Il mondo contemporaneo
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Il mondo contemporaneo

Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto

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Il mondo contemporaneo

Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto

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Fra le molte periodizzazioni possibili per segnare il problematico termine a quo della storia contemporanea, questo manuale adotta l'ondata rivoluzionaria del 1848 – evento senza dubbio epocale a livello europeo, e avvertito come tale anche dai contemporanei – per raccogliere in un unico volume l'intera materia che comunemente viene ricompresa in questa disciplina. È una scelta che ha il vantaggio di includere in una trattazione organica problemi ed eventi imprescindibili per la comprensione del mondo contemporaneo, a cominciare da quelli relativi alla realizzazione dell'unità italiana. Questa nuova edizione si presenta ora in una forma decisamente rinnovata e accresciuta. La parte sul Novecento, in particolare, è stata ampliata e articolata in un maggior numero di capitoli di taglio essenzialmente tematico, per meglio dar conto delle trasformazioni degli ultimi decenni.

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Information

Year
2019
ISBN
9788858135730

1. Borghesia e classe operaia

1.1. I caratteri della borghesia

Le rivoluzioni del ’48-49 si erano concluse con un totale fallimento. Nessuno degli esperimenti democratici aveva retto all’urto dell’ondata restauratrice. I vecchi sovrani erano tornati sui loro troni dappertutto, salvo che in Francia (dove però l’istituto monarchico era stato ripristinato sotto altra forma). Le istituzioni rappresentative erano state quasi ovunque cancellate o soffocate dal ritorno dei metodi assolutistici. Al clima di generale conservatorismo e alla sostanziale staticità delle strutture politiche faceva però riscontro un processo di profondo mutamento della società: un processo che aveva per principali protagonisti i ceti borghesi, ma che coinvolgeva anche, sia pure più lentamente, le classi proletarie.
Tra il 1850 e il 1870 la borghesia europea conobbe una stagione di crescita e di affermazione. Nonostante fosse ancora condizionata dalla persistenza delle vecchie gerarchie sociali e fosse pesantemente sacrificata nella distribuzione del potere, la borghesia riuscì in questo periodo a presentarsi come portatrice e depositaria degli elementi di novità e trasformazione – lo sviluppo economico, il progresso scientifico –, a far valere la sua influenza e le sue idee-guida: il merito individuale, la libera iniziativa, la concorrenza, l’innovazione tecnica.
Le stratificazioni della borghesia
Chi erano i protagonisti di questa fase della storia europea, che non a torto è stata definita come «età della borghesia»? Allora come oggi il termine “borghesia” serviva a definire una gamma molto ampia di figure e posizioni sociali. Al vertice si collocavano i magnati dell’industria e della finanza, che aspiravano ad assumere gli stili di vita tipici dell’aristocrazia e, dove ciò fosse possibile, a mescolarsi con essa grazie soprattutto ad accorte politiche matrimoniali che univano i privilegi del denaro a quelli del lignaggio. Al di sotto si collocavano i gruppi e le categorie sociali che più propriamente si possono definire borghesi. Innanzitutto i ceti “emergenti”, la cui fortuna era legata allo sviluppo dell’industria e del commercio: imprenditori e dirigenti d’azienda, mercanti e banchieri. Accanto a loro, la borghesia più tradizionale: quella che traeva i suoi proventi dalla terra, quella che esercitava le professioni (avvocati, medici, ingegneri) e quella che occupava i gradi medio-alti della burocrazia statale. Un gradino più in basso si situavano impiegati e insegnanti, piccoli commercianti e piccoli professionisti: insomma quell’area dai confini non ben definiti che già allora veniva indicata come ceto medio o piccola borghesia. Nel complesso, la borghesia costituiva una fascia piuttosto ristretta della popolazione: in Gran Bretagna, intorno al 1870, i borghesi in senso lato non erano più del 20%; e la percentuale scendeva al 2% circa se si prendevano in considerazione solo gli strati urbani superiori (senza contare, dunque, il ceto medio e la borghesia agraria).
Lo stile borghese
Nonostante la varietà delle sue componenti, la borghesia europea tendeva a esprimere una propria cultura e un proprio stile di vita, i cui tratti essenziali si possono ricondurre a un modello unitario. Lo stile di vita borghese doveva essere visibile nei segni esteriori. Ad esempio, nell’abbigliamento, cui uomini e donne delle classi superiori dedicavano molta cura e che rappresentava, assai più di quanto accade oggi, il principale segno distintivo di una condizione sociale. Grandi cure erano destinate anche all’arredamento. Le abitazioni borghesi non avevano certo lo sfarzo né l’ampiezza dei palazzi aristocratici. Requisiti tipici della casa borghese erano piuttosto la solidità e la razionalità senza sprechi degli spazi e delle funzioni domestiche. All’interno, però, l’abbondanza degli addobbi, dei quadri e dei soprammobili, l’attenzione al particolare e il gusto della decorazione rivelavano l’esigenza di tradurre il successo e la ricchezza in simboli visibili e tangibili.
Accanto a questa esigenza – e nonostante l’adozione dei modelli aristocratici, presenti soprattutto negli strati superiori – i valori fondamentali dell’etica e della cultura borghese restavano quelli tradizionali. L’austerità, la moderazione, la propensione al risparmio, la capacità di reprimere gli istinti erano le virtù capitali per il borghese-tipo, quelle che gli permettevano di legittimare moralmente la propria posizione nella società. Questa componente moralistica si rifletteva in particolare nella struttura della famiglia: una struttura patriarcale basata sull’autorità del capofamiglia e sulla subordinazione della donna. Nella società borghese, la donna era generalmente esclusa dalle attività lavorative anche se aveva un ruolo decisivo nella sfera privata della tutela della famiglia e della cura dei figli.
Morale e rispettabilità
Come si giustificava l’intransigenza borghese in materia di morale familiare e sessuale? Proprio in quanto protagonista di un’ascesa sociale recente, priva di una consolidata accettazione, la borghesia doveva costruire e difendere un’immagine di rispettabilità (che non derivava, come per gli aristocratici, dall’appartenenza a un ordine privilegiato) e doveva quindi dotarsi di quei saldi princìpi morali che ne giustificavano la nuova posizione sociale.
In realtà, non tutti i borghesi praticavano scrupolosamente queste virtù: le cronache della borghesia ottocentesca pullulano di speculatori disonesti, di avventurieri senza scrupoli, di individui dalla doppia moralità. Ma l’idea secondo cui solo certe doti morali potevano garantire il mantenimento o il miglioramento delle posizioni acquisite era largamente accettata (e difesa spesso da una larga dose di ipocrisia).
La povertà come peccato
Ne discendeva la convinzione, ampiamente condivisa e ripetutamente enunciata, secondo cui chi occupava i gradini inferiori della scala sociale era colui che di quelle doti era sprovvisto. In altre parole, la povertà era un difetto morale o quanto meno il frutto di colpe ataviche. I poveri rimanevano poveri perché non conoscevano l’arte del risparmio e non erano in grado di dominare i loro bassi istinti. Così veniva spiegata, fra l’altro, la diffusione tra le classi subalterne della delinquenza, dell’alcolismo, della prostituzione. Al contrario, si pensava che chiunque possedesse accortezza, moderazione e capacità di sacrificio potesse raggiungere i traguardi più ambiziosi, in termini di ricchezza e di rispettabilità.

1.2. La cultura del positivismo

Ottimismo borghese e progresso scientifico
Profondamente convinto della validità dei suoi princìpi e fiducioso nelle proprie capacità, il borghese europeo della seconda metà dell’800 era anche animato da una illimitata certezza nel progresso generale dell’umanità. Questo diffuso ottimismo poggiava soprattutto su due pilastri: lo sviluppo economico [cfr. 1.3] e le conquiste della scienza. Negli anni 1850-70, la chimica, la fisica, la biologia e tutte le scienze della natura conobbero importanti progressi teorici e tornarono a occupare, come nell’età dell’Illuminismo, una posizione di preminenza nell’ambito della cultura europea.
Il positivismo
Sui progressi della scienza si fondò essenzialmente una nuova corrente intellettuale, il positivismo, che cominciò ad affermarsi verso la metà del secolo e venne poi allargando la sua influenza fino a contrassegnare una lunga stagione della cultura occidentale e diventare una sorta di mentalità diffusa, un metodo generale di ricerca e di interpretazione della realtà. Il positivismo fu prima di tutto un indirizzo filosofico che considerava la conoscenza scientifica – quella basata su dati “positivi”, cioè reali, oggettivi – come l’unica valida e applicava i metodi delle scienze naturali a tutti i campi dell’attività umana, dall’arte all’economia, dalla psicologia alla politica.
Il pensatore francese Auguste Comte (1798-1857) fu il fondatore della nuova filosofia e il primo a tracciare i lineamenti di una “scienza della società”, ossia della moderna sociologia. In seguito il filosofo inglese Herbert Spencer (1820-1903) ne elaborò un’interpretazione in chiave evoluzionistica, fondata sulla convinzione che mondo sociale e mondo biologico obbedissero a leggi analoghe, che trovò largo seguito soprattutto nel mondo anglosassone. Dal settore degli studi filosofici il positivismo venne allargando la sua influenza a tutti gli altri campi del sapere. Fra i maggiori esponenti della cultura positivista si annoveravano infatti studiosi di economia e di politica, giuristi, storici, letterati e soprattutto scienziati.
Darwin. Una nuova storia del genere umano
Il rappresentante più significativo e più noto del nuovo spirito “positivo” fu appunto uno scienziato: il grande naturalista inglese Charles Darwin (1809-1882). In un’opera dal titolo L’origine delle specie, uscita nel 1859 e diventata subito celebre, Darwin formulò, sulla base di lunghe osservazioni scientifiche sul mondo animale, una compiuta teoria dell’evoluzione, destinata a divenire pietra miliare degli studi biologici successivi. Secondo questa teoria, la natura è soggetta a un incessante processo evolutivo, guidato da un meccanismo di selezione naturale che determina la sopravvivenza (e la riproduzione) degli individui meglio attrezzati per reagire alle sollecitazioni dell’ambiente e la scomparsa degli elementi meno adatti. L’uomo stesso, secondo Darwin, non è che il risultato dell’evoluzione di organismi più elementari, l’ultimo anello di una catena biologica che procede dai protozoi fino ai mammiferi più complessi. La teoria evoluzionistica contraddiceva le credenze religiose sulla creazione dell’uomo direttamente ad opera della divinità e forniva gli elementi per una storia del genere umano radicalmente alternativa a quella offerta dalle Sacre Scritture. In questo modo il darwinismo si inseriva nel quadro più generale della cultura “positiva”, che tendeva a liberare l’uomo da ogni forma di condizionamento soprannaturale, a immergerlo completamente nel mondo della natura, a sostituire le certezze delle religioni rivelate con quelle delle scienze esatte.
Il darwinismo soci...

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