Medio Oriente
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Medio Oriente

Una storia dal 1918 al 1991

Marcella Emiliani

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Medio Oriente

Una storia dal 1918 al 1991

Marcella Emiliani

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Dai tentativi riformistici dell'Impero ottomano alla fine dell'Ottocento al moltiplicarsi dei conflitti nel Novecento, primo fra tutti quello arabo-israeliano-palestinese; dall'imporsi di ideologie laiche del riscatto alla deriva islamista radicale; dalla rincorsa di uno sviluppo ritagliato sul modello occidentale all'evidente povertà e alle diseguaglianze diffuse: Marcella Emiliani ripercorre le tappe fondamentali della storia di una delle regioni più importanti per gli equilibri internazionali del pianeta, ricca della maggior parte delle riserve mondiali di greggio e di gas. Quanto basta per minare la stabilità dell'area e farla oggetto di desideri e vittima di interferenze delle potenze di ieri e di oggi.

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Information

Year
2012
ISBN
9788858104170

1. Riformarsi o morire:
il dilemma dell’Impero ottomano
alle prese con la modernità europea

1. Capire le rivoluzioni europee

L’Impero ottomano si è dovuto confrontare con la modernità occidentale allo scoppio della Rivoluzione francese del 1789. A quei tempi la conoscenza che si aveva ad Istanbul delle vicende europee era assolutamente incompleta, frammentaria e ancora condizionata dalla memoria negativa che le popolazioni arabe si tramandavano in merito alle Crociate. Dall’Europa però, e ormai da oltre un secolo, arrivavano minacce militari che rappresentavano il peggior spauracchio per la Sublime porta. La prima percezione dei fatti francesi portò i funzionari imperiali a definire la rivoluzione come fitna, cioè quello stato di latente o conclamata guerra civile che per i mussulmani rappresenta il peggior pericolo per la umma. La fitna, insomma, nella tradizione islamica è una sfida all’ordine esistente, ma pur percependo un pericolo ancora in gran parte sconosciuto, il sultano intuì l’importanza di quanto stava succedendo a Parigi e decise di andare a fondo del fenomeno.
Dopo una serie di missioni esplorative, i grandi studiosi di corte analizzarono i tre imperativi chiave della Rivoluzione francese, «Uguaglianza», «Fraternità» e «Libertà», per trovarne la corrispondenza nella tradizione islamica. Non rimasero impressionati né dall’uguaglianza né dalla fraternità che a loro giudizio erano già patrimonio dell’Islam: di fronte alla legge divina tutti i fedeli sono uguali e fratelli. Quello che li inquietava era invece il concetto di libertà. Nell’Impero ottomano si aveva un concetto legale di libertà, contrapposto allo stato di schiavitù o di tirannide, ma non esisteva il concetto di libertà individuale basato su diritti naturali, e soprattutto non esisteva sganciato dal contesto religioso. Era, infatti, la laicità il carattere della Rivoluzione che stupiva e assieme impensieriva l’Impero. A Istanbul si sapeva fin troppo bene che i francesi erano cristiani: come era possibile allora che dei credenti arrivassero a concepire un sistema di valori non più iscritto nella religione? In questo «vuoto» di significati che, ai loro occhi, era la laicità, come bisognava interpretare un altro concetto incomprensibile, quello dei diritti naturali, e come poteva diventare la fonte ispiratrice di leggi e precetti legali? Nell’Impero ottomano i sudditi erano concepiti come un insieme, un gregge (il termine per indicarli era ra’aya, gregge appunto) senza un volto e senza diritti che non emanassero dalla benevolenza del sovrano, guida e protettore del suo popolo.
Il sistema di valori nuovi che arrivava dalla Francia non sarebbe stato così importante per la Sublime porta se dall’Europa non fosse venuta un’altra sollecitazione minacciosa, quella del progresso tecnologico che si poteva misurare nei sistemi d’arma con cui l’esercito imperiale era costretto a confrontarsi con sempre maggior frequenza. Se fino all’inizio del XVII secolo nella maggioranza dei casi era stata la Sublime porta ad attaccare l’Europa e a sconfiggere gli «infedeli», dal fallito assedio di Vienna del 1683 le truppe del sultano avevano cominciato a sperimentare cocenti sconfitte e, soprattutto, dalla pace di Karlowitz (oggi Sremski Karlovci in Serbia) del 1699, l’Impero aveva cominciato a perdere territori che andarono alle potenze coalizzate nella Lega Santa: alla Repubblica di Venezia la Morea, la Dalmazia, Santa Maura ed Egina; alla Confederazione polacco-lituana la Podolia e Kamenec; alla Moscovia di Pietro il Grande Azov, e soprattutto Ungheria, Transilvania, Croazia e Slavonia all’Impero asburgico che praticamente sottraeva al controllo ottomano la quasi totalità della regione settentrionale dei Balcani. La dimensione delle perdite territoriali, che peraltro consegnavano al controllo di potenze cristiane popolazioni mussulmane, convinse la Sublime porta della necessità di capire e carpire la chiave del successo europeo per consentire all’Impero ottomano di affrontarlo sul suo stesso piano.
Il progresso si manifestava non solo in un sistema di valori che diventava politico, ma anche nella rivoluzione industriale che arrivava nelle province ottomane attraverso il commercio di import-export favorito dalle Capitolazioni, cioè da quei permessi di libero commercio nell’Impero che i sultani, a partire da Solimano il Magnifico nel XVI secolo, avevano via via concesso alle potenze europee, dalla Francia alla Gran Bretagna, dall’Austria alla Russia, senza scordare le città marinare italiane, Genova e Venezia. Nelle clausole delle Capitolazioni era previsto che, qualora compissero reati, i sudditi o cittadini delle potenze europee venissero giudicati dai tribunali e secondo le leggi del proprio paese d’origine. Le Capitolazioni erano state nei secoli il principale strumento di contatto tra la Sublime porta e l’Europa e, a loro modo, anche uno strumento di modernizzazione dell’economia attraverso lo scambio di merci e manufatti, ma sempre in chiave limitata. È in questo quadro che, all’interno dell’Impero ottomano, venne promosso un processo riformistico che aveva lo scopo dichiarato di afferrare il significato, i meccanismi, i segreti della modernità europea, partendo da un assunto non dimostrato, cioè che questo processo di modernizzazione sia politica che economica potesse essere assimilato gradualmente e senza stravolgere la cultura e la stabilità dell’Impero stesso. Ad Istanbul ci si illuse quindi di poter scegliere tra le meraviglie del progresso europeo quelle più adatte all’Impero ottomano, confidando che avrebbero contribuito a rilanciarlo come grande potenza internazionale. L’intero processo è stato definito da diversi studiosi come «modernizzazione difensiva» proprio per sottolineare l’intenzione, o meglio l’illusione, di poterla tenere sotto controllo senza stravolgere in senso rivoluzionario l’identità e le istituzioni ottomane.
Pur nutrendo timori, nessuno a corte poteva prevedere gli eventuali contraccolpi ed effetti negativi che l’importazione della modernità avrebbe avuto nell’Impero né tantomeno era in grado di riflettere su due aspetti importantissimi che connotavano le trasformazioni politiche, economiche e sociali che l’Europa stava conoscendo dalla fine del XVII secolo e di cui la Rivoluzione francese era uno degli esiti principali. Quello che non veniva percepito dalla corte ottomana era che il processo di modernizzazione aveva comportato e comportava (anche e soprattutto) una riconfigurazione dello spazio politico e dei rapporti di potere determinati in via teorica dalla costituzione della sovranità rappresentativa (del monarca o popolare che fosse) e dall’affermazione dei diritti individuali. Diritti individuali che si erano prodotti storicamente con l’ascesa al potere di nuove classi (la borghesia in primis), il conseguente ridimensionamento del potere degli antichi ceti nobiliari, il necessario coinvolgimento nei nuovi processi sociali e politici di larghi strati della popolazione, la cui presenza era necessaria per produrre sia quella nuova forma di lavoro di cui la rivoluzione industriale aveva bisogno sia per creare il corpo di quel nuovo soggetto politico, la nazione (un corpo di individui tutti liberi, uguali e dotati degli stessi diritti) che, con la sua apparizione, aveva acceso la miccia della Rivoluzione francese.

2. La riforma delle forze armate

Il fattore tempo giocò un ruolo molto importante in questo confronto dell’Impero ottomano con la modernità. Quello che preoccupava maggiormente il sultano erano le sconfitte militari che andava collezionando soprattutto con l’Impero zarista, che gli sottraeva uno dopo l’altro territori. Bisognava, dunque, affrettarsi a modernizzare innanzitutto il sistema difensivo, vale a dire l’esercito. Le prime riforme nell’arco di tempo che va dal 1789 al 1826 investirono quindi le forze armate con la creazione di un corpo militare del tutto nuovo (Nizam-i Cedid), ottenuto con la leva obbligatoria, finanziato con nuove tasse ed equipaggiato con armi e istruttori europei. I nizam erano un vero e proprio corpo professionale che non godeva però dei privilegi e dell’impunità garantita ai giannizzeri, che fino a quel momento avevano rappresentato il nerbo dell’esercito ottomano. Non meraviglia, dunque, che i giannizzeri cominciassero a fomentare una serie di rivolte che dal 1805 al 1807 coinvolsero anche le sonnolenti campagne, trasformandosi in un elemento di grande anarchia interna. Parallelamente continuavano a dimostrare la loro inefficienza in guerra, risultando incapaci anche di reprimere le sempre più frequenti rivolte tra i popoli dei Balcani, a cominciare da quella dei serbi nel 1804 che per tutto l’Ottocento alimenterà una serie di guerre russo-ottomane.
Nel XIX secolo, d’altronde, le varie potenze europee titolari delle Capitolazioni erano già riuscite ad ottenere dall’Impero anche il diritto di proteggere le comunità non mussulmane in territorio ottomano, con la Russia che si proclamò paladina dei cristiani ortodossi, la Francia e l’Impero austro-ungarico dei cattolici, la Gran Bretagna dei protestanti e degli ebrei. Detto in altre parole, le Capitolazioni diventarono un vero e proprio strumento di ingerenza delle potenze europee negli affari interni dell’Impero ottomano, accelerandone la disgregazione e il declino. La controparte locale delle Capitolazioni era infatti rappresentata dai millet, cioè dalle comunità cristiane ed ebree che avevano diritto a professare la propria religione dietro pagamento di una tassa ad hoc e avevano anche la possibilità di nominare i propri rappresentanti presso la Sublime porta, fermo restando che i candidati dovevano essere graditi alle autorità imperiali. I millet erano naturalmente i principali interlocutori dei mercanti europei e, tramite loro, finirono per essere inseriti nel processo di globalizzazione mercantile avviato dalle potenze europee nel XIX secolo attraverso l’espansione commerciale, prima, e le conquiste militari, poi, in Africa, Asia e nelle province periferiche dell’Impero ottomano stesso. È importante sottolineare che il grado di relativa autonomia dei millet, la loro pratica di autoconsultazione per arrivare a esprimere i propri rappresentanti e i contatti sempre più frequenti e organici con i mercanti e i rappresentanti delle potenze europee posero le comunità cristiane ed ebraiche in posizione di privilegio rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione mussulmana, in una fase cruciale come quella dell’avvio del processo riformistico dell’Impero ottomano ispirato ai modelli occidentali. Non meraviglia, dunque, che si trasmettessero dalle Capitolazioni ai millet anche quelle idee nuove che caratterizzavano la modernità europea, prima fra tutte quelle di «nazione» e di «nazionalismo»; e che siano state proprio le province in cui maggiore era la presenza delle comunità cristiane a ribellarsi per prime all’autorità del sultano.
Parliamo dei Balcani e della Grecia. Fu anzi l’inizio della rivolta greca nel 1821 a dare lo spunto al sultano per risolvere il problema rappresentato dai giannizzeri, che ancora una volta non si dimostravano in grado di reprimerla con efficacia. Il sultano dapprima tentò di imporre i propri uomini alla testa del più vecchio corpo di armata ottomano, ma incapace di controllare l’anarchia dei giannizzeri stessi arrivò a ordinarne il massacro nel 1826 poiché «corpo disorganizzato, infiltrato da spie per fomentare il disordine».
La prima fase del processo riformistico nell’Impero ottomano tenta, come abbiamo visto, di affiancare vecchie e nuove istituzioni sperando così di arrivare ad armonizzarle, ma proprio la reazione violenta dei giannizzeri dimostrò al sultano che questo non era sempre possibile. L’esigenza primaria della Sublime porta rimaneva il potenziamento della capacità difensiva dell’Impero e il massacro dei giannizzeri venne cinicamente compiuto nel nome della sicurezza interna ed esterna, ma ebbe anche tre conseguenze importantissime per quello che sarebbe stato il futuro Medio Oriente: il primo esperimento di modernizzazione finì in un bagno di sangue, cosa che contribuì a rendere l’idea stessa di modernità minacciosa in sé e tanto più quanto veniva importata dall’esterno ed era in gran parte sconosciuta alla maggioranza della popolazione. In secondo luogo, i principali ricettori delle riforme e quelli che ne capirono per primi le potenzialità, imparando a sfruttarle a proprio favore, furono proprio i militari avviati a dominare la politica e la storia del secolo lungo del Medio Oriente. Terzo: fin dagli inizi del processo riformistico, proprio perché le sue conseguenze si dimostravano così ingovernabili, si andò rafforzando una tendenza che era in sé la negazione stessa del processo moderno delle riforme, cioè la loro imposizione solo forzata e solo dall’alto.

3. Tanzimat

La fase più importante delle riforme dell’Impero ottomano comprende il cinquantennio che va dal 1826 al 1876 e prende il nome di Tanzimat-i khayriyye, cioè le leggi benefiche. È in questa fase che si completa in senso professionale la riforma degli apparati militari, si procede alla riforma della burocrazia, dell’istruzione (con la creazione di scuole pubbliche laiche) e si centralizza lo Stato sul modello francese per tentar di tenere sotto controllo le spinte centrifughe delle province. Gli amministratori provinciali e gli esattori delle imposte ora vengono nominati e pagati direttamente da Istanbul. A livello locale e provinciale vengono creati consigli consultivi, viene introdotta la proprietà privata della terra e completamente riformato in senso laico il sistema dei millet che non vengono più guidati dalle alte sfere del clero, sia esso cattolico, ortodosso o ebraico, ma sottoposto alla giurisdizione delle nuove autorità provinciali. Detto in altre parole, i millet vengono eliminati per porre cristiani ed ebrei sullo stesso piano dei mussulmani perché lo scopo delle Tanzimat era di arrivare a creare il «cittadino ottomano» uguale di fronte alla legge senza distinzione di razza, religione ed etnia. Dobbiamo qui sottolineare due fenomeni molto importanti che sottostanno alla creazione del cittadino ottomano: da una parte la stragrande maggioranza della popolazione mussulmana non gradì l’equiparazione con quelli che fino al giorno prima considerava sudditi di seconda categoria, i cristiani e gli ebrei, che certamente tollerava in quanto «gente del Libro», cioè il cui credo afferiva come il Corano alla Bibbia, ma che ora godeva ai suoi occhi di privilegi rispetto alla maggioranza islamica, privilegi rappresentati dal contatto diretto con le potenze occidentali attraverso le Capitolazioni e l’inserimento nel processo di globalizzazione economica promossa dalle stesse potenze europee; dall’altra parte le comunità cristiane ed ebree percepirono l’eliminazione dei millet come una minaccia, non sentendosi più tutelate dalle vecchie leggi che ne garantivano l’autonomia, e tesero quindi a dar vita a un separatismo sempre più accentuato su basi etniche e religiose confidando sull’appoggio e la protezione delle potenze europee.
Più in generale il riformismo, che doveva preservare il sistema ottomano, in realtà mise in moto processi incontrollabili e approfondì ancora di più la distanza tra una nuova élite occidentalizzata e la massa. Spesso lo si è dipinto come un fallimento totale: in realtà l’intera operazione Tanzimat può essere considerata come una prova della vitalità dell’Impero, il cui esito purtroppo non fu adeguato alle aspettative che l’avevano messa in moto. A frenare lo slancio riformistico contribuirono peraltro diversi fattori: innanzitutto l’imposizione dall’alto di ogni nuovo provvedimento; il numero limitato di funzionari e burocrati adeguatamente formati e in grado di tradurli in pratica nel pieno rispetto dello spirito nuovo; la sopravvivenza del vecchio accanto al nuovo, ossia l’impossibilità di eliminare totalmente le vecchie istituzioni – come era stato fatto per il corpo dei giannizzeri – che continuavano a operare nel tessuto vivo della società; e, infine, quella che potremmo definire la vera trama dell’ordito sociale, cioè il rapporto patron-client che legava vecchi e nuovi funzionari o notabili alla popolazione. Alle nostre latitudini lo chiamiamo clientelismo, ma il significato è lo stesso e in genere si accompagna ad un tasso elevato di corruzione. Aspetto non certo secondario, lo sforzo di modernizzazione prosciugò totalmente le casse del Tesoro imperiale che nel 1875 dichiarò bancarotta, consegnando il controllo delle finanze alle potenze europee, le quali imposero al sultano l’emanazione della prima Costituzione dell’Impero ottomano nel 1876. Le stesse potenze europee, d’altronde, non volevano dare il colpo di grazia al «vecchio malato», come veniva definito l’Impero stesso dalle cancellerie d’Europa; la cosa avrebbe infatti scatenato una lotta intra-europea che nessuno nella seconda metà dell’Ottocento voleva, dal momento che le varie potenze erano impegnate ad espandersi in altri continenti (in fondo la cosiddetta «Questione d’Oriente» si riassumeva in questo dilemma). Ciò non significa che le potenze europee non mettessero le mani sui territori ottomani ogni volta che se ne presentasse l’occasione. Fin dalla spedizione di Napoleone in Egitto nel 1798, avevano cominciato infatti a conquistare in armi le province ottomane più periferiche: nel 1830 la Francia aveva iniziato l’occupazione dell’odierna Algeria, nel 1881 aveva acquisito come protettorato la Tunisia e nel 1912 sempre come protettorato il Marocco, che peraltro non aveva mai fatto parte dell’Impero ottomano. Già nel 1911 e...

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