quindi probabilmente mai. Il primo passo dellâautonomia sta proprio qui, nella comprensione che il futuro puĂČ non essere un inseguimento eternamente incompiuto ed eternamente fallimentare.
La mossa teorica principale Ăš quindi la rottura della gerarchia implicita in questo scarto temporale, un radicale rovesciamento di prospettiva: il sud come un punto di vista autonomo, non come non-ancora nord. Non Ăš un caso che una mossa simile venga proposta anche da Boaventura de Sousa Santos, che vede proprio nellâepistemologia del sud il cuore dellâutopia critica che anima il Forum Sociale Mondiale4. NĂ© Ăš un caso che Walter Mignolo imperni la sua Geopolitics of Knowledge5 intorno alla costituzione di un pensiero del confine (Border Thinking), lâunico capace di mettere a tema la «differenza coloniale», la discontinuitĂ di potere ed epistemologica tra il cuore settentrionale del pianeta e lâinsieme dei popoli delle periferie. Del resto questo gesto teorico Ăš simile a quello che dĂ inizio ai Subaltern Studies6: ogni autonomia nasce dalla relativizzazione o, per dirla con Chakrabarty, dalla provincializzazione dellâuniverso simbolico dominante7, dalla neutralizzazione della sua pretesa di centralitĂ ed unicitĂ . Un sud che riprende a pensarsi autonomamente, che rifiuta lâimitazione passiva, tardiva e impossibile del nord, capovolge del tutto la rappresentazione dominante. La prima mossa, quindi, Ăš quella che mira a scardinare la concezione del tempo sottesa a quella rappresentazione, che, riducendo ogni differenza alla categoria semplice dellâarretratezza, recide ogni pensiero che voglia fondare un campo teorico diverso.
Contemporanea a questa mutata concezione del tempo Ăš la trasformazione del rapporto con i luoghi, la messa a fuoco di un orizzonte contemporaneamente piĂč lontano e piĂč vicino rispetto a quello abituale. Nel pensiero meridiano si rivendica esplicitamente la connessione tra un sud, quello italiano, e i sud del mondo. Non per costruire equivoche identificazioni ed assimilazioni, ma soprattutto per contrastare la tendenza a pensare che lâemancipazione del sud italiano possa essere letta come una questione separata, chiusa nellâorizzonte dello stato nazionale o in quello continentale, insensibile alle connessioni con lâesterno e in primo luogo con la sponda sud del Mediterraneo.
Ogni idea del futuro del sud, del suo sviluppo, va coniugata con la specificitĂ della sua posizione geografica e della sua cultura. «La chiave â si diceva â sta nel riguardare i luoghi, nel duplice senso di aver riguardo per loro e di tornare a guardarli». Riguardare i luoghi significava in primo luogo riguardare la carta geografica, dilatare lo sguardo al di lĂ dei confini nazionali, scorgere connessioni nuove, nuovi vicini e nuovi lontani. Si trattava in altri termini di provare a dare piĂč respiro al modo in cui si discute del sud europeo e di quello italiano, tentando di collocarlo nellâambito del dibattito teorico internazionale. Ma riguardare i luoghi significava anche trasformare il rapporto cognitivo ed affettivo con essi. Nessuno sviluppo puĂČ avvenire sulla base del disprezzo dei luoghi, della loro vendita allâincanto, dagli stupri industriali della modernitĂ a quelli turistici della postmodernitĂ . Guardare i luoghi significa averne cura, riguardo, ricostruire, attraverso la pietas, i beni pubblici, quei beni che appartengono a tutti e che sono insieme veicolo di identitĂ , solidarietĂ e sviluppo. Insomma lâidea-forza era quella di un riscatto del sud, di un suo uscire di minoritĂ e procedere in autonomia, unâidea che incontrava il bisogno diffuso dei meridionali di cambiare lâimmagine negativa di se stessi e della propria terra, e di provare a definirne unâaltra, nuova e positiva, capace di dare speranza e fiducia, di sapersi misurare con le sfide del tempo che viene.
Ă probabilmente qui, nellâintersezione tra un quadro teorico n...