Storia del conflitto israelo-palestinese
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Storia del conflitto israelo-palestinese

Claudio Vercelli

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Storia del conflitto israelo-palestinese

Claudio Vercelli

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«Il conflitto tra israeliani e palestinesi in questi ultimi anni è di nuovo andato avvitandosi su di sé, dopo gli spiragli degli anni Novanta. Delle speranze trascorse rimane ben poco mentre delle antiche diffidenze tutto sembra essere stato riconfermato. Alla radice rimane il mancato riconoscimento reciproco, la tragica finzione per cui, affinché l'uno possa esistere, l'altro debba scomparire una volta per sempre». Una terra, due popoli, ma non ancora due Stati.

Claudio Vercelli affronta, attraverso un'analisi dell'evoluzione del confronto tra arabi ed ebrei, dalla seconda metà del XIX secolo agli sviluppi più recenti (dalla guerra civile in Siria alla crisi parlamentare in Israele), gli elementi prioritari così come i nodi problematici che sono a tutt'oggi sul tavolo della discussione: le identità nazionali, le risorse materiali e simboliche, la demografia, il ruolo delle religioni.

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Information

Year
2020
ISBN
9788858142639

1.
Le origini del conflitto
(1800-1914)

1.1. Una terra dai confini incerti

La comprensione della natura del conflitto israelo-palestinese, così come del suo perdurare nel corso del tempo, richiede una indagine a tutto campo che non si limiti solo ai dati della cronaca ma che riesca ad identificare quegli elementi di lungo periodo che ne hanno costituito l’ossatura nel passato, determinando il suo reiterarsi nel presente. Precedentemente alla forma-Stato, così come essa è andata affermandosi anche in area mediorientale nell’età contemporanea, i territori che verranno poi meglio conosciuti come «Palestina»1 erano parte di un più generale ordinamento, l’Impero ottomano. Come tali, essi non costituivano una unità geopolitica a sé stante né una società autonoma e ancor meno una comunità politica indipendente. Per circa quattrocento anni, dal 1517, anno in cui fu sottratta ai mamelucchi, agli inizi del Novecento, la regione visse all’ombra di Istanbul, all’interno di una ecumene imperiale. In linea generale l’Impero ottomano, pur con discontinuità nel corso del tempo, si caratterizzò per l’atteggiamento sostanzialmente indifferente dei suoi gruppi dirigenti verso la vita quotidiana dei sudditi. Ciò garantiva il buon grado di autonomia di questi ultimi a fronte del rispetto di alcuni obblighi, in particolare del pagamento dei tributi, e di una fedeltà di principio alle istituzioni centrali. Non di meno, a volere rimarcare le differenze, in un Impero dove le élites avevano una cultura e una lingua diverse da quelle delle popolazioni, scarsi erano stati i tentativi di raggiungere una qualche uniformità culturale tra le comunità, mantenendo così l’elemento della diversità e non cercando di imporre un sistema unificato d’istruzione. Peraltro il sistema di comunicazioni era di per sé così fragile da far sì che la capitale dovesse delegare ai gruppi dirigenti locali non solo la rappresentanza ma parte consistente del potere decisionale.
La Palestina della prima metà dell’Ottocento, l’età della modernizzazione europea e mediterranea, era ancora un lembo di territorio pressoché sconosciuto ai più. A metà di quel secolo ci viveva circa mezzo milione di individui. La maggior parte di essi era di religione musulmana e di lingua araba, mentre circa 60 mila erano gli appartenenti alle diverse confessioni cristiane, 20 mila gli ebrei insieme a un numero variabile di militari e funzionari ottomani e a 10 mila europei. L’unità amministrativa nella quale l’Impero aveva ripartito il territorio era il sangiaccato. L’area geografica che stava per diventare la moderna Palestina era suddivisa in tre sangiaccati, rispettivamente quelli di Nablus, Akko e Gerusalemme. A questa divisione amministrativa corrispondeva anche l’articolazione politica elementare della Sublime Porta2, ovvero l’unità di base alla quale il funzionariato imperiale, così come le élites dirigenti territoriali, facevano riferimento. Dal 1840, anno in cui rientrarono in possesso della Palestina, dopo un breve periodo di dominio egiziano, gli ottomani si sforzarono di modernizzare la gestione dei territori. Al di là degli intenti sinceramente riformistici, l’obiettivo politico più importante era quello di riuscire a tenere sotto controllo i due più importanti centri amministrativi dell’area, Beirut e Damasco. Nel gioco dei ruoli e delle pressioni che andò così determinandosi, si pervenne ben presto alla limitazione del potere di Damasco, consentendo a Beirut di condividere la gestione della Palestina. I sangiaccati di Nablus (comprendente Nazareth e Safed) e di Akko (che includeva Haifa) furono quindi annessi al nuovo vilayet («regione», anche se le accezioni sono molteplici, in questo caso indicando una unità amministrativa controllata da un governatore) di Sidone, con capitale Beirut. Damasco continuò invece ad esercitare il suo potere su Gerusalemme (con giurisdizione su Giaffa, Beersheva, Hebron e Gaza). In questo quadro risale al 1872 la creazione del sangiaccato indipendente di Gerusalemme. Benché sussistesse ora una divisione tra un nord, governato da Beirut, e un sud, dipendente da Damasco, questa separazione, invece che giocare contro i destini dei territori che ne erano parte, favorì nel suo complesso la definizione di una maggiore unitarietà della zona, facendone un ambito sempre meno periferico. Il settentrione e il meridione palestinesi avrebbero poi conosciuto l’unificazione a partire dal 1918, con la definitiva cessazione dell’esperienza ottomana e il sostituirsi ad essa del mandato britannico.
La popolazione dei territori palestinesi conduceva perlopiù una esistenza autonoma, ossia estranea all’attività politica ufficiale del sangiaccato. Si trattava, per più aspetti, di una società priva di coinvolgimento politico, nella quale la quasi totalità dei suoi componenti era avulsa sia dai processi decisionali che, soprattutto, dalle questioni di potere. Gli uni e le altre, però, ricadevano inesorabilmente sull’esistenza dei più. In questo contesto, laddove la storia sembrava non essere ancora passata, quasi l’80% degli abitanti viveva nelle zone rurali, dedicandosi all’agricoltura e risiedendo, di solito, in piccoli villaggi, di preferenza assiepati nelle ampie zone collinari dell’entroterra. Sistemarsi nella piana costiera o nei bassopiani orientali avrebbe invece messo i contadini alla mercé dei beduini predatori. Il tasso di mortalità era elevato, a causa soprattutto delle precarie condizioni igieniche e abitative.
Vita e morte erano determinate più dalla salute e dalla natura che da cause politiche o economiche. La mortalità elevata, tanto infantile quanto tra gli adulti, era dovuta alle cattive condizioni di salute della popolazione. I primi meccanismi di difesa da questa situazione erano religione e tradizione. «Religione» e «tradizione» sono termini che in questo contesto possono trarre in inganno. Alcuni di questi «meccanismi di difesa» erano in realtà antiche pratiche spirituali che avevano poco a che spartire con le tradizioni religiose accolte dal clero islamico, cristiano o ebraico. Mondo spirituale, tessuto religioso e costumi abitativi erano pertanto le basi del ciclo di vita in Palestina. La profonda credenza nel soprannaturale riparava in qualche modo da malattie e calamità3.
Per la collettività locale il referente diretto, nonché il vero metro di misura dei rapporti di forza, era costituito dal clan di appartenenza, detto hamula, che in genere raccoglieva al suo interno più famiglie. L’articolazione del clan, che poteva variare di dimensioni (raccogliendo una parte, per intero o al contempo più villaggi, anche se in prevalenza ogni comunità rurale era composta da 4 o 5 gruppi di tal genere), e la sua estensione – in quanto forma elementare di identificazione in un gruppo – a tutto il territorio, costruivano, filtrandoli e ritessendoli permanentemente, la ragnatela dei rapporti interpersonali. La fedeltà a questa unità di base era insostituibile e costituiva l’unica reale esperienza sociale e politica degli abitanti del luogo. Il punto di forza del clan era il controllo dei lotti in cui era divisa la terra coltivabile, sui quali esercitava un possesso temporaneo (non costituente titolo di proprietà permanente) che dava diritto al loro utilizzo, in genere per un biennio. A tale articolazione si sovrapponeva, come una griglia, la sottounità amministrativa del sangiaccato, denominata nahiya. Ogni sottounità amministrativa si componeva di un gruppo di villaggi; ognuno di essi era controllato da uno shaikh, lo «sceicco», vocabolo che indica l’«anziano» ma anche il «capo» (di tribù o villaggio), ovvero il leader del clan dominante. Come tale, in quanto appartenente egli stesso al gruppo, non era un uomo di per sé ricco ma una sorta di primo tra i pari. Ciò gli permetteva di assumere un ruolo istituzionale che era fatto valere non solo nei rapporti all’interno della comunità, avendo frequentemente la funzione di arbitro dei conflitti, ma anche e soprattutto all’esterno, laddove era l’interlocutore obbligato per quanti volessero interagire con il gruppo su cui esercitava la leadership. La vita comunitaria, che si svolgeva seguendo ritmi e abitudini radicate, era fondata sul sistema di coltivazione denominato musha’, un metodo di trattamento delle terre collettive basato sulla rotazione, tra gli abitanti del villaggio, degli appezzamenti in modo che, a turno, tutti potessero godere dei benefici dei lotti più fertili.
Con le riforme amministrative introdotte nella seconda metà dell’Ottocento dagli ottomani, molti degli sceicchi scomparirono dalla scena locale. Già negli anni precedenti una accesa lotta si era peraltro innescata tra questi capi rurali e il notabilato urbano (a’ayan). I notabili di città iniziarono progressivamente a sostituire i capi rurali nel ruolo di forza sociale dominante, riconoscendosi nella nuova configurazione amministrativa dei territori voluta dagli ottomani. In tale veste svolgevano infatti il ruolo di rappresentanti del potere centrale ma anche e soprattutto di mediatori con le società locali, frequentemente in qualità di funzionari retribuiti dalle finanze imperiali. In età contemporanea si verificò ben presto, quindi, la prevalenza di quella che è poi stata conosciuta come la «politica dei notabili» urbani, «espressione che connota l’abilità con la quale certe famiglie del mondo arabo sapevano perpetuare la propria posizione di preminenza in seno all’élite sociale urbana»4. I riformatori ottomani ne avevano bisogno affinché l’applicazione della loro politica andasse a buon fine. Per guadagnare – e mantenere – la fiducia di Istanbul occorreva sia un capitale consolidato di relazioni con il tessuto sociale locale sia la capacità di alimentare il proprio status nei rapporti con il potere centrale. L’agire del notabilato, che come ogni forma di potere territoriale doveva raccogliere almeno parte del consenso popolare nonché distribuire delle risorse, si basava sul ricorso alla moderazione e alla negoziazione, in una sorta di equilibrio statico. Non di meno, la popolazione necessitava di quanti potessero fare da filtro protettivo contro la tassazione e l’arruolamento, due fattori che incidevano enormemente nella vita delle società locali. In buona sostanza, il progressivo affermarsi del predominio dei notabili comportò l’accentuazione del processo di urbanizzazione poiché le campagne iniziarono a perdere la centralità di cui fino ad allora avevano goduto a favore dell’affermarsi delle città come perno dell’attività economica e politica.

1.2. L’evoluzione sociale ed economica della comunità araba

La vita rurale era fortemente collegata a quella urbana poiché era nelle città che l’eccedenza dei prodotti agricoli veniva commerciata. Di fatto questo rapporto, che vincolava ruralità e urbanità in una sorta di reciprocità economica, si elise progressivamente solo con l’ingresso della Palestina ottomana nel circuito economico globale, nella seconda metà dell’Ottocento. Il notabilato urbano condivideva la scena con i mercanti, la declinante leadership rurale degli sceicchi, un gran numero di contadini perlopiù poveri (fellahim) e i beduini, dediti a un nomadismo che andò poi scemando con la loro sedentarizzazione forzata, operata dagli ottomani. Mentre i nomadi, che costituivano il nucleo propulsivo del commercio tra villaggi rurali e città, vendendo ad esse materie prime e comprandone i manufatti, erano stanziati nella maggior parte dei casi nel deserto del Negev e in alcune aree della Galilea, i fellahim, quantitativamente il gruppo sociale più numeroso in quegli anni, erano tra quanti sentivano come più importante il legame con la terra che coltivavano ogni giorno. Tuttavia, la precarietà era una costante della loro esistenza, poiché la proprietà era frequentemente nelle mani dei grandi latifondisti che esercitavano su di essa e, di fatto, su quanti la lavoravano, una signoria assoluta. Il sistema della redistribuzione periodica degli appezzamenti da coltivare tra gli abitanti del villaggio, se da un lato garantiva la rotazione nell’utilizzo delle terre dall’altro rendeva i fellahim estremamente deboli dinanzi alle onerose pretese dei proprietari fondiari.
Si è già detto che la leadership politica e amministrativa era riservata ai notabili, di fatto un’élite urbana organizzata in grandi famiglie, perlopiù in possesso di estesi latifondi. Le più importanti tra di esse erano gli Husseini5, i Nashashibi6, gli Alidi e i Nusseibeh. La prerogativa del notabilato musulmano era quella di poter vantare un lignaggio che faceva ascendere le origini della famiglia ai primi anni dell’Islam, come nel caso per l’appunto degli Husseini. Un tale albero genealogico costituiva il fattore legittimante rispetto alla comunità di riferimento, ribadendo una indiscussa prevalenza su di essa, soprattutto nell’esercizio dei diritti legati alla primazia politica. Non di meno un altro elemento importante nell’universo notabilare era l’intrattenere rapporti privilegiati con il potere politico-amministrativo ottomano, potendo contare su una elevata disponibilità di capitali. Era il caso, tra gli altri, dei Nashashibi. Frequentemente, però, lignaggio e denaro si confondevano nelle stesse persone. Per la quasi totalità del periodo ottomano, e poi britannico, questi gruppi familiari costituirono quindi le élites dirigenti, la cui volontà si imponeva sulle terre che controllavano e, di immediato riflesso, su quanti vivevano in esse. Il legame con le autorità ottomane era garantito da rapporti di costante contiguità. «Quelle famiglie arabe esercitavano la loro influenza attraverso una sorta di interdipendenza con i turchi. Solo pochi notabili sembravano attratti dall’idea di una totale indipendenza araba da Costantinopoli»7.
Finché il territorio palestinese rimase marginale rispetto ai mutamenti indotti dall’affermarsi di un mercato globale, che coinvolgeva il Mediterraneo, fu relativamente semplice vedere confermato l’antico equilibrio tra i gruppi che lo abitavano. Le riforme amministrative introdotte nell’Impero già segnalavano però il rinnovamento che ...

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