1.
Scrivere in terza persona
Gli storici hanno iniziato a scrivere in terza persona fin dall’antichità, quando non c’erano ancora demarcazioni nette fra la storia, la poesia, la tragedia e l’eloquenza, tutte «istituzioni fondate sulla parola e radicate nella polis», come scriveva Nicole Loraux.
Benché avesse partecipato alle guerre del Peloponneso, prima in qualità di generale ateniese, poi come esule, Tucidide non voleva scrivere in veste di testimone di questo evento. Voleva, da storico, ricostruire il conflitto descrivendo i fatti in modo oggettivo, e ciò esigeva una narrazione in terza persona. Dunque non scrisse La guerra del Peloponneso come avrebbe fatto un poeta, perché non voleva abbellire o mitizzare le vicende del passato. Prese le distanze dai «logografi» – così definiva i cronisti del VI e V secolo –, i quali scrivendo la storia componevano le loro opere «più a diletto dell’ascolto, che a severa indagine della verità» e parlavano di fatti non verificabili, non potendo quindi aspirare a una qualsivoglia autenticità. Il suo metodo era diverso, poiché si prefiggeva lo scopo di produrre «un sapere analizzando con infinita cura e precisione, naturalmente nei confini del possibile, ogni particolare dei fatti cui avessi di persona assistito, o che altri mi avessero riportato» (I, 21). Sia riguardo agli avvenimenti di cui era stato testimone, sia per quelli di cui aveva una conoscenza indiretta, procedeva con grande cautela. Si appellava quindi alla benevolenza del lettore, il quale doveva prepararsi al «tono severo della [sua] storia, mai indulgente al fiabesco», un tono che poteva forse «suonare scabro all’orecchio» (I, 22). La sua opera era tesa a «scrutare e penetrare la verità delle vicende passate» (I, 22), e questo lavoro di ricostruzione rigorosa e fattuale richiedeva una narrazione impersonale. Secondo l’antichista Luciano Canfora, è introducendo inaspettatamente un “io” narrante che Senofonte, il quale completò l’opera di Tucidide, rese la propria scrittura riconoscibile nei capitoli 25 e 26 del libro V. Questo passaggio dalla terza alla prima persona mirava anch’esso ad accentuare la veridicità del racconto fornendo la prova del testimone oculare. Questa guerra, scriveva, «l’ho vissuta intera, stagione dopo stagione, maturo d’anni per indagarla e intenderla criticamente, studiandone ogni fase con riflessiva premura, con rigore assoluto di documentazione e di scienza» (V, 26). Il successore di Tucidide scelse dunque un doppio registro narrativo che articolava il racconto impersonale dello storico (Tucidide) con quello, scritto in prima persona, del testimone (Senofonte stesso).
A partire dalla nascita della storiografia moderna come disciplina che rivendica la sua scientificità, verso la fine del Settecento, la scrittura in terza persona è divenuta una delle sue regole fondamentali e – si supponeva fino a tempi recenti – incontestabili. La sua premessa è abbastanza semplice: concepita come un’operazione razionale di ricostruzione fattuale e di descrizione cronologica e contestualizzata degli avvenimenti del passato, la storia implica una distanza, uno sguardo esterno che solo una narrazione impersonale può garantire. Per essere rigorosamente ricomposto e compreso nella sua profondità, il passato va alleggerito degli strati di sentimenti e di emozioni che lo avvolgono. Si tratta di un compito essenziale che solo un osservatore esterno – estraneo non solo cronologicamente, ma anche psicologicamente ai fatti che descrive – può assolvere. Leopold von Ranke, il fondatore dello storicismo tedesco, concepiva la storia come punto d’incontro fra scienza (Wissenschaft) e formazione (Bildung), fra i procedimenti rigorosi della ricerca e la missione educativa implicita in ogni sforzo di produzione del sapere. A un tempo mestiere e vocazione – due idee riunite nel concetto tedesco di professione (Beruf) secondo la definizione weberiana del lavoro scientifico –, la storia non poteva, a suo avviso, assumere la forma di un racconto soggettivo, tantomeno intimo. Mentre gli Stati-nazione parevano incarnare, in termini hegeliani, il suo compimento, la storia divenne un racconto collettivo e pubblico, necessariamente impersonale e oggettivo, che rischiava a volte di confondersi con un atto notarile, un resoconto pronto per essere archiviato. La storia concepita come discorso scientifico ha codificato le sue regole assimilando e fondendo i procedimenti messi a punto da altre discipline, in particolare la retorica del diritto (un’arte della persuasione fondata sull’esibizione di prove) e le pratiche sperimentali della medicina (una diagnostica basata su osservazioni empiriche). La conoscenza del passato ne implicava innanzitutto l’oggettivazione e la descrizione razionale, secondo una visione solo di recente messa in discussione con l’avvento della “svolta linguistica” nelle scienze umane e sociali.
Questi assiomi non sono stati modificati neppure dall’irruzione della memoria nel campo storiografico. Ponendo l’accento sul suo carattere eminentemente soggettivo, gli storici l’hanno sempre considerata come una fonte tra le altre, anch’essa bisognosa di convalidazione, verifica e confronto. Insomma, la memoria si è presentata allo storico come un nuovo oggetto d’indagine. Nella sua introduzione ai Lieux de mémoire (1984) Pierre Nora riafferma una distinzione quasi ontologica – già teorizzata da Maurice Halbwachs fin dagli anni Venti – fra la memoria e la storia, sottolineandone la dicotomia costitutiva: la memoria è fatta di ricordi, mentre la storia si basa sulle fonti; la memoria è la presenza di un passato ancora vivo, laddove la storia presuppone l’assenza e la fissità di ciò che è ormai accaduto e cessato; la memoria è la percezione soggettiva di un passato descritto dalla storia come un’esperienza reificata e ormai conclusa. I ricercatori possono scrivere una storia della memoria collettiva, ma sempre collocandosi dalla parte della prima, non della seconda. La memoria – su questo non si insisterà mai abbastanza – è solo una delle fonti che ingombrano i loro laboratori, dove si affianca a documenti d’archivio, testi, lettere, immagini, film e oggetti materiali di ogni genere. Inutile precisare che, se incontrano o raccolgono dei ricordi, essi devono verificarli, decifrarli, contestualizzarli e interpretarli, in altre parole “reificarli”; non hanno il diritto di sostituirli o mescolarli con i loro ricordi, anche se fossero tentati di farlo. L’esperto in storia orale raccoglie le voci degli attori del passato con il rispetto, l’umiltà e il pudore che le loro testimonianze esigono, ma anche con la distanza critica necessaria, giacché è tenuto a verificare scrupolosamente la corrispondenza tra racconti e fatti. In alcuni casi, se non ha a che fare con dei mentitori, è proprio lo scarto fra la parola dei testimoni e i fatti attestati che, una volta analizzato e spiegato, permette un reale approfondimento della conoscenza del passato. Obiettivo dello storico è capire ciò che è avvenuto, non mostrare in che misura la scoperta del passato lo riguardi personalmente o lo aiuti a sondare le profondità del proprio animo. Interrogare il passato attraverso il prisma dei propri ricordi non è il lavoro dello storico, bensì quello del memorialista. Chi sente questo bisogno farebbe meglio a soddisfarlo in un luogo discreto come le pagine di un diario. È per questo che Tocqueville, autore dell’Antico regime e la Rivoluzione (1856), aveva concepito i suoi ricordi del 1848 come una sorta di “specchio” in cui poter guardare i suoi contemporanei e sé stesso, anziché come un quadro destinato ad essere esibito in pubblico. Questa raccolta di osservazioni aveva un carattere strettamente privato e non avrebbe dovuto essere resa nota se non post mortem. I suoi amici non poterono leggerla e fu pubblicata soltanto nel 1893: «Il solo scopo che mi prefiggo scrivendo [questi ricordi] – sottolineava – è quello di procurarmi un piacere solitario, il piacere di contemplare in solitudine un dipinto vivente della società umana». Questa rievocazione era soggettiva e per questo doveva rimanere «interamente segreta».
Dato che la terza persona costituiva una regola condivisa e incontestabile, per uno storico scrivere le proprie memorie diventava una sorta di trasgressione. La storia, sottolinea Jeremy D. Popkin, «richiede una significativa sublimazione dell’io», il che porta a definire l’autobiografia come l’espressione di un desiderio più o meno cosciente di violare questa norma consolidata. All’epoca del positivismo trionfante, gli storici francesi ostentavano la loro ripugnanza per l’individualità. Gabriel Monod, il fondatore della «Revue historique», e i suoi eredi, in particolare Numa-Denis Fustel de Coulanges e Charles Seignobos, concepivano la loro disciplina come una sorta di ascetismo radicale che cancellava completamente la loro soggettività. Tale atteggiamento, lamentava Charles Péguy, uno dei primi scrittori a respingere la separazione fra storia e letter...