La sostenibilità è un'impresa
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La sostenibilità è un'impresa

Una bussola per il business tra sfide globali e greenwashing

Marco Stampa, Donato Calace, Nicoletta Ferro

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La sostenibilità è un'impresa

Una bussola per il business tra sfide globali e greenwashing

Marco Stampa, Donato Calace, Nicoletta Ferro

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Una bussola per orientare le realtà imprenditoriali, divise tra i rumori di fondo della comunicazione "green", spesso concepita come fine e non mezzo, e le complessità di norme, standard e buone pratiche. La finanza e movimenti d'opinione come "Friday for future", i 17 obiettivi fissati dall'ONU e la crisi pandemica hanno messo in cima alle agende di tutti il tema della sostenibilità. Ma cosa significa davvero parlare, nelle sue varie accezioni, di "sviluppo sostenibile" e come tutto questo ha a che fare con le aziende e le loro prospettive strategiche? In questo libro gli autori guidano il lettore in un percorso che dalle origini della sostenibilità giunge ai fenomeni finanziari contemporanei e ai processi in cui tutte le imprese sono ormai coinvolte, dovendo fronteggiare sfide globali come il cambiamento climatico e l'impatto sulla biodiversità, oltre che le richieste sempre più pressanti da parte della società civile. Arricchito dagli interventi di esperti europei in tema di sostenibilità e completato da un capitolo dedicato alla Cina, è un'utile mappa per chi oggi è impegnato a svolgere un nuovo mestiere in azienda, affinché non si perda la rotta che porta verso un futuro migliore per tutti.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2022
ISBN
9788836006861
Da dove nasce la sostenibilità d’impresa
Di Donato Calace e Marco Stampa
Le origini nel tempo e nella storia
Prendere coscienza di sé è uno degli aspetti che differenziano la specie umana dagli altri esseri viventi. In molti interessanti filoni di ricerca intrapresi dagli studiosi da diverse basi scientifiche e culturali (antropologia, zoologia, teoria dello sviluppo, ambientalismo, sociologia, evoluzionismo ecc.), soprattutto dagli anni Novanta in poi sono stati addotti molti fondati argomenti per evidenziare il nesso tra la presenza e la diffusione dell’Homo Sapiens sulla Terra e il contesto delle risorse ambientali e dei modelli di sviluppo dominanti che ne hanno caratterizzato l’evoluzione e la diffusione. Un’evoluzione che ha portato a dominare su tutte le altre specie1 e a creare periodicamente le condizioni di squilibrio che oggi affrontiamo e che sono le sfide insite nel concetto di “sviluppo sostenibile”.
Volgersi indietro per cercare di capire la logica del rapporto, continuamente rimesso in discussione, tra la popolazione umana, la sua distribuzione geografica, l’articolazione in classi, il rapporto con le risorse del territorio e con l’organizzazione della produzione agricola, i rapporti sociali, culturali e di potere da instaurare, difendere o sovvertire a seconda dei punti di vista e degli interessi, è un esercizio che ha un certo fascino in sé ma ne ha ancora di più se concepito come utile, ovviamente in sintesi, per capire il presente e le lezioni che se ne possono trarre.
Per rompere il ghiaccio su un tema così “alto” e iniziare a svolgere la trama di questo libro, prendiamo a prestito una curiosità storica tratta da un momento particolare di una delle civiltà più studiate della storia umana, quella dell’Impero Romano. Si ha notizia che il retore greco Temistio, vissuto durante il periodo di decadenza dell’Impero nella seconda metà del IV secolo d.C., rivolse un elogio all’imperatore Teodosio I per la sua politica di accoglienza verso le tribù dei Goti. Questo popolo spinto verso ovest dalla pressione degli Unni e dalla scarsità di terre coltivabili – ecco un classico problema di risorse – premeva disperatamente ai confini danubiani dell’Impero. Temistio arrivò addirittura a paragonare il nuovo umanitarismo verso i barbari, che caratterizzava opportunisticamente in quel momento la politica romana verso l’immigrazione (la Storia ripete spesso importanti paradigmi), alla preoccupazione per la scomparsa di specie animali allora già a rischio di estinzione come “gli elefanti della Libia, i leoni della Tessaglia e gli ippopotami del Nilo”, facendo professione di ambientalismo ante litteram2.
Questa citazione storica, che in tutta franchezza non consiglieremmo di utilizzare in una presentazione di induction sul tema di fronte a un Consiglio di Amministrazione, risale a un periodo in cui certamente l’esercizio dell’attività economica, peraltro largamente incentrata sulla schiavitù come forza motrice, non poteva portare una grande consapevolezza intorno al problema dell’utilizzo delle risorse naturali nel mondo conosciuto o nelle parti di esso che avevano raggiunto, anche indipendentemente una dall’altra, un certo grado di evoluzione.
Ma curiosità a parte, non bisogna dimenticare che alla base dello sviluppo di ogni civiltà umana e del suo progredire, maturare, decadere e perfino collassare, al di là delle pulsioni ideologiche e delle sovrastrutture culturali, al di là delle specificità antropologiche, vi è sempre stato il problema del rapporto con l’ambiente ospitante, la conseguente erosione dello stock di risorse naturali sfruttabili con un dato livello di tecnologia e di manodopera e, in particolare, con le opzioni di approvvigionamento energetico.
I destini dei popoli che hanno vissuto la Storia sono dipesi dalle condizioni ambientali e da come essi hanno interagito e modificato queste condizioni3.
Partendo da esempi più vicini a noi, racconteremo brevemente il modo in cui le imprese hanno vissuto problemi che le hanno viste evolvere verso una concezione più coerente e olistica del rapporto con l’ambiente, inteso in senso ampio, in cui operano. Affronteremo alcuni temi che hanno uno stretto collegamento con le questioni dello sviluppo della società civile e dei rapporti sociali che ai temi ambientali sono intrecciati, per poi estrarre qualche buona lezione o buona pratica da mettere a frutto, si spera, per una compatibilità tra l’organizzazione dell’attività economica dei soggetti imprenditoriali e un futuro più rispettoso degli equilibri del pianeta.
I paradigmi dello sviluppo, come si è detto, hanno sempre gravitato intorno alla produzione di energia e alle sue fonti, oltre che all’organizzazione che il sistema produttivo adotta e che, a sua volta, diviene centro di riproduzione di meccanismi ed equilibri sociali che quel sistema deve garantire. Un po’ di sana memoria aiuta quindi ad avere un metodo di comprensione delle variabili in gioco se si deve operare da dentro una struttura organizzata per conseguire degli obiettivi di successo sul mercato e di creazione di valore in generale, sulla cui definizione siamo convinti si debba spendere qualche riflessione. Non bisogna temere di sconfinare nell’astrattezza teorica se si fa riferimento e si analizzano tutte le dinamiche del contesto nel quale siamo immersi e le istanze, a volte anche contraddittorie, che questo proietta sull’agire dell’impresa.
Una consapevolezza del rapporto con le risorse del pianeta emerge con tutta la sua forza solo quando si sono rese evidenti le tendenze più forti dello sviluppo capitalistico a partire dalla prima rivoluzione industriale tra la fine del ’700 e la prima metà dell’800 e, successivamente, dal potente sviluppo del capitalismo delle manifatture, delle ferrovie e del carbone prima e dell’energia elettrica, del petrolio, della chimica e dell’automobile poi, nella seconda metà dell’800 e in tutto il ‘900. Questa forte dinamica espansiva non ha avuto riscontri con altre epoche del passato della civiltà umana in termini di crescita della popolazione, di apertura di quasi tutte le aree geografiche del pianeta e di cambiamento del tenore di vita di larghe fasce della popolazione. Essa ha visto, nel momento di decollo del suo sviluppo, l’utilizzo del petrolio come combustibile di maggior successo per la produzione di energia elettrica e anche come materia prima e quindi come fattore determinante per la produzione di beni e servizi, la mobilità delle persone e delle merci, quindi come fonte di inarrestabile crescita economica. È interessante notare che mentre le forze produttive e la logistica dell’integrazione degli impianti di produzione di energia, del trattamento dei combustibili fossili e della loro distribuzione e utilizzo si espandevano con una complessità e una vastità mai sperimentata prima, anche l’organizzazione del lavoro nelle imprese cominciava a risentire di questi cambiamenti, e già si facevano strada negli anni Trenta del ‘900, nei primi dipartimenti di relazioni del lavoro delle aziende americane, metodi all’avanguardia nella nuova organizzazione funzionale alle mutate esigenze del capitalismo delle grandi imprese, viste come generatrici di welfare per i propri dipendenti, per favorire la produttività del lavoro e il consenso sociale verso il modello capitalistico dominante4. L’attenzione alla produttività del capitale umano ha gettato le basi affinché nel secondo dopoguerra, una sorta di antesignana “responsabilità sociale” dell’industria cominciasse a emergere sia negli Stati Uniti sia in Europa. Questi prodromi di responsabilità sociale hanno iniziato ad accompagnare lo sviluppo economico del secondo dopoguerra come complemento da parte dell’industria privata, in un quadro di consenso sociale e di ricostruzione, rispetto all’espansione dei sistemi di welfare pubblici.
Almeno fino alla fine degli anni Sessanta questo modello ha funzionato nell’Occidente sviluppato per rimarginare le ferite della Seconda guerra mondiale, aiutare la ricostruzione post-bellica e consolidare una crescita che è stata tra le più dinamiche della storia economica. La distribuzione di questo welfare pubblico e di questo impegno dell’industria ha preso direzioni diverse e non sempre confrontabili. Si pensi al welfare scandinavo da un lato e all’assistenzialismo italiano in parte indirizzato alla questione meridionale dall’altro o, sempre in Italia, al modello di impresa pubblica a partecipazione statale che ha avuto la missione di promuovere lo sviluppo economico del Paese anche in aree arretrate e con l’accompagnamento di misure di compensazione sociale a vantaggio di comunità e dipendenti dell’impresa stessa.
Da Olivetti a Mattei, l’impresa si fa umana?
A questo proposito, per un pubblico attento alle vicende storico-economiche italiane, l’origine di un discorso alternativo più “umanizzante” e socialmente responsabile5 rispetto ai modelli di business dominanti lo si può ritrovare senz’altro negli anni del secondo dopoguerra in Italia nella figura di imprenditori illuminati e visionari come sono stati, per citare i due nomi più famosi, Adriano Olivetti ed Enrico Mattei.
La visione di Olivetti era quella di un’impresa che avesse una missione di crescita sociale e di fabbrica aperta e solidale con la comunità circostante. Questo si traduceva in opere integrate con il territorio e in modalità gestionali che si collocavano molto lontano dallo standard prevalente del capitalismo industriale italiano, trovando in qualche modo un complemento nella strategia di Enrico Mattei, fondatore dell’Ente Nazionale Idrocarburi (poi semplicemente “ENI”), di puntare a rafforzare nel secondo dopoguerra un’industria fondamentale per lo sviluppo di un Paese che usciva da perdente dalle rovine della Seconda guerra mondiale. Uno sviluppo basato sull’energia e poi sull’integrazione verticale della petrolchimica che, almeno nelle intenzioni, dovevano essere volano di sviluppo e di crescita sociale per un Paese storicamente escluso dai primi posti della gerarchia del capitalismo internazionale, specie sul fronte della disponibilità di fonti di energia e dell’approvvigionamento di materie prime.
La realizzazione concreta dei poli industriali, soprattutto nel Sud del Paese, ha poi in parte contraddetto questa visione, lasciando in alcuni territori pesanti eredità ambientali e di salute pubblica il cui risanamento non è ancora stato risolto. Ma della funzione dell’impresa pubblica che diventa anche “sociale” cercheremo di tener conto in questo volume, perché nel bene e nel male ha avuto un’importanza che forse ancora persiste e ha effetti sul tema della sostenibilità, anche se chiaramente all’epoca citata non era intesa esattamente nel senso in cui la intendiamo oggi.
Tutto questo è storia, ed è un aspetto della storia d’Italia che ha dato vita, a seconda dei periodi, a un dibattito intenso e passionale e a una grande produzione di studi e analisi, ma è bene ricordarne, ai nostri fini, alcuni passaggi importanti.
In Italia sono emerse abbastanza presto le problematiche ambientali poste da uno sviluppo fondato da un lato su alcuni grandi poli industriali che rappresentavano in pieno la contraddizione tra la creazione di posti di lavoro da un lato e la salute, l’incolumità pubblica e gli impatti ambientali dall’altro. Ma anche la contraddizione tra i grandi insediamenti industriali (alcuni di questi, come Priolo in Sicilia e Taranto in Puglia, in dimensioni da primato continentale) e un proliferare di piccole e medie aziende sparse a macchia di leopardo con diverse vocazioni industriali sul territorio. Sembra passato un secolo, ma nel 1992 un’indagine Censis-Istituto per l’Ambiente poneva il degrado ambientale al quarto posto nelle preoccupazioni degli italiani, con più del 29% delle risposte (il 38% e 44% se, nel campione, si enucleavano le risposte rispettivamente dei diplomati e dei laureati). Il tema della salute e dell’ambiente è quindi diventato rapidamente di dominio pubblico e soggetto a intensa produzione normativa. Dalla metà degli anni Ottanta in poi, la produzione legislativa in tema ambientale è schizzata verso l’alto. Alla fine del decennio Novanta, solo nel settore rifiuti si contavano più di sessanta atti di natura legislativa e normativa. Pietre miliari di questo approccio iper-normativo sono stati il DPR 175 del 1988 sui grandi rischi industriali, che faceva seguito alla cosiddetta “Direttiva Seveso”6 e i due DPCM7 del 1988, che regolavano le norme per l’ottenimento della pronuncia di compatibilità ambientale di opere e impianti e disciplinavano la VIA (Valutazione di Impatto Ambientale). Questi provvedimenti erano piombati sui tavoli dei manager degli uffici sicurezza e ambiente di aziende che sulle materie ambientali non avevano all’epoca un approccio pianificato e programmatico, se non una dimestichezza tecnica con le varie norme che si succedevano a regolare le attività operative in particolari comparti per le necessarie autorizzazioni (emissioni in atmosfera, scarichi idrici e rifiuti).
La filosofia della valutazione di impatto applicata al contesto ambientale di un insediamento produttivo portava già una prima novità nel rapporto tra le imprese e il loro contesto esterno: affrontare il tema della compatibilità tra un’opera e il suo funzionamento nell’ambiente circostante, andando oltre le specifiche tecniche legate a questa o a quell’altra tipologia settoriale di impatto in aria, acqua, suolo o paesaggio.
Un po’ di benevola tenerezza, se così si può dire, accompagna il ricordo delle prime riunioni convocate a forza di fax in stanze piene di fumo negli uffici a vetrate dei grandi enti energetici, allora (e ancora oggi) assi portanti dello sviluppo economico italiano insieme all’industria dell’auto. Quanti stimabili tecnici e manager d’azienda, esperti e magari un po’ anzianotti, tecnicamente preparati anche se non troppo empatici, si facevano venire il mal di testa davanti ai testi di normative e alle loro specifiche tecniche che sottolineavano l’inserimento e le criticità dell’opera o dell’impianto all’interno di un complesso quadro programmatico di sviluppo dell’area geografica di riferimento e del suo contesto ambientale. Che effetti avrebbero avuto sulla conduzione delle operazioni? Come ci si voleva rappresentare nei confronti delle autorità da una parte e delle comunità locali dall’altra?
Quelli erano in effetti i primi tra i dilemmi che avrebbero lastricato la strada delle buone intenzioni e già erano caratterizzati per certi versi da non secondari aspetti metodologici di interazione/integrazione tra un’opera e il territorio circostante discussi peraltro anche in tavoli esterni alle imprese, come quelli organizzati da enti di ricerca e di normazione, un embrione di ragionamento sulla pianificazione dello sviluppo anche se ancora non propriamente sostenibile. Anche sull’onda di questa stagione di provvedimenti normativi in un’organizzazione complessa come quella di una grande azienda energetica, venne introdotta la consuetudine di redigere studi locali sulle aree più critiche dal punto di vista degli impatti generati sul territorio. Erano lavori certamente incompleti, “fatti in casa” con le poche fonti a disposizione, poco utili all’interno e poco influenti sui processi decisionali e l’allocazione degli investimenti (che sarà sempre, ad onta dei proclami, una delle cartine di tornasole di un’incisiva politica di sostenibilità). Ma quei dossier, se non altro, furono utili nel portare all’attenzione del management le criticità di alcune questioni ambientali e l’esistenza di un contesto che chiedeva risposte a problemi pressanti di qualità dell’aria, delle acque e del suolo e come l’insediamento produttivo, spesso frutto di anni e anni di stratificazioni storiche e di scelte industriali non sempre permeate dalla logica e dalla razionalità, oltre che, va detto per onestà, dalla contemporanea presenza di crescite urbane locali incontrollate, forse compatibile con altri obiettivi dei quali la collettività si doveva far carico: la salute dei cittadini in primis, ma anche la cura e la vocazione “naturale” del territorio. Er...

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