La carrozza della Santa
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La carrozza della Santa

Cristina Cassar Scalia

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La carrozza della Santa

Cristina Cassar Scalia

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La notizia di un omicidio scuote Catania, gelando gli ultimi entusiasmi della piú sentita ricorrenza cittadina. Mentre nell'aria si avverte ancora l'odore acre dei fuochi d'artificio, Vanina Guarrasi è alle prese con un caso che fa scalpore.«Vanina è una di noi e ci fa ridere perché nelle sue battute ritroviamo un'antica ragionevolezza, arma di sopravvivenza imperitura nei mondi difficili».
Roberta Scorranese, «Corriere della Sera» È la mattina del 6 febbraio, la festa di Sant'Agata si è appenaconclusa e «la Santa», come tutti la chiamano, è rientratanella cattedrale. Nell'atmosfera distratta, da fine evento, che pervade strade e popolazione, un uomo viene ritrovatoin una pozza di sangue nell'androne del Municipio, dentrouna delle Carrozze del Senato. L'opinione pubblica è sconvoltae il sindaco in persona sollecita l'intervento della Guarrasi.La vicenda si presenta subito ingarbugliata, un intrico di piste checonducono sempre alla vita privata e familiare del morto, VascoNocera. Vanina, però, fatica a dedicare all'indagine l'attenzioneche meriterebbe. A Palermo sta accadendo qualcosa che esigela sua presenza; è un richiamo che non può ignorare. Stavolta piúche mai per la soluzione del mistero saranno importanti l'aiutodella sua squadra e l'impegno del commissario in pensione BiagioPatanè, che a dispetto dell'età non si ferma davanti a niente.- Il sindaco di Catania è qui? - fece la Guarrasi, stupita, rinfilando nel pacchetto la Gauloises che stava tirando fuori. - No, è al telefono. Vanina premette il pulsante e mise in vivavoce. - Guarrasi, - rispose, riprendendo la sigaretta. - Buongiorno, dottoressa, sono Ferdinando Bellavia. - Oh, signor sindaco, buongiorno -. L'aveva incontrato appena la sera prima, che potevavolere adesso? - Scusi se ho chiesto direttamente di lei, ma date le circostanze mi è sembrato meglio evitare troppi giri. - Mi dica, - tagliò corto Vanina. - Qui in municipio è stato appena trovato... un morto, - il sindaco prese fiato, - ammazzato.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2022
ISBN
9788858439692

1.

L’alba era spuntata che ancora il fercolo non aveva iniziato la salita di Sangiuliano. Un tempo, diceva la guida, al monastero delle Benedettine di via dei Crociferi, Sant’Agata ci arrivava appena prima che sorgesse il sole. In quell’unica occasione, le monache violavano per qualche minuto la clausura e omaggiavano la patrona della loro voce. Quella mattina, come in effetti succedeva ormai da anni, il «canto dell’alba» aveva accompagnato il nono rintocco delle campane e la Santa era rientrata in Cattedrale con un clamoroso ritardo, accompagnata dai devoti piú fedeli che consumavano gli ultimi scampoli di voce.
Estelle e Nina erano state in giro tutta la notte. Avevano seguito e fotografato ogni momento della festa, fino alla sua conclusione. Gli ultimi giorni a Catania meritavano un reportage degno dell’accoglienza che la Sicilia aveva riservato loro quando, tre mesi prima, il programma Erasmus le aveva portate lí e le aveva fatte incontrare. E pensare che entrambe, senza nemmeno conoscersi e partendo da città diverse, avevano storto il naso quando le rispettive università – Avignone per Estelle e Lille per Nina – avevano comunicato loro la sede del soggiorno di studio. L’avevano accettata obtorto collo, giusto perché non c’erano altre opzioni. Invece era stato un periodo indimenticabile.
Nina si abbandonò stremata su un gradino del basamento che sorreggeva l’elefante di piazza Duomo.
– Ho i piedi arrotolati.
Estelle le si sedette accanto. – Cioè sono ripiegati su loro stessi? – la provocò. S’erano imposte di parlare solo in italiano anche tra loro.
– Senti, professora, non devo laurearmi in Lingue straniere, io –. Nina era iscritta a Beni culturali.
– Hai ragione, – sbadigliò Estelle. – Anch’io sono stanca. In questi tre giorni avremo fatto… quanti chilometri? Ventimila?
Nina si strinse nelle spalle. – Non ho tenuto il conto.
– Però avevi ragione: ne valeva la pena, chissà quando ci ricapita di assistere a una festa simile.
Nina girò gli occhi sulla piazza, all’improvviso quasi vuota, e si soffermò sulla Cattedrale, dove Sant’Agata riposava dopo tre giorni di giri per la città. Ancora se li ricordavano, lei e Estelle, i fuochi della prima sera. A sira ’o tri, dicevano i loro amici catanesi, altrimenti tradotto «la sera del tre». Il 3 di febbraio, ma questo lo ritenevano ovvio per precisarlo.
Palazzo degli Elefanti, il municipio di Catania, aveva ancora il portone spalancato.
– Estelle.
La ragazza sollevò la testa che aveva appoggiato sulle ginocchia.
– Cosa c’è?
– Sai che in tre mesi non siamo mai entrate nel palazzo piú importante di Catania?
Estelle si voltò verso sinistra. – Ah… Ed è molto grave?
– No. Però, visto che tra qualche giorno ripartiamo, approfittiamone per dare un’occhiata all’interno.
– Io invece andrei dall’altra parte, – indicò il bar davanti al duomo, – un bel croissant, un café au lait… – Nina, però, era già in piedi e stava scendendo dal basamento.
Estelle alzò gli occhi al cielo. Ma una volta, una sola, che fosse riuscita a farle cambiare idea?
– Almeno mi giuri che poi abbiamo finito il tour e andiamo a dormire? – le gridò, inseguendola.
Passo spedito e fotocamera in mano, come aveva fatto per tutta la notte, Nina glielo giurò.
Davanti al portone aperto non c’era nessuno.
Nell’androne del palazzo, da un lato e dall’altro, in due spazi delimitati da cordoni rossi c’erano due carrozze. Di fattura e dimensioni diverse.
– Guarda, Estelle! – fece Nina eccitata. – Hai capito cosa sono quelle?
– No, cosa sono?
– Le carrozze… come le appellava Tommaso? Del… governo?
– Del Senato, – lesse Estelle su una tabella.
– Ecco, sí, del Senato. Quelle che hanno sfilato di mattina tre giorni fa, e che noi non abbiamo visto. Ricordi cosa ci ha raccontato Tommaso?
Tommaso era uno dei migliori amici che s’erano fatte lí a Catania. Per Estelle qualcosa di piú, anche se non l’avrebbe mai ammesso.
– Ah, sí. Mi ricordo.
Nina s’avvicinò alla carrozza piú grande, la piú ricca, e scattò una foto.
– Sarà almeno del Settecento –. Scavalcò il cordone.
– Che fai?! E se arriva un gendarme? – si allarmò Estelle.
– Ma no. Non c’è gendarmerie in giro –. Nina avanzò ancora, cauta.
– E se c’è una videocamera di sorveglianza?
– Non ne vedo –. Allungò il braccio sulla portiera della carrozza.
– Non aprire! – la richiamò Estelle.
Nina provò a tirare la maniglia e la portiera cedette subito.
– Era accostata, – si giustificò, voltandosi verso l’amica e ridendo. La vide fissare, immobile, l’interno della carrozza, la faccia in tinta con il cappotto beige.
– Che… che cos’è? – indicò Estelle, la mano tremante. – Sembra… un piede…
Nina tornò a guardare la carrozza e sporse la testa dentro.
Urlò come non aveva mai urlato in vita sua.

2.

Gli uffici della Mobile si stavano ripopolando. Il servizio d’ordine per la festa di Sant’Agata era massacrante, ma era un onere che gli uomini e le donne della squadra si assumevano da sempre con grande impegno. E con altrettanto impegno e abnegazione, a esclusione di chi aveva passato l’intera notte appresso alla Santa, la mattina del 6 febbraio si presentavano in servizio.
Il vicequestore aggiunto Giovanna Guarrasi, detta Vanina, aprí la porta dell’ufficio che mancava poco a mezzogiorno. Parte della notte l’aveva trascorsa sul campo insieme ai colleghi. Poi, a una certa ora, aveva ceduto e se n’era tornata a Santo Stefano: feste patronali e processioni non erano cosa per lei. Manco il Festino di Santa Rosalia – da palermitana quasi si vergognava a dirlo – riusciva a coinvolgerla minimamente. Caos, confusione, grida che in confronto le abbanniate del mercato di Ballarò parevano richiami garbati. Quello che i palermitani urlavano in onore della Santuzza, però, Vanina lo sapeva piú o meno a memoria. Uno cominciava: «Nutti e jornu faría sta via!» Tutti rispondevano: «Viva santa Rusulia!» Un altro faceva: «Ogni passu e ogni via!» Tutti: «Viva santa Rusulia!» E avanti cosí, come una specie di preghiera. I devoti di sant’Agata, invece, si incitavano a vicenda. «Cittadini! Cittadini!», chiamava uno. A quel punto gli altri murmuriavano «Viva sant’Agata», ripetuto tre volte. Finché il capo designato non poneva la domanda piú ricorrente in quei tre giorni di festa: «Semu tutti devoti tutti?» La risposta, convinta, di cui Vanina non capiva il significato era: «Cett, cett, cett», o almeno questo pareva che dicessero.
Il vicequestore si fermò sulla soglia della sua stanza. Buio quasi assoluto. Qualcuno, verosimilmente steso sul divanetto accanto al balcone, russava cosí forte da rischiare di staccare dalle pareti i pochi quadri appesi.
Vanina riconobbe la sagoma.
– Spanò, – disse, a voce troppo bassa per ottenere qualche risultato.
S’avvicinò al divano.
– Spanò, – ripeté, alzando il tono.
Nessun segno.
– Ma vedi tu… – mormorò, divertita. Appoggiò sulla scrivania il vassoio di rosticceria che aveva portato per la squadra, lo aprí e tirò fuori una pizzetta. Si avvicinò di nuovo e la agitò sotto il naso del dormiente.
– Spanò, sveglia.
L’uomo smise di russare, si strofinò i baffoni neri e si grattò il naso. Poi si girò dall’altra parte.
Vanina si spazientí.
– Ispettore capo Carmelo Spanò!
Il poliziotto spalancò gli occhi, in apnea.
– Matruzza santa, dottoressa, mi scusi! – Balzò in piedi, imbarazzato, e ricadde subito seduto. – La testa mi girò.
– Ca certo: lei si alza cosí, di colpo –. Vanina andò ad aprire le persiane.
L’ispettore si rialzò, stavolta lentamente, scuotendo la testa. La mano sulla fronte. – Madunnuzza chi malacumparsa.
– Ma quale malacumparsa, – minimizzò Vanina.
Si tolse il giubbotto e andò a sedersi sulla poltrona dietro la scrivania.
– Venga qua, si prenda ’sta pizzetta. Tanto ormai la salsa di pomodoro è tutta sui baffi suoi.
Spanò rise e si accomodò davanti a lei. Sbirciò il vassoio.
– Mizzica, che spiegamento di forze! Bar Santo Stefano?
Domanda inutile, gli rispose Vanina con gli occhi.
Dal giorno in cui, circa un anno e mezzo prima, aveva scelto il paese di...

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